Addio postmoderno. Torna il realismo. Intervista a Romano Luperini
A cura di Paolo Di Stefano
Una circolazione a circuito interno. Così Romano Luperini definisce il destino della saggistica letteraria. Ed è curioso, e forse allarmante, perché Luperini è da oltre quarant’anni un instancabile scrittore di saggi sempre al confine tra impegno etico-politico e impegno letterario, sin dai suoi primi lavori sul Verga, sempre in un’ottica ampia che comprende la condizione intellettuale, lo stato della letteratura, la critica del presente. Con l’ultimo libro, Tramonto e resistenza della critica (pubblicato da Quodlibet), a 74 anni vuole chiudere i conti, «per le ragioni dell’età — dice — e per il logoramento che questa comporta». E aggiunge: «Per chi si scrive e per cosa si scrive sembra diventata questione superflua». Il paradosso è che questo libro (di saggi) è anche un’apertura al futuro della letteratura nei suoi rapporti con la società.
Questa apertura sembra favorita, secondo Luperini, dal declino del postmoderno, obiettivo polemico molto tenace nelle sue indagini, e dal ritorno di uno sguardo più realistico capace di leggere nella concretezza il contesto sociale e storico: è quello che provvisoriamente è stato definito l’«ipermoderno». Ne parliamo da Siena, dove Luperini ha insegnato per anni. «In un’epoca di contraddizioni materiali come la nostra, con le sue urgenze politiche ed economiche, è entrata in crisi l’idea postmoderna che esista solo il linguaggio: il tempo della leggerezza, del nichilismo ilare non ha più senso. Tornano dunque le tematiche non del neo-realismo, che aveva altre radici, ma di un nuovo realismo e di un nuovo modernismo erede del primo Novecento europeo». L’esempio italiano più significativo, secondo Luperini, e anche il più recente è Francesco Pecoraro, con il suo romanzo La vita in tempo di pace: «Racconta una giornata in cui si riflette un’intera vita: sullo sfondo c’è in tutta evidenza l’Ulisse di Joyce, ma anche Céline e Gadda… È un romanzo di grande impegno, un romanzo esagerato, con forzature e prolissità, ma offre un prisma di storia privata e pubblica, dal dopoguerra a oggi, con una sensibilità addirittura idiosincratica e viscerale reattività».
Sull’ipermodernismo come passaggio a un’epoca nuova della narrativa italiana, si sofferma Raffaele Donnarumma in un libro uscito di recente per il Mulino. È il risultato di un dibattito non solo teorico aperto dalla rivista «Allegoria» dello stesso Luperini. In questo solco vengono segnalati autori di generazioni diverse: «È un’area molto variegata, che ha affinità con il documentarismo cinematografico, e che sembra abbastanza unitaria non tanto sul piano formale quanto sul piano tematico-referenziale: penso, per esempio, a Campo di sangue di Eraldo Affinati e a L’abusivo di Antonio Franchini, ma anche ai nuovi sviluppi di certi cannibali come Aldo Nove e Nicolò Ammaniti, che hanno vissuto un passaggio dal trash e dal noir, dall’immaginario pubblicitario (legato al consumo televisivo e all’ipermercato), verso un interesse per l’Italia storica e riconoscibile o per la realtà contemporanea, come quella del precariato (vedi Mi chiamo Roberta di Nove). Erano loro gli eredi del postmodernismo di Tondelli, ma adesso sono diventati altra cosa».
Un altro nome è quello di Walter Siti: «Con Troppi paradisi si è spinto al limite estremo del postmodernismo, quasi a un punto di rottura, con un tono cinico-ironico, di nichilismo allegro, facendo agire il linguaggio televisivo e quello alto. Poi con Resistere non serve a niente ha recuperato una sorta di personaggio balzacchiano a tutto tondo, ponendosi in una prospettiva decisamente ipermoderna». Per definire un’epoca bisogna individuarne la dominante. Negli anni Ottanta vigeva il verbo combinatorio e metaletterario anche in Italia: «Il nostro — dice Luperini — è un Paese più realista del re: prende sul serio tutte le mode e le esalta, e ciò avviene soprattutto nella narrativa. Il nome della rosa ha dato la stura a tutto il postmodernismo, ha aperto in modo indiscriminato al noir e al giallo: ora per fortuna il riferimento alla letteratura di genere è in crisi. Ma il postmodernismo italiano ha avuto altri rappresentanti importanti: l’ultimo Calvino, Tabucchi, Tondelli, fino ai cannibali e ai Wu Ming. E ancora oggi continua: si pensi a Una storia romantica di Antonio Scurati, che riprende il romanzo storico, il romanzo “popolare”, mescolando Foscolo e Nievo, Manzoni e Montale, Valéry e Dumas».
Si sta parlando di libri e di prospettive molto diverse anche sul piano dello stile: «Certo, ma il metodo è sempre quello di far parlare la realtà e l’esperienza: sia essa quella di un viaggio ad Auschwitz, dell’omicidio di un giornalista amico, della condizione di un giovane in un paese di camorra, del lavoro giovanile o della criminalità organizzata. Sono tendenze documentarie che già negli anni Novanta si rifacevano al reportage giornalistico». A proposito di distanze generazionali: spunta sempre, nei saggi di Luperini sulla narrativa, il nome dell’ex neoavanguardista Nanni Balestrini, accanto a quello del giovane Roberto Saviano. Un ottantenne a fianco di un trentacinquenne. «Gomorra, pur con i suoi limiti, compresa la scrittura approssimativa e spesso enfatica, è stato un momento di svolta: un libro nuovissimo, che metteva al centro un mondo referenziale che fino ad allora — dopo un periodo in cui la realtà andava scritta tra mille virgolette — era guardato con sospetto: Gomorra segnalava che, diversamente da quel che alcuni teorizzavano, il mondo materiale esiste, con le sue emozioni e i suoi traumi. La denuncia è l’altra faccia di questo realismo rinascente dalle ceneri del postmoderno. Con Saviano il “bene” e il “male” tornavano a essere percepiti come tali e la marginalità si andava organizzando nella forma della denuncia. Sandokan di Balestrini ha non solo lo stesso argomento, ma anche la stessa vocazione epica, declinata in forma diversa, attraverso il fluire di un parlato privo di punteggiatura, con la ripetizione di alcune parole-chiave che cambiano di lassa in lassa».
Saviano ha fatto tornare in auge anche un’idea che sembrava superata, quella dell’impegno intellettuale nella società. Il nome di riferimento è quello di Pasolini: «Anche questa è un’eredità del moderno. Si tratta però di un nuovo tipo di intellettuale: non è Pasolini, Fortini o Sciascia. Più che di impegno, parlerei di partecipazione civile, un modo più periferico, consapevolmente marginale. Mentre Pasolini sapeva di poter influenzare la società e sapeva di essere centrale, una sorta di legislatore, i nuovi lavoratori della conoscenza sono degli outsider, dei dilettanti sprovvisti di autorità, che hanno delle reazioni istintive rispetto alla realtà: trovano la loro ragion d’essere nel fatto di rappresentare persone e istanze periferiche che di solito sono dimenticate. Il guaio è quando diventano invece centrali, cioè mediatici, come è successo a Saviano, che da intellettuale delle periferie escluso dai grandi giochi e ricercatore precario che andava in scooter sui luoghi del crimine è diventato un personaggio televisivo. Rischiano allora di perdere tutta la loro efficacia originaria».
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NOTA
Questa intervista è apparsa sul “Corriere della Sera” del 20 agosto 2014. Si ringraziano autore e giornale per la gentile concessione.
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