Intervista a Remo Ceserani su letteratura e insegnamento
a cura di Alberto Sismondini
A oltre dieci anni dalle Sue considerazioni sull’educazione letteraria nella scuola [ faccio riferimento alla Guida allo studio della letteratura], che cosa secondo Lei è cambiato in Italia e nel mondo?
Non mi pare che sia cambiato molto. È in atto da anni una tendenza, in molti paesi e anche in Italia, a trascurare nell’educazione scolastica gli insegnamenti delle cosiddette materie letterarie (la cura della lingua, la ricchezza e le sfumature del linguaggio parlato e scritto, lo spessore della storia), così come di quelli delle scienze forti (la matematica, le scienze naturali, i metodi della ricerca), e a dedicarsi molto di più alle conoscenze pratiche e strumentali o ad apprendimenti molto superficiali. Spesso si contrappongono, nelle discussioni fra pedagogisti e insegnanti, scienze umane e scienze naturali. In realtà le scienze naturali sono spesso trascurate al pari delle scienze umane. Io che mi occupo di letteratura, sono pronto a sostenere con forza la necessità di un forte incremento delle conoscenze scientifiche (fisica, biologia, studio delle piante e degli animali). Non va dimenticato che molti scienziati e filosofi sono stati grandi scrittori, da Galileo a Darwin, da Schopenhauer a Leopardi, da Nietzsche a Freud. Lo sapeva benissimo Calvino .E sono pronto a sostenere la grande importanza, nella formazione sia individuale sia collettiva, delle varie forme dell’immaginario (quindi anche dell’immaginario letterario) per affrontare la vita sempre più complessa delle nostre società. In un libro recente, intitolato Convergenze (Milano, Bruno Mondadori), ho portato molte testimonianze del grande interesse, da parte di molti scienziati (dai matematici ai fisici ai biologi ai neuroscienziati) per alcune delle caratteristiche forti dei linguaggi dell’immaginario: le formazioni metaforiche, il gusto per la narrazione.
Ritiene che al giorno d’oggi la presenza della letteratura nell’educazione di base sia ancora preponderante e che risvegliare l’innatezza poetica dei giovani sia ancora un obiettivo importante per la didattica della scuola dell’obbligo?
Preponderante non direi, c’è un progressivo indebolimento di questi insegnamenti e una forte demotivazione degli insegnanti, loro stessi ormai, salvo eccezioni, molto più abituati a nutrirsi di programmi televisivi che dediti in proprio alla lettura. E tuttavia si trascina una presenza burocratica dell’insegnamento letterario, che fatto senza passione e di routine può solo ingenerare noia e insofferenza. È vero d’altra parte che, soprattutto nei cicli della scuola elementare e media inferiore, se gli insegnanti sono bravi e hanno un vero senso della lingua e del ritmo della poesia, delle capacità metaforiche e inventive del linguaggio, della precisione e chiarezza di un discorso ben strutturato, possono trovare un riscontro entusiasmante negli alunni, i quali amano istintivamente giocare sia con le immagini sia con le parole e hanno un gusto nativo per la narrazione. Non so quanti maestri e maestre elementari oggi operanti hanno mantenuto viva l’eredità di Gianni Rodari, Ersilia Zamponi o Roberto Piumini, ma mi dicono che la qualità delle scuole elementari italiane rimane alta. So per esempio di gruppi di insegnanti californiani che vengono regolarmente in Italia per studiare i metodi di insegnamento di alcune nostre scuole emiliane di avanguardia, soprattutto materna ed elementari. Il tracollo, a parte le eccezioni, nella qualità dell’insegnamento linguistico e generalmente culturale, è avvenuto soprattutto nella scuola media inferiore: errori di impostazione e organizzazione da parte delle istituzioni, programmi e strumenti di lavoro insufficienti, insegnati mal pagati, non sempre preparati, spesso demotivati, nessun controllo della qualità del loro lavoro.
Le antologie letterarie sono tuttora importanti come strumento di avviamento alle pratiche di lettura, di ricerca e di acculturazione e come trasmissori di valori civili e morali? L’integrazione di nuovi media nell’insegnamento è effettivamente avvenuta o il manuale cartaceo mantiene lo stesso ruolo che aveva nel secolo appena trascorso?
Come lei sa io ho allestito a suo tempo, insieme con la compianta Lidia De Federicis, un’antologia, Il materiale e l’immaginario (Torino, Loescher) che ha proposto un modo nuovo di affrontare l’insegnamento della letteratura, mettendola in rapporto con le altre forme del sapere (dalla vita materiale a quella delle idee), allargando la scelta dei testi ben oltre i confini nazionali e affiancando ai grandi testi classici altri testi, per varie ragioni interessanti. Abbiamo anche cercato, il più possibile, di opporci alla tradizione scolastica italiana dell’antologia (la scelta dei brani famosi, il fior da fiore), proponendo per ogni anno almeno la lettura di due o tre testi completi (a questo scopo davamo tutta una serie di strumenti di supporto critico della lettura) e spesso accompagnando le letture con richiami all’integrità del testo, con proposte di allargamento e confronto con altri testi. Il progetto, nato in anni di grandi speranze culturali (vere e proprie utopie), ha avuto per un certo numero di anni uno straordinario successo, presso una classe di insegnanti motivati ma anche di studenti curiosi (ne incontro ancora adesso molti, che mi dicono di aver trovato in quel libro grandi stimoli per la loro formazione). Poi gradualmente sono tornati i vecchi manuali, le vecchie antologie, ma anche qualche buon libro che ha cercato di raccogliere il nostro esempio, pur molto spesso rinunciando ad alcune delle caratteristiche più innovative del modello, per ragioni di praticità. Ora la situazione mi pare che sia in una fase di stanca. Nel frattempo le nuove tecnologie e la possibilità di scaricare i testi dalla rete pongono problemi nuovi e anche nuove potenzialità, che, se fossero sfruttate con intelligenza, permetterebbero di fare delle esperienze molto positive.
Le esperienze di ibridazione che sono avvenute nel mondo anglosassone per vivificare i classici della letteratura, cito concretamente il fenomeno dei “mashup” come Pride and prejudice and zombies di Seth Grahame-Smith o Android Karenina di Ben H. Winters, possono essere intese come un mero fenomeno parodico o l’inizio di un processo di snaturamento del canone letterario in cambio di una maggiore divulgazione?
Ho qualche dubbio sugli esempi che lei cita. Si tratta di manipolazioni magari anche divertenti (soprattutto quelle in steampunk), ma un po’ troppo legate alle mode e ai consumi delle culture postmoderne (horror e fantascienza, di cui i giovani di oggi sono grandi consumatori, soprattutto al cinema e alla televisione). Ci sono esempi più seri e fortemente educativi, che permettono di rileggere i grandi classici in modo nuovo e anche di organizzare una doppia lettura del testo base e del rifacimento (o remake), con il risultato di gettare anche nuova luce sul testo base e di farlo rivivere in un nuovo contesto: penso per esempio alle riscritture della Tempesta di Shakespeare (anche al cinema) o alla storia di Robinson riscritta da Tournier (o anche al cinema da Buñuel).
Ritiene che nella scuola superiore l’apparato comunicativo e informativo dei media abbia definitivamente soppiantato il grosso apparato retorico della tradizione letteraria, con la sua classificazione delle figure, il sistema e le gerarchie di generi? Nei licei italiani si predica ancora l’umanesimo elitario?
Non sono così sicuro che l’apparato retorico della tradizione letteraria sia ormai soppiantato. La stessa teoria della comunicazione, nelle versioni più aggiornate, fa ampio uso dei concetti e dei termini della retorica, anzi si è avuta l’impressione, soprattutto negli anni dello strutturalismo e della semiotica (penso a Barthes o a Umberto Eco o al gruppo µɩ), che si assistesse al ritorno in grande della retorica. Anche Lidia De Federicis e io, nel manuale di accompagnamento tecnico al libro Il materiale e l’immaginario, intitolato Strumenti, abbiamo dato il giusto posto alla tradizione dell’analisi retorica, così come alla questione dei generi (che abbiamo preferito chiamare «modi» della rappresentazione). Certo il liceo classico, e anche quello scientifico, così come furono impostati da Giovanni Gentile aveva molti difetti e svolgeva, almeno in parte, una funzione di selezione classista, ma era una scuola molto organica con grandi capacità formative. Mi è capitato, qualche anno fa, di passare una serata insieme con il grande pedagogista americano Jerome Bruner, il quale a un certo punto, rivolto a me e agli altri ospiti, ha detto: «Siete pazzi, voi italiani! Avete una scuola straordinaria come il vostro liceo e la state smantellando». Forse smantellarla è ormai inevitabile, ma bisognerebbe essere capaci di sostituirla con una più moderna, più adatta ai tempi e ai giovani di oggi, ma almeno altrettanto organica ed efficiente. Quanto alla selezione classista, non posso non pensare a quanti giovani capaci e di origini abbastanza umili, specie nell’Italia meridionale, hanno raggiunto un livello culturale e sociale molto elevato, passando attraverso le forche caudine del liceo.
L’insegnamento della letteratura nelle università italiane è ancora ostaggio dell’insegnamento di tipo storico-letterario? La filologia ha definitivamente prevalso sulla critica?
Il quadro certamente non è confortante, soprattutto nelle facoltà di lettere e nei corsi di letteratura italiana; meglio, in molti casi, l’impostazione dei corsi di letterature straniere e in quelli di teoria della letteratura e letterature comparate. La filologia ha grandi meriti e gli insegnamenti di tipo filologico sono stati spesso veicolo di innovazione (basta pensare al ruolo svolto da filologi come Contini, Caretti, Segre, Corti, Avalle, Folena, spesso all’avanguardia nel promuovere metodi critici moderni, spesso ottimi critici loro stessi). Lo slogan programmatico di Caretti: «Filologia e critica» dovrebbe essere scritto sulle porte di entrata di tutti i dipartimenti di studi letterari. Purtroppo quello che si è verificato negli ultimi due decenni è stata una separazione proprio dei due termini «filologia» e «critica» e spesso l’attività filologica, chiusa in se stessa, è stata una specie di rifugio, un bunker per cercare di reagire alla crisi della critica.
L’attuale crisi finanziaria indebolirà il concetto che si è andato affermando negli ultimi anni, quello dell’università come impresa produttiva? Ci sarà un ritorno allo studio di discipline filosofiche, storiche e letterarie secondo impostazioni di taglio humboldtiano?
Non sarei così ottimista. Il quadro tracciato dallo studioso inglese, che lavorava in Canada, Bill Reading nel libro postumo del 1996 The University in Ruin (curiosamente mai tradotto in Italia, dove pure escono ogni anno decine di libri sui problemi dell’università), mi pare che sia estendibile anche ai sistemi universitari europei, nonostante che questi siano in prevalenza statali, più legati alle tradizioni e tendenzialmente più conservatori. Reading denuncia la trasformazione delle grandi università americane in big corporations, che applicano la tipica logica capitalistica dell’alleanza diretta con i sistemi produttivi, della competizione fra gli allievi e l’esaltazione degli ideali del merito e dell’eccellenza (contro l’ideale humboldtiano della solidarietà e condivisione dei saperi). Le università europee, quasi sempre pubbliche e ancora in parte legate agli ideali humboldtiani, si stanno gradualmente adeguando al sistema americano. La crisi in cui ci troviamo, molto profonda e radicale, non mi sembra tuttavia che sia in grado di cambiare il corso degli eventi, nonostante l’impegno generoso di molti studenti e intellettuali che hanno analizzato le ragioni della crisi. Essi sono un motivo di speranza per il futuro, ma il sistema capitalistico, anche in questa sua fase di globalità finanziaria, sembra in grado di adattarsi alle nuove situazioni e di imporre i suoi voleri.
La fine del Novecento è stata contrassegnata negli Stati Uniti da grandi dibattiti sul canone, un esempio che gli universitari italiani all’epoca non hanno molto seguito. C’è stato, secondo Lei, un cambio d’atteggiamento?
La discussione sul canone è arrivata anche in Italia, come al solito in ritardo e con una troppo facile scimmiottatura del modello americano. Veri cambiamenti non mi pare che si avvertano. Il libro di Harold Bloom sul canone occidentale, molto personale e idiosincratico, è stato preso sul serio più in Italia che negli Stati Uniti, e utilizzato a sostegno di una visione tradizionalista e conservatrice della storia della letteratura italiana (e conseguentemente delle antologie e dei manuali scolastici). L’unico cambiamento, dovuto a ragioni di forza maggiore, è la concentrazione sempre più netta e diffusa sulla letteratura contemporanea. La ragione che viene spesso ricordata per trascurare il grande patrimonio della tradizione letteraria italiana consiste nel carattere aulico di quella tradizione e la sua forte separatezza dal linguaggio di oggi, il che rende i testi difficilmente digeribili dai giovani che ormai vivono dentro un’altra dimensione linguistica e avrebbero addirittura bisogno di una traduzione per poter leggere non solo Dante e Boccaccio ma anche Foscolo e Leopardi. Si tratta di una ragione molto seria, che riguarda non solo la tradizione canonica della letteratura italiana (da Dante e Petrarca a Manzoni), ma anche la straordinaria ricchezza delle espressioni in lingue diverse (il latino, il provenzale, le lingue locali e regionali, i dialetti, da Ruzante a Pasolini ad Albino Pierro) che hanno per secoli reso molto complessa la situazione culturale e linguistica italiana. Paradossalmente avviene che i giovani di oggi traggono più facilmente profitto, anche di arricchimento linguistico, dalla lettura delle grandi opere delle altre letterature in traduzione italiana (soprattutto se le traduzioni sono ben fatte).
Il Novecento è stato un secolo molto celebrato dai suoi contemporanei, come verrà studiato nei prossimi decenni?
Non voglio entrare qui nei problemi posti da questo secolo storicamente controverso o nei dibattiti fra chi parla di secolo breve e chi sostiene che in realtà a metà del suo percorso si è verificata una svolta epocale, fra quelle che Zygmund Bauman chiama la modernità solida e la modernità liquida. Mi preme dire che bene o male quel secolo o quei due spezzoni di secolo hanno prodotto in Italia testi letterari di grande spessore, che sono riusciti a conquistare un loro spazio nella considerazione degli altri paesi (così come è avvenuto per gli artisti, gli architetti, gli uomini di teatro, i registi cinematografici, i musicisti). Bastano i nomi, in letteratura, di Pirandello, Svevo, Gadda, Morante, Levi, Calvino (e parecchi altri se ne potrebbero aggiungere) per dimostrare che la partecipazione della cultura italiana nel concerto internazionale è stata di grande rilievo, forse pari a quella dei primi secoli.
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NOTA
Questa intervista è stata pubblicata e gentilmente concessa da Revista de Estudos Literários n. 3 /2013, pp. 213-321. Ensino da Literatura. Direttore: José Augusto Cardoso Bernardes. Edizione a cura di Ana Maria Machado e Cristina Mello.
Coimbra, Centro de Literatura Portuguesa – Faculdade de Letras da Universidade de Coimbra.
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