Insegnare la letteratura contemporanea
Questo intervento è stato scritto in occasione del corso di formazione regionale “Insegnare la contemporaneità”organizzato a Catania il 23-24-25 febbraio 2016 dall’ADI/SD Catania, dall’Editore Palumbo e dall’Università degli Studi di Catania – Dipartimento di scienze umanistiche.
1. Alla fine degli anni Venti, subito dopo la Riforma Gentile, nei programmi scolastici figuravano autori contemporanei come Carducci, Pascoli e D’Annunzio (quest’ultimo era ancora vivo, gli altri due erano morti da pochi anni). Novant’anni dopo le colonne d’Ercole dell’insegnamento della letteratura italiana si sono spostate di poco: arrivano, sì e no, a Calvino e a Pasolini. La ragione di questo ritardo si capisce: l’estraneità della società italiana alla letteratura è diventata anche estraneità alla letteratura contemporanea. Se, all’epoca di mio padre, conoscere Carducci, Pascoli e d’Annunzio era un requisito necessario per far parte della classe dirigente di allora, per quella di oggi sembra invece circostanza condivisa ignorare Montale o Gadda e non conoscere nemmeno il nome di Luzi (come dimostra la gaffe di un ministro della Repubblica qualche anno fa quando il poeta fiorentino fu nominato senatore a vita).
D’altronde non mancano obiezioni all’insegnamento della letteratura contemporanea, diffuse anche nel corpo insegnante. Si afferma per esempio che sarebbe impossibile storicizzare la contemporaneità, periodizzarla e individuarvi un canone. Queste obiezioni hanno un fondamento nella oggettiva difficoltà che si incontra nella periodizzazione e canonizzazione del presente, anche se questa difficoltà esisteva pure negli anni di Gentile e, qualche decennio prima, De Sanctis aveva trascorso buona parte della sua vita e della sua attività di studioso a storicizzare il proprio secolo e a imporre nella scuola come classici due autori a lui contemporanei, Leopardi e Manzoni. Ma in effetti il presente ci sta a ridosso e non è facile individuarvi i tratti dominanti, mentre il canone, oggetto comunque di una ininterrotta negoziazione sociale, diventa più chiaro solo a una certa distanza. Inoltre insegnare bene la letteratura contemporanea comporta anche la conoscenza della storia, della filosofia e delle arti degli ultimi decenni, e insomma una serie di cognizioni che non è facile acquisire.
E tuttavia, mentre nessuno, insegnando l’Ottocento, farebbe leggere oggi ai propri studenti i romanzi di Grossi o di Rovani, insegnando invece il secondo Novecento il docente di italiano è costretto a brancolare nel buio, scarsamente aiutato sia dalle indicazioni ministeriali sia dai manuali scolastici che offrono una gamma di autori spesso indiscriminata e un poco casuale.
Storicizzare la contemporaneità, periodizzarla, provarsi con la dovuta cautela a indicare gli autori più rappresentativi è dunque difficile ma necessario. Senza conoscere le costellazioni, i raggruppamenti di stelle, gli astri più luminosi il cielo risulta indecifrabile ed è impossibile orientarvisi. E poi non si tratta solo di aggiungere semplicemente degli autori a quelli già consacrati dalla tradizione (di “fare spazio”, come si dice, ai più recenti), ma di studiare in modo diverso quelli del passato. Conoscere la contemporaneità vuol dire rivedere l’intero patrimonio letterario dalla prospettiva, dall’orizzonte di valori, dalle urgenze problematiche del presente, non per appiattirlo sull’oggi o per porre in risalto solo le analogie, ma anche per poter apprezzare e valutare le differenze. Ricostruire il rapporto passato-presente comporta tanto una messa a punto storico-filologica del primo quanto una assimilazione del secondo quale filtro di domande attuali da porre alla tradizione.
2.
Non intendo dunque sottrarmi al compito – per quanto arduo e rischioso, lo so – di tentare una periodizzazione e di proporre un canone sommario che possano servire come orientamento ai docenti.
Partirò da una domanda a questo punto ineludibile. Quando comincia la contemporaneità? La letteratura contemporanea è una disciplina universitaria che parte dagli anni della Rivoluzione francese e arriva a oggi. Copre insomma quasi due secoli e mezzo, buona parte dei quali riferibili piuttosto alla letteratura moderna e modernista. Direi che la contemporaneità letteraria può datarsi o dalla fine della seconda guerra mondiale o dagli anni del postmoderno e della globalizzazione,e insomma o dal 1945 o dagli anni settanta del Novecento. Si possono portare buone ragioni per entrambe queste date. Io però opterei decisamente per la seconda. Il 1945 infatti non è una data letteraria: il neorealismo era affiorato nel cinema e in letteratura già qualche anno prima, anche se si afferma con forza specifica nel dopoguerra, e inoltre continua la linea della tradizione realistica del moderno (da Manzoni a Verga, assunti a modelli, come si proponeva in quegli anni). Da parte loro lo sperimentalismo di «Officina» e l’avanguardismo del Gruppo 63 sono fenomeni evidentemente neomodernisti in continuità con le istanze più innovative del primo Novecento europeo. Ebbene, è in questa cultura letteraria, fra neorealismo e sperimentalismo, che si formano gli unici autori del secondo Novecento entrati nel canone scolastico e cioè Primo Levi, Fenoglio, Pasolini, Calvino, Sciascia (assai meno Gadda, Volponi, Luzi, Zanzotto, Rosselli o Sanguineti). Dopo di loro, il vuoto, o quasi.
Questo vuoto si può spiegare. La seconda metà degli anni settanta segna infatti una cesura nella società e nella cultura, una cesura che si approfondisce e si chiarisce definitivamente nell’ultimo ventennio del secolo. Nasce allora in Europa il cosiddetto postmoderno o età della globalizzazione, un periodo della civiltà occidentale che dura tutt’oggi. E nasce anche – in Italia, appunto, alla fine degli anni settanta – una nuova tendenza letteraria, il postmodernismo che invece, come ogni movimento letterario dalla Scapigliatura a oggi, dura poco più di un ventennio e tende a estinguersi alla fine del secolo o all’inizio del nuovo (può fare data l’attentato alle Torri gemelle nel settembre 2001) per lasciare posto a una nuova tendenza che alcuni, sulla scorta di una proposta di Raffaele Donnarumma, chiamano ipermoderno. Il postmoderno insomma è un tipo di civiltà, di relazioni socioeconomiche e culturali, è un modo di percepire noi stessi, il tempo e lo spazio, che mantiene nel tempo lungo i caratteri essenziali che lo definiscono anche se progressivamente ne cambia alcuni e ne assume altri di nuovi; mentre il postmodernismo è una tendenza di poetica e di gusto letterario e artistico che si è affermata agli inizi del postmoderno e precisamente negli ultimi due decenni del Novecento.
Si potrebbe dire che in un certo senso il Novecento letterario finisce – almeno per quanto riguarda la narrativa e la saggistica, in misura minore la poesia – negli anni settanta, e ciò contribuisce a determinare il senso di spaesamento che la contemporaneità letteraria suscita fra gli insegnanti, che si trovano davanti un paesaggio nuovo a cui non sono preparati. Basterebbe pensare al fenomeno più vistoso: la scomparsa della figura dello scrittore-intellettuale, accompagnato da un’aura di sacralità e di scandalo e impegnato nella società civile. Ormai sono i grandi apparati di comunicazione di massa a svolgere (a modo loro, s’intende) il compito di mediazione che un tempo era appannaggio della loro funzione. Non per nulla in questi anni vengono meno gli ultimi grandi intellettuali della tradizione italiana: Pasolini, Fortini, Calvino, Sciascia, protagonisti di appassionati dibattiti e interpreti dei fatti politici più salienti del periodo. Dopo, anche chi si rifà alla loro lezione, come Saviano, non ha certo l’aura (e la cultura) del grande scrittore-intellettuale ma piuttosto l’immagine mediatica – è stato detto – di una rockstar o, al massimo, del giornalista di grido che ci parla dagli schermi televisivi.
Il postmoderno coincide con la rivoluzione elettronica e con la nuova centralità che viene ad assumere la produzione di beni immateriali e in particolare del linguaggio. Le parole e i segni sostituiscono le cose. Nomina nuda tenemus, Eco dixit, con quel che segue. L’intertestualità, prima di diventare una metodologia critica, è una visione del mondo che ha a che fare con questi nuovi modi di produzione e con l’influenza che essi hanno sul sensorio, sulla mentalità e sui modi di percezione, con ovvie e ormai note conseguenze: interrelazione fra locale e globale, progressivo offuscamento dell’esperienza diretta, smaterializzazione dell’esistenza, trionfo del virtuale e della società dello spettacolo e dei simulacri, della rappresentazione e della rappresentazione delle rappresentazioni. Sul piano sociale si avvia un processo che è sempre più evidente a mano a mano che ci si inoltra nell’ipermoderno e che, in un libro recente, una economista, Laura Pennacchi, definisce in questi termini molto efficaci: desoggettivazione dell’io, desocializzazione dell’individuo, depolititicizzazione della società. Si tratta di tre fenomeni convergenti, reciprocamente correlati e anzi dipendenti l’uno dall’altro. Gli ultimi grandi intellettuali italiani ancora attivi negli anni settanta cominciarono a registrarli allora e vi videro un cambiamento radicale che Pasolini, come è noto, chiamò rivoluzione antropologica.
All’inizio, nella fase del postmodernismo, la nuova centralità del linguaggio, dei segni e delle rappresentazioni e la ideologia dell’intertestualità del mondo producono l’illusione della fine della materialità e della stessa realtà e, in letteratura, l’affermazione delle metanarrazioni, della riscrittura, del citazionismo (tutto è stato già scritto e detto e dunque può essere solo citato) e del pastiche (nel senso, spiegato da Jameson, della blank parody o parodia bianca o, direi piuttosto io, della parodia non parodica). Contemporaneamente la fine della distinzione fra letteratura di ricerca e letteratura di consumo certifica il primato dl mercato e contribuisce ad abbattere i confini che garantivano separatezza e prestigio alla sfera artistico-letteraria. Poi, negli anni più recenti dell’ipermoderno, quando la crisi economica e l’esplosione delle contraddizioni materiali diventano pressanti e non più eludibili, tendono ad affermarsi nuove forme di realismo (testimonianze dirette, autobiografie, cronache di fatti storici, reportage…). Da questo punto di vista, e a prescindere anche dal suo valore letterario, Gomorra rappresenta indubbiamente una svolta. Forme nuove di realismo, ho detto, e l’aggettivo va sottolineato perché risentono delle fortissima mediazione sia delle recenti tecniche di comunicazione scritta e visiva (documentari, film, serie televisive, pubblicità, fumetti, graphic novel e manga in particolare), sia del filtro della soggettività quale si è andata modificando e strutturando sotto l’influenza di internet, dei blog, dei social network, della posta elettronica (esibizione della intimità, privatizzazione del pubblico e pubblicizzazione del privato, scrittura esclamativa ecc.). Si è parlato, a proposito di questa produzione letteraria, di neo-neo-realismo, ma in realtà le nuove tendenze non hanno niente in comune con l’esperienza del dopoguerra: come si sarà capito, la visione del mondo e i modi della rappresentazione sono infatti radicalmente diversi.
3.
Ho appena descritto alcuni caratteri della letteratura nata col postmoderno e della sua evoluzione negli ultimi quaranta anni. Vorrei indicarne ora due su cui l’attenzione degli studiosi si è forse meno impegnata: la fine del letterario, con la conseguente ibridazione o contaminazione dei linguaggi, e la globalizzazione.
All’inizio degli anni sessanta Sereni aveva progettato una rivista dal titolo Questo e altro, dove questo stava per il letterario. Proponeva insomma un confronto serrato fra la letteratura e ciò che sta fuori della letteratura, la società e la politica. Per Sereni la letteratura aveva confini ancora certi: poteva e doveva aprirsi al mondo esterno e ad altri linguaggi diversi da quello letterario, ma mantenendo la propria identità. Gli anni sessanta segnano la crisi del genere lirico: Pagliarani con La ragazza Carla, gli altri novissimi, Pasolini, Sereni stesso con Gli strumenti umani, Giudici con La vita in versi, Caproni con Congedo del viaggiatore cerimonioso, anche lo Zanzotto di La Beltà, persino il vecchio Montale di Satura e dei diari introducono nel linguaggio poetico il lessico pubblicitario, industriale, della informazione giornalistica e televisiva, persino di un manuale di dattilografia. E tuttavia la letterarietà resta evidente sia nello sperimentalismo formale dei novissimi, sia nel linguaggio e nel ritmo più tradizionale di Sereni, Caproni o Luzi. È diventata una letterarietà “inclusiva”, come scrisse allora Raboni: una letterarietà che accoglieva e assorbiva in sé l’extraletterario. Persino Sanguineti, che annunciava di voler sabotare la letteratura, lo faceva ricorrendo alla forte mediazione delle avanguardie letterarie e dell’ironia iperletteraria della tradizione crepuscolare. Se poi consideriamo i romanzi che andavano per la maggiore in quegli anni, bisogna riconoscere che essi o pagavano dazio allo sperimentalismo avanguardistico proponendo di fatto un nuovo linguaggio letterario o non mettevano affatto in discussione il linguaggio letterario della tradizione (si pensi a Malerba, Manganelli, Consolo, Volponi da un lato, a Cassola, Moravia, Morante, Sciascia, Calvino dall’altro). A partire dalla seconda generazione postmodernista, quella dei cosiddetti cannibali, nella narrativa il linguaggio letterario comincia a dissolversi. Al posto dell’apertura del letterario all’extraletterario si assiste al trionfo del linguaggio parlato e televisivo e alla ibridazione fra linguaggi. Se nei cannibali è il linguaggio della pubblicità a far la parte del leone, oggi, negli anni dell’ipermoderno, può essere quello del reportage o dell’indagine giudiziaria o del saggismo sociologico o storiografico o della serialità televisiva (per il saggismo, si pensi al caso Saviano, per fare un solo esempio, ma si potrebbero citare anche quelli più recenti di Trevi, Scurati, Colombati o Falco). Altre volte, semplicemente, il romanzo di oggi è scritto così come si parla in un bar, con un progressivo restringimento del lessico, sempre più usurato, e la sua sempre più frequente ibridazione con il linguaggio televisivo, con quello dei network, con i più diversi gerghi settoriali, ma anche ovviamente con il lessico delle lingue straniere (inglesi soprattutto) e con parlate che direi simildialettali che nascono dal deperimento dei dialetti. D’altronde anche le tecniche di scrittura sono sempre più tributarie di quelle della serialità e dei loro modi espressivi e comunicativi. Se a ciò si aggiunge il dominio della mercificazione, e cioè la quasi totale scomparsa di criteri editoriali ispirati a scelte di qualità e l’ assoluta e schiacciante prevalenza di quelli economici, il quadro è pressoché completo.
In poesia la presenza del condizionamento economico è molto minore e i processi sono perciò più lenti e graduali, data anche la forza della tradizione e la resistenza del genere, che per propria natura è fortemente codificato. Il linguaggio letterario vi sopravvive dunque, seppure a fatica, come testimonia un poeta, Valerio Magrelli, che nel suo ultimo libro così inizia una sua poesia in cui parla della lingua dei poeti (e non solo ovviamente della loro):
Adesso parleranno tutti uguale,
tutti la stessa lingua che ci ha tolto la nostra.
Hanno cacciato l’alfabeto tra i campi
braccandolo come un fuggiasco, come un ladro,
l’alfabeto dei padri.
La crisi del linguaggio letterario, d’altronde, non è che un aspetto della crisi della letteratura. In altri termini si è passati dalla letteratura della crisi (quella della prima generazione postmodernista di Eco, di Tabucchi e dell’ultimo Calvino) alla crisi della letteratura. È finita l’autonomia della letteratura, la sua separatezza e la sua sacralità. Il questo di Sereni non esiste più. A mano a mano che la sua identità va evaporando, la letteratura si deposita come una polvere impalpabile in una sere di altri ambiti (sceneggiature, pubblicità, scritti filosofici, storiografici, giornalistici….) diventando un “poetese”, avrebbe detto Sanguineti, buono per tutti gli usi. Ma tutto è diventato letteratura perché niente è più letteratura. È finita anche la dialettica anceschiana fra autonomia ed eteronomia della letteratura. Uno scrittore può essere impegnato o disimpegnato, ma nessuno se ne lamenterà né in un caso né nell’altro. La letteratura è diventata eteronoma, non perché abbia ceduto all’impegno politico, ma perché i mutamenti tecnologici, economici e sociali in corso ne hanno dissolto i confini. Che riesca a trovare un’altra identità nella contaminazione può darsi, ma non è detto. Il processo è in corso e i suoi esiti sono tutt’altro che scontati.
La globalizzazione ha conseguenze particolarmente incisive, anche in questo caso, sulla narrativa. E non solo perché si diffonde, in seguito alla immigrazione, il fenomeno di scrittori algerini o egiziani o senegalesi o pakistani o iraniani o albanesi che scrivono anche in italiano, ma anche perché la produzione diretta nella nostra lingua e soprattutto, molto più frequentemente, la traduzione di opere di autori del cosiddetto terzo mondo sono sempre più significative e numerose, tanto da cominciare a insidiare lo stesso primato occidentale (la battaglia sul canone nelle università degli Stati Uniti è da tal punto di vista esemplare). Anzi, molto probabilmente l’iniezione di questo sangue nuovo e vitale ha contribuito in modo decisivo a porre in discussione il postmodernismo: una letteratura fondata sulla riscrittura e sulla metaletterarietà è entrata in crisi sotto l’urto delle rinascenti contraddizioni materiali ma anche sotto la pressione di una letteratura che parla di fame, di viaggi di fortuna, di dittature e di guerre spaventose, di esistenze in esilio. Le forme attuali di realismo nascono anche da questa nuova situazione (nuova per l’Italia e per la vecchia Europa; negli Stati Uniti non è mai venuta meno una linea, fra Roth e Delillo, di modi fra loro diversamente realisti).
4.
La crisi della letteratura è anche crisi della forma saggio. Il critico letterario si sente mancare il terreno sotto i piedi. La materia stessa su cui si esercita sta smottando costringendolo a cercare terra ferma in altri campi o a intraprendere tentativi in nuove direzioni come da tempo, e comunque assai prima degli addetti alla letteratura, hanno fatto i cultori di discipline limitrofe, come gli storici, i filosofi, o gli studiosi del mondo antico.
La crisi della forma saggio comporta anzitutto il tramonto della critica concepita come momento di tensione fra impegno etico-politico e impegno letterario e culturale. Come è declinata la figura storica dell’intellettuale quale si è andata configurando dall’illuminismo a oggi, così nell’ultimo trentennio appare ormai esaurita, almeno in campo umanistico, la sua forma specifica di espressione, il saggio, sempre più spesso sostituito dall’intrattenimento giornalistico e dallo studio accademico. Si crea così una situazione che si ripercuote anche sulla condizione dell’insegnante, che, in quanto mediatore e interprete, appare oggi l’ultima espressione di una funzione intellettuale assediata all’interno di quella sorta di riserva indiana che è oggi la scuola e perciò avvertita come meramente residuale. La attuale crisi dei docenti di materie umanistiche insomma non è che un aspetto di una crisi più generale che riguarda il tramonto tanto della critica quanto della figura storica dell’intellettuale.
Il saggio alla Fortini, alla Cases o alla Pasolini non è più praticabile perché sono venuti meno il mandato civile e la società che esso presupponeva. Il declino del saggio è anche da collegarsi alla scomparsa di una intera civiltà letteraria fondata sul valore e sulla sacralità della letteratura che, nel bene e nel male (il male non è mancato), è stata attiva sino a una trentina d’anni fa. Ma anche il saggio alla Sapegno o alla Muscetta o, per altri versi, alla Contini o alla Praz non è più possibile a causa, nel primo caso, della fine di un ruolo pubblico dell’intellettuale umanista e nel secondo della scomparsa di un gusto elitario e della società letteraria che lo coltivava. Insomma, come è stato detto, il saggio muore schiacciato «dalla tentazione di dire tutto a nessuno, o dire nulla a tutti».
Accanto al discorso d’intrattenimento, incessantemente promosso per via televisiva dal mondo giornalistico, resta ovviamente lo studio accademico. Ma la produzione accademica oggi è a circuito chiuso: è rivolta alla istituzione, nasce e finisce lì. È settoriale e specialistica; ed è asfittica perché non ha più intorno il respiro di una società civile che la accolga e possa nutrirsene.
In questa situazione bisogna nondimeno registrare una tendenza di tipo saggistico che cerca di sfuggire alla tenaglia della scelta fra intrattenimento e accademismo pure in qualche modo utilizzando l’uno e l’altro. È un fenomeno parallelo a quanto sta avvenendo nel romanzo, in cui, come ho già osservato, il nesso fra saggistica e narrativa è un carattere ormai molto evidente. In questo caso la componente narrativa è egualmente presente, ma all’interno di un processo espositivo in cui convergono istanze diverse, a volte didattiche e divulgative, a volte, invece, intese a ricercare la complicità e la curiosità del lettore, ma che comunque mirano a sostenere una tesi e perlopiù un assunto propriamente argomentativo. Insomma è in atto il tentativo di creare nuove forme di saggistica non accademica e attenta agli stili comunicativi dei blog e di internet, e infatti ne sta prendendo atto anche la editoria: si pensi a una collana come Solaris lanciata da Laterza. Anzi, questo fenomeno si sta riscontrando anche nella scuola con i tentativi in atto di dare vita a forme nuove di insegnamento della letteratura in cui il ricorso gli strumenti della tradizione si unisce all’impiego di quelli elettronici e audiovisivi e al riferimento costante alla cultura del mondo giovanile ri-usata a scopo didattico.
5.
In questa situazione la formazione di un canone è resa più ardua dalla mancanza di una società letteraria, dal dominio del mercato, dalla volatilità televisiva delle opere, dal vorticoso sovrapporsi delle top ten list. E tuttavia negli anni del postmodernismo alcuni titoli fanno epoca, perché segnano un periodo storico, e alcuni nomi spiccano fra gli altri: Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, Il nome della rosa di Eco, Il gioco del rovescio e Piccoli equivoci senza importanza (più che Sostiene Pereira) di Tabucchi, e successivamente, fra i cosiddetti “cannibali”, i romanzi e i racconti di Ammanniti e Nove. Poi, fra postmodernismo e ipermoderno, con tratti dell’uno e dell’alto, indicherei la trilogia (poi riunita in Il dio impossibile) di Walter Siti, e particolarmente Troppi paradisi, che mi pare il suo capolavoro, e fra gli autori ipermoderni naturalmente Gomorra di Saviano ma anche Sandokan del vecchio Balestrini, e forse il recente La vita in tempo di pace di Pecoraro. Per la poesia, che ha una vita assai più umbratile e appartata e conserva un legame con la tradizione molto più forte del romanzo, la definizione di un canone è più facile perché favorita dalle antologie che in questo campo svolgono da sempre questo compito. Mi limito a ricordare, fra le molte possibili, quella di Afribo che seleziona otto fra i poeti più significativi fra anni ottanta e oggi: Valerio Magrelli, Patrizia Valduga, Gabriele Frasca, Fabio Pusterla, Umberto Fiori, Stefano Dal Bianco Antonella Anedda, Mario Benedetti.
6.
Per finire, due conclusioni, riguardanti una il posto della letteratura contemporanea nella didattica della letteratura e, l’altra, un giudizio, per quanto rapido e sommario, sulle tendenze del presente, sin qui da me descritte solo in modo neutrale e oggettivo.
L’insegnamento della letteratura si va orientando sempre di più, come è giusto, verso forme di approccio ai testi che esaltino il momento ermeneutico, storico-culturale, tematico e antropologico piuttosto che quello retorico, filologico o erudito. Per sostenere questo tipo di insegnamento appare indispensabile una buona conoscenza critica della contemporaneità come punto di vista complesso e problematico da cui muovere per attribuire senso e valore al patrimonio del passato e per rimotivarne la lettura. Gli anni del postmodernismo e dell’ipermoderno hanno rilanciato per esempio il romanzo storico (non solo in Italia con Il nome della rosa e con le opere di Vassalli, dell’ultimo Malerba o di Consolo, ma anche all’estero: basterà ricordare il meritato successo internazionale di Le benevole di Littel) e sarebbe utile confrontarlo con la tradizione che dai Promessi sposi giunge sino a noi passando attraverso I viceré De Roberto o I vecchi e i giovani di Pirandello o Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa o le opere di Sciascia, con un passaggio significativo dalla storia all’antistoria, da un mondo di valori a uno negativo sino al nichilismo, da personaggi che vogliono essere di carne e ossa a personaggi di carta e di citazioni (come quelli di Eco). E altrettanto si potrebbe fare per la ripresa della narrazione autobiografica, che un tempo documentava la verità di una esistenza e che ora -si veda il caso di Siti – gioca sull’autofiction e racconta la verità con l’intento di far capire che è una invenzione menzognera o racconta una invenzione menzognera per far capire invece che è una verità; o per quella del romanzo realista fondato su indagini, reportage e documenti e sulla sua apparente continuità e sostanziale rottura col modello neorealista e con quello naturalista (l’approccio di Saviano è viscerale, più istintivo e corporale che ideologico o scientifico). La conoscenza della letteratura contemporanea, insomma, non è necessaria solo per colmare una lacuna nella formazione scolastica dei giovani, ma anche come passaggio obbligato per tornare a leggere gli autori del passato. Se infatti la storicizzazione e la conoscenza storico-filologica rendono forte l’opera dinanzi all’interprete, anche questi deve diventare più forte attraverso la consapevolezza delle domande attuali da porre ai testi e alla tradizione che essi costituiscono. Ogni testo tanto più e tanto meglio risponde, quanto più urgenti e motivate sono le domande che siamo in grado di porgli.
Passo ora al giudizio sulle rapide trasformazioni che stanno attraversando il campo letterario. Posso dire che non rimpiango il passato e nello stesso tempo non ho molte speranze per il futuro. Che non esistano più un linguaggio letterario e una repubblica delle lettere non può essere oggetto di rimpianto. Sappiamo tutti, dopo Bourdieu, come è nata una società letteraria e su quali valori, o disvalori, si fondasse, su quali privilegi, talora illusori ma non meno reali. E lo stesso si deve dire per l’autonomia del letterario e l’ideologia della sua sacralità quale è stata praticata almeno per due millenni, a partire dal favete linguis di Orazio. L’identità della letteratura quale si è costituita attraverso i secoli ha portato in sé il segno di quella barbarie di cui hanno parlato Benjamin e Marx, il primo in una tesi in cui ha illustrato il nesso fra civiltà e barbarie, il secondo in una pagina famosa in cui ci ha mostrato di che lacrime grondino e di che sangue i polpastrelli della mano di Beethoven.
E tuttavia in quell’idea di letteratura restava, seppure distorta, l’allusione a un valore, a qualcosa che andasse oltre il contingente e l’immediato e che provocasse o potesse provocare commozione e ammirazione. E se nessuno oggi potrebbe rimpiangere le miserie, i riti meschini e i privilegi della cosiddetta repubblica delle lettere, altra cosa era l’eco che l’attività letteraria e saggistica avevano nella società civile e, nel dopoguerra europeo, persino all’interno del movimento operaio (anche qui con luci e ombre che vanno ricordate e distinte). È esistito un tempo insomma in cui la letteratura e la saggistica potevano almeno conservare l’aspirazione a superare la propria separatezza in senso non consumistico ma civile e a entrare in un dibattito generale e in un conflitto delle interpretazioni che attraversava una parte non indifferente del corpo sociale. Oggi l’insignificanza della letteratura e della saggistica, e dello stesso insegnamento delle discipline umanistiche, appare segno ed emblema di una insignificanza più generale e complessiva che traspare da ogni aspetto della nostra vita, e di uno stato di impotenza e di minorità che riguarda tutti.
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