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diretto da Romano Luperini

Si vis pacem para bellum? Sulla manifestazione del 15 marzo

Pensare e agire controtempo (Emanuele Zinato)

Non credo che vada appoggiata, come ha fatto il principale sindacato italiano, la manifestazione per l’Europa promossa dall’appello di Michele Serra su Repubblica: credo si tratti di una grave mistificazione, non di un errore. È casomai un errore quello di un giurista democratico, Luigi Ferrajoli, che sul Manifesto dell’11 marzo argomenta come occorra partecipare comunque perché in tutto l’occidente trionfano le “derive parafasciste” di Trump e di Milei. Ferrajoli ammette che “ormai da molti anni l’Europa ha rinnegato se stessa”, violando due suoi valori costitutivi: la pace con la corsa “insensata” agli armamenti e l’uguaglianza, con “le politiche disumane contro i migranti”.

Von der Leyen e Macron in effetti sono costitutivamente omologhi a Trump, a Meloni o a Milei: ne sono l’altra faccia e, al contempo, la spinta propulsiva. Per storicizzare il fenomeno, e per demistificare le mura e i tetti della nostra “casa comune”, è consigliabile la visione del film di Costa Gavras Adulti nella stanza disponibile su Raiplay: vi si narra di come l’Europa della finanza abbia umiliato nel 2015 il progetto di Syriza e la volontà popolare dei greci. Al progetto “non abbastanza capitalistico” di gestione del debito, l’Europa di Draghi ha opposto il muro del suo memorandum e il tetto della spending review e dei tecnici neoliberali: oggi quel muro e quel tetto sono viceversa resi permeabili alle spese per la guerra. Dunque: se gli apologeti del riarmo europeo insistono con l’idea che Trump abbia lasciato sguarniti gli ex alleati europei contro una possibile invasione russa, va detto con fermezza che si tratta di pura, puerile propaganda bellica.

L’Europa da tempo non è più il soggetto politico nato su un’ipotesi di pace costruita sulle macerie della seconda guerra mondiale: i balletti di morte intorno all’Ucraina e il massacro di Gaza, le condanne Onu cinicamente disattese, la ragion di stato sbandierata in prima serata, rendono vuoti i rassicuranti presupposti pedagogici di democrazia e di cittadinanza, in vigore (anche nel sistema educativo delle skills) nell’ordine europeo e occidentale.

Credo fermamente che, come docenti, dobbiamo agire sul nostro stesso inconscio politico, subalterno al TINA, l’acronimo dello slogan thatcheriano secondo cui il capitalismo è il solo sistema possibile, sulla nostra impotenza, sulla nostra falsa coscienza liberal. La tragedia in atto denuda la condizione del presente: davanti alla propaganda di guerra e all’esibizione sfacciata dei privilegi, va inventato un nuovo alfabeto del dissenso e della diserzione.

Tempo fuori sesto (Stefano Rossetti)

Contrariamente all’auspicio di tante brave persone, sabato non sarò in piazza per l’Europa, né con il corpo né con lo spirito. Sono troppo generiche, al limite del qualunquismo, le parole d’ordine, e assurdo anche il solo pensiero di non avere parole d’ordine. Ѐ troppo alto il pericolo di confondersi con bellicisti e mercanti di morte e di armi, ancorché democratici liberali, convenuti nella stessa piazza per un’Europa radicalmente diversa. Tuttavia spenderò le righe che mi rimangono per dire che noi, che alla pace e a un progresso senza ingiustizia crediamo davvero, non dobbiamo cadere nella trappola di demonizzare o irridere chi promuove la manifestazione e chi ci sarà. Perché c’è un presente di confusione assoluta in cui è facile, come vogliono i tempi malati della comunicazione contemporanea, indicare le contraddizioni altrui. Ma esiste un possibile futuro in cui le persone oneste che militano oggi in campi apparentemente lontanissimi potrebbero trovarsi insieme, per lottare contro i veri nemici, sempre più abili a mascherarsi dietro parole vuote vendute come prodotti popolari. In un modo che oggi può apparire paradossale, l’idea che ci sta dividendo potrebbe diventare l’inizio di un processo di selezione: da una parte chi insegue l’occasione di una momentanea popolarità, di un successo mediatico, di un vantaggio politico; dall’altra chi crede in un ideale etico, accetta di discutere, sente disperatamente l’urgenza di farlo.

Che sia fuori o dentro quella piazza.

Onorare le radici morali dell’Europa (Emanuela Bandini)

Tutti gli anni, la prima domenica di maggio, sul piazzale del campo di concentramento di Mauthausen si svolge la commemorazione della liberazione dell’ultimo campo di concentramento nazista. Tutti gli anni vengono ripetute le parole del giuramento che gli ormai ex deportati condivisero e approvarono:

[…] La pluriennale permanenza nel campo ha rafforzato in noi la consapevolezza del valore della fratellanza tra i popoli.

Fedeli a questi ideali giuriamo di continuare a combattere, solidali e uniti, contro l’imperialismo e contro l’istigazione tra i popoli. Così come con gli sforzi comuni di tutti i popoli il mondo ha saputo liberarsi dalla minaccia della prepotenza hitleriana, dobbiamo considerare la libertà conseguita con la lotta come un bene comune di tutti i popoli. La pace e la libertà sono garanti della felicità dei popoli, e la ricostruzione del mondo su nuove basi di giustizia sociale e nazionale è la sola via per la collaborazione pacifica tra stati e popoli. Dopo aver conseguito l’agognata nostra libertà e dopo che i nostri paesi sono riusciti a liberarsi con la lotta, vogliamo:

  • conservare nella nostra memoria la solidarietà internazionale del campo e trarne i dovuti insegnamenti;
  • percorrere una strada comune: quella della libertà indispensabile di tutti i popoli, del rispetto reciproco, della  
  • collaborazione nella grande opera di costruzione di un mondo nuovo, libero, giusto per tutti […].

Insieme al Manifesto di Ventotene, il Giuramento di Mauthausen è, a mio parere, il testo fondativo dello spirito e dell’etica che dovrebbero informare l’idea di Europa. Ma un’Europa che dimentica i propri principi imprescindibili di solidarietà, di libertà, di pace e di giustizia sociale, e invece sposa la legge del profitto e del più forte, non è quella che i miei nonni mi hanno lasciato in eredità e che speravano per i propri figli, nipoti e pronipoti.

Per questo motivo, pur fermamente convinta della necessità di un’Europa che superi i particolarismi nazionali, sabato non scenderò in piazza.

La ragione nonviolenta (Roberto Contu)

A corredo di quanto nel merito hanno già espresso i miei compagni di redazione, durante un’ora a disposizione nella mia scuola che si trova ad Assisi, mi vengono in mente alcune parole di Aldo Capitini, parole che innervano questa terra di Pace, parole che continuano potentemente a parlare del coraggio adulto della scelta nonviolenta: «La nonviolenza è prova di sovrabbondanza interiore, per cui all’uso della violenza che sarebbe ovvio, naturale, possibilissimo, viene sostituita, per ulteriore ricerca e sforzo, la nonviolenza. Sarebbe anche quindi falsificazione intendere il nonviolento come un pedante occupato esclusivamente a torcere il volto davanti ad ogni minimo atto violento, senza addentrarsi nella vita e nei suoi motivi». Perché poi il punto è proprio questo, l’idea fasulla che la necessità storica chiami l’automatismo incontestabile della forza, della volontà di potenza e di dominio economico tristemente sostenuta anche da presunti intellettuali, ma anche della derubricazione a pedanteria da anime belle di tutti coloro che non si piegano alla logica binaria del conflitto e che sì, continuano a non credere che la risposta alla crisi del tempo presente da parte di quell’Europa unita, sognata, ma forse mai esistita, possano essere i fiumi di denaro spesi in piani di riarmo che di fatto invalidano alla radice anche le tante buone e oneste istanze di chi ha deciso sabato di andare in piazza. Da questo punto di vista e nei termini di una vera e propria conversione in merito alla radicalità necessaria, drammatica, pensante, per un rinnovato e convinto ripudio della logica del conflitto, tornano a essere utili anche queste parole, sempre di Aldo Capitini: «Una volta c’è stato un pacifismo molto blando, tanto è vero che davanti alla Prima guerra mondiale e alla seconda vacillò. Esso credeva di arrivare alla pace molto facilmente attraverso la cultura, la scienza, l’interesse al benessere, il cosmopolitismo delle classi dirigenti. Si è visto poi che non bastavano, e si capisce perché. Non era stato affrontato il lato religioso del rifiuto della violenza, che cioè la violenza si rifiuta in nome dell’amore (e non dello star bene), di una realtà liberata dagli attuali limiti (e non in nome della continuazione di una realtà insufficiente), e con una disposizione al sacrificio, ad essere come il seme del Vangelo che muore per far sorgere la nuova pianta. Il vecchio pacifismo era ottimista, il nuovo è drammatico e di fede nella liberazione dell’uomo-società-realtà dagli attuali limiti».

La guerra è la continuazione della competizione con altri mezzi (Daniele Lo Vetere)

Sono angosciato come tutti dalla torsione autoritaria della politica internazionale, stretta tra un ex funzionario del Kgb al potere ormai da 25 anni e un miliardario corrotto pronto a quasi tutto. Ma non sono disposto ad abdicare al pensiero critico, allineandomi in schiera armata alla logica di guerra che tiene banco da qualche settimana.

Bisogna difendere l’Europa, la libertà e la democrazia, si dice, dalla barbarie che le minaccia. Dunque niente se e niente ma. Dunque bisogna appoggiare il piano di von Der Leyen. Dunque bisogna riscoprire lo spirito guerriero che decenni di pace “femminile” hanno assopito nei nostri giovani. Il collasso logico è totale: da A, solo e soltanto B. Siamo già dentro una logica di guerra: la logica della necessità storica.

Si è già deciso che la Russia invaderà il suolo europeo. Si è già deciso che gli Usa siano Trump e Musk, negando che in quel paese l’opposizione politica, i cittadini, le associazioni, le istituzioni democratiche, i lavoratori possano riorganizzarsi. Tra A e B ci sono molte svolte intermedie, nessuna delle quali è predeterminata.

La velocità con la quale ci si riarma è sospetta. La spiegazione, che da poco più di un mese siamo minacciati da est e non più protetti da ovest e che abbiamo eserciti sottofinanziati, è pura propaganda. Per tacere le collusioni con l’industria bellica della nostra classe politica, ricordo che i tentativi di militarizzare persino la scuola non sono iniziati certo ieri. Le nazioni europee spendono già più della Russia per i propri eserciti. Senza uno Stato europeo vero e proprio, che coordini le politiche di difesa ed estera, avremo soltanto una incontrollata corsa agli armamenti. Si vogliono difendere libertà e democrazia condivise: si rischia di armare piccole patrie in mano a nazionalisti ed estremisti di destra, la cui marea elettorale sta montando.

La legge sulla quale abbiamo continuato a fondare i rapporti internazionali è stata, anche negli ultimi decenni, quella della competizione tra soggetti globali. Solo, finora quella legge è stata declinata nella forma “civile” della competizione tra economie, capitali umani, capacità di innovare ecc… secondo quell’idea che appartiene già al liberalismo classico settecentesco del libero mercato e del libero scambio come supreme forme civilizzatrici. È la retorica che ha prodotto il mito di una Silicon Valley “progressista”. Ma la competizione entro il libero mercato ha prodotto – ed era inevitabile – la rifeudalizzazione: i grandi colossi del Big tech prima sbaragliano la concorrenza con le proprie innovazioni, poi si infeudano monopolisticamente. La concorrenza si spoglia così degli orpelli civilizzatori. I nuovi ricchi esibiscono sprezzantemente il proprio potere. Il desiderio di dominio è messo in piazza. Avanzano le versioni più violente e radicali di neoliberismo, quelle anarcoliberiste e libertariane (si legga Q. Slobodian, Il capitalismo della frammentazione). I nuovi feudatari minacciano guerre di conquista, a volte solo commerciali, a volte no. La Silicon Valley comprende che l’abito progressista non garantisce più profitti e sale sul carro della reazione e dell’autoritarismo.

A questa competizione globale l’Europa dell’austerità, del pareggio di bilancio, della governance finanziaria ha dato il proprio contributo e ora non può illudersi da un momento all’altro di riscoprirsi Europa della libertà e della democrazia.

Il pacifismo o è radicale o non è (Katia Trombetta)

Con la stessa necessità che ha caratterizzato le idee di altre epoche della storia, sarebbe tempo che i pacifisti esponessero «apertamente il loro modo di vedere» rispetto a quanto sta accadendo. Intanto, sarebbe il caso di cominciare da ciò che il pacifismo non è. Certamente non è portatrice di valori di pace la manifestazione del 15 marzo a Roma, rispetto alla quale, con un’incredibile potenza di fuoco massmediatica, si sta tentando una mobilitazione sulla base di due equivoci di fondo. Il primo è l’evocazione di un’Europa dei valori sostanzialmente idealizzata, ma tristemente smentita dalla ferocia delle sue politiche economiche e sociali. Certo, spostando il punto di osservazione dall’Europa occidentale all’Europa orientale, questo processo di idealizzazione sarebbe anche comprensibile. Per chi è vissuto sotto Ceaușescu, o nella segregazione del regime di Hoxha e se lo ricorda, o per coloro ai quali ne è stata tramandata la memoria, l’Unione europea è stata ed è l’alternativa di libertà. E ci mancherebbe solo, verrebbe da dire. Purtroppo però di quelle istanze democratiche e libertarie l’Unione europea non si è mai davvero curata, anzi, le ha utilizzate e piegate alle logiche di una politica eterodiretta. Di qui la sostanziale inesistenza politica dell’Unione, o se vogliamo la sua natura finzionale, che rende quindi retorico qualsiasi discorso sul piano valoriale. Certo, dentro l’evocazione di un’Europa ideale, c’è anche innegabilmente un pezzo della nostra identità. E infatti è proprio su questo che si fa leva. Ancora una volta l’apparato europeo prende e distorce le legittime aspirazioni che costituiscono quel pezzo di identità, restituendocele nella forma pervertita di una inevitabile «pace armata». Si afferma con una logica stringente che non c’è alternativa, bisogna armarsi per difendersi. Ed è ovviamente questo il secondo equivoco di fondo, rispetto al quale c’è davvero poco da sofisticare. Basti solo ricordare la figura e le parole di un pacifista irriducibile, come Giacomo Matteotti: «Il Partito socialista ha il dovere di opporsi continuamente alla guerra, e al suo strumento e creatore, il militarismo — diceva nel 1915 (per questa e le successive citazioni si veda Left) — e vota contro le spese militari». E ancora: «Quando a paladini della patria si ergono i clerico moderati, i nazionalisti, i militaristi, cioè tutti coloro che necessariamente si contrappongono all’idealità socialista, e si servono anzi a tale scopo dello straccetto patriottico — allora noi insorgiamo anche contro la patria». Oggi lo straccetto patriottico è il vessillo dell’Europa contro il quale è necessario insorgere, perché il pacifismo o è radicale, o non è. Non ci può essere nessuna costruzione politica e di pensiero realmente progressista senza questa imprescindibile premessa. Per questo anche la posizione non perfettamente allineata della segretaria del Pd, Elly Schlein, va respinta, in quanto sostanzialmente estranea a un orizzonte pacifista. E per questo tutti i veri pacifisti si augurano vivamente che le tante sacche di dissenso, ad esempio in seno alla Cgil e all’Anpi, che hanno aderito alla manifestazione di sabato, sappiano resistere, disertando la piazza.

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