Verso il convegno di LN /2. Svegliarsi alla verità: l’insegnamento e il freno d’emergenza
Esiste qualcosa d’altro che ha il potere di riportarci alla verità. Sono le opere degli scrittori geniali, di quelli almeno il cui genio, di primissimo ordine, è giunto alla pienezza della maturità. Questi sono estranei alla finzione e da essa ci aiutano ad uscire. Ci offrono in forma di finzione l’equivalente dello spessore stesso della realtà, quello spessore che la vita ci presenta tutti i giorni, ma che non sappiamo cogliere perché scegliamo di vivere nella menzogna.
Simone Weil, Morale e letteratura
Catastrofe e totalità
Come docenti abbiamo la possibilità di tornare a considerare una dimensione rimasta a lungo fuori moda: la totalità dei fenomeni. Pensare la totalità non è più interdetto o inibito – come nel postmoderno – dalla cosiddetta “complessità” o dalle retoriche della “fine della storia” per via della nuova prospettiva concretamente catastrofica. La tragedia in atto rivela e denuda la condizione del presente: non si possono più servire i pasti o vendere i gadget mentre l’aereo precipita.
La tragedia è concreta ma rimossa: la crisi climatica, idrica e energetica, la prospettiva di innalzamento dei mari, di lunghi periodi di grave siccità, di scomparsa quotidiana di foreste e di specie viventi a cui le governance rispondono promuovendo la competizione capitalistica portata al suo estremo, la guerra planetaria e i respingimenti.
Per gli studiosi del Bollettino degli scienziati nucleari, fondato a Chicago nel 1945, l’urgenza di allertare l’opinione pubblica sulla possibile catastrofe atomica si è tradotta nella nota immagine dell’“Orologio dell’Apocalisse” le cui lancette indicano da allora la distanza stimata dall’ipotetica “mezzanotte fatale”. Dopo la crisi eco-climatica, inclusa fra le variabili influenti solo nel 2007, la pandemia del Covid-19 e il ritorno della guerra in seno all’Europa, le lancette, fissate in origine a meno sette minuti, segnano ora meno novanta secondi. L’eccezionalità dunque prende avvio con il post Covid e con le guerre attuali: la domanda è cosa spetta al lavoro intellettuale e didattico entro questa prospettiva dei “novanta secondi”.
La prima mossa è “svegliarsi alla verità”: assumere consapevolezza dell’oscenità. È oscena l’ostentazione del riarmo; è osceno lo smantellamento della sanità pubblica dopo l’esperienza della pandemia. Analogamente offensivo alla ragione critica, nelle politiche scolastiche, è il grado di identificazione richiesto al soggetto in formazione con l’io imprenditoriale e con i suoi miti ossessivamente funzionali, proprio quando la funzionalità è di specie sfacciatamente competitiva e militare. Un solo esempio: il 24 giugno 2024 il ministro Valditara ha presieduto al lancio della Fondazione per la Scuola Italiana, un ente in cui campeggia Leonardo Spa, già entrata nelle scuole e nelle università, finanziando progetti sul digitale, portando alunne e alunni con i PCTO all’interno delle aziende produttrici di armi, cooptando ben tredici rettori di Università pubbliche all’interno del proprio consiglio di amministrazione. L’ideologia delle “competenze e dei talenti professionalizzanti” nelle aziende che vendono armi è nuda e senza veli.
Tre situazioni allegoriche
Le tre situazioni allegoriche che svelano il presente e che esigono il ripensamento delle nostre parole-chiave sono Gaza, i respingimenti e la guerra in Ucraina.
In Europa la spesa militare ha registrato un inedito balzo in avanti dopo l’invasione russa dell’Ucraina. L’Europa non è più il soggetto politico nato su un’ipotesi di pace costruita sulle macerie della seconda guerra mondiale: l’UE è tornata, proterva, a concepire l’inevitabilità della guerra, esplicita a esempio nelle parole di Macron. È la logica che campeggia sulle pagine di Repubblica e del Corriere. La logica che informa di sé la prassi delle cosiddette sinistre liberali, in testa rispetto alle destre nel promuovere l’invio delle armi e nel preparare l’opinione pubblica alla prospettiva della guerra.
Ai confini europei ogni mese vengono respinti decine di migliaia di migranti e rifugiati in fuga, che diverranno milioni nei prossimi anni a causa delle migrazioni dovute all’ingiustizia climatica: un film rivelatore come The green border della regista polacca di opposizione Agniezska Holland, ci mostra cosa accade sul confine fra Polonia e Bielorussia (come, del resto, nei campi di concentramento in Libia o nella bara mediterranea).
Il massacro di Gaza mina i nostri rassicuranti presupposti pedagogici di democrazia e di cittadinanza, non solo per l’impunità sfacciata con cui Israele, dopo decenni di Apartheid e di soprusi, sta eliminando la popolazione civile e distruggendo case, scuole e ospedali, ma per l’oscenità di un altro genocidio simbolico: è la memoria stessa della Shoah (da oltre mezzo secolo pilastro della cittadinanza liberale e democratica) a essere sfigurata perché usata, in Europa e negli USA, come schermo e giustificazione conscia o inconscia per l’impunità di Israele. La Palestina in tal modo è in noi: noi tutti siamo spaccati a metà da questa contraddizione. Non è una questione riducibile a “opposti fanatismi”: come mostra Enzo Traverso nel suo prezioso volumetto Gaza davanti alla storia (Laterza, 2024), l’esercito di Israele, il paese ritenuto l’isola democratica del Medio Oriente, ricorrendo agli algoritmi dell’intelligenza artificiale colpisce a migliaia bambini, donne, vecchi, considerati “scudi” e trasformati in bersagli. Franco Fortini, del resto, svelava più di trent’anni fa la falsa coscienza in base alla quale l’abuso impunito di Israele in Palestina vanificava la cultura e la memoria stessa degli Ebrei d’Europa:
Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e sapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. […] La nostra vita non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinese; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune. (F. Lattes Fortini, Lettera agli ebrei italiani, 1989).
Le parole svuotate
Alla luce della prospettiva della catastrofe, e delle quote di falsa coscienza inerenti le violenze e le ingiustizie odierne, tutte le parole che impieghiamo per definire la funzione dell’insegnamento in generale e quello letterario in particolare, risultano vuote. Non solo le formule aziendali delle Skills, delle “eccellenze” o dei “leader vincenti”, che hanno invaso trionfalmente scuola e università, non solo i CFU “psico-pedagogici” nei tirocini abilitanti che i futuri docenti sono costretti a comprare sul mercato, ma il concetto stesso, di matrice europea, di competenze entro cui le associazioni disciplinari hanno tentato di ricollocare da vent’anni in qua l’insegnamento letterario, risulta ora privo di senso. “Progettare per competenze civiche e ermeneutiche” la “formazione civile e culturale dei cittadini europei del futuro” può suonare perfino grottesco in una situazione letteralmente senza futuro. Dopo “progetto”, persino il termine “interpretazione”, una volta sterilizzato, può diventare parte integrante di quella lingua senza referente che per brevità si può definire “didattichese”.
Come rispondere a questa condizione con il nostro lavoro culturale? Come e cosa insegnare negli anni spietati che si profilano?
Diserzione e dissenso dai processi di standardizzazione
Un primo modello allegorico ci viene dal mondo del lavoro, analizzato dal saggio di Francesca Coin Le grandi dimissioni (Einaudi, 2023). Nel 2021 negli Stati Uniti 48 milioni di persone hanno deciso di licenziarsi; nello stesso periodo in Cina è nato il movimento di protesta “sdraiarsi” come forma di resistenza culturale all’efficientismo esasperato e alla competizione sul lavoro. Lo iato dell’emergenza sanitaria è stato la cartina di tornasole dello sfruttamento. Dalle fabbriche agli ipermercati, dai rider alla logistica i lavoratori hanno potuto osservare dall’esterno come stavano sacrificando la propria esistenza: le ore nel traffico, l’impossibilità di coltivare la cura e gli affetti, l’usura e la desertificazione delle vite, le richieste di fedeltà aziendale assoluta. Coin interpreta questo gran rifiuto come una forma di lotta di classe. Il Covid ha dunque aperto una breccia nell’immaginario collettivo svelando le contraddizioni del lavoro occultate dalla retorica dei vincitori. Uno psicologo, Anthony Klotz, ha parlato di “epifanie pandemiche” per descrivere i momenti di verità che hanno illuminato la necessità di sottrarre la propria vita alla cornice lavorativa aziendalista. Una breccia che si è provveduto subito a chiudere.
Anche la burocratizzazione estrema del lavoro culturale del docente – un lavoro a scuola sottopagato, precarizzato e socialmente frainteso – produce a suo modo usura e desertificazione dell’immaginazione critica, della cura dei testi e delle menti, delle capacità dialogiche, dell’attenzione e della libertà necessarie a leggere in aula saggi, poesia e romanzi. Occorrerebbe aprire brecce, sottrarsi, smettere di servire, disubbidire, dare ai ragazzi avviati ai PCTO strumenti di autodifesa sociale. Anche il lavoratore della scuola, acquistata coscienza, potrebbe a suo modo essere infedele: non nel senso del licenziamento ma in quello dell’invenzione, con gli studenti, di forme di dissenso attivo, della diserzione e del rifiuto delle crescenti richieste burocratiche, standardizzanti, ispirate alla medesima ragione aziendale che sfrutta il lavoro della logistica, dei rider, degli ipermercati.
Demistificare le retoriche del digitale
Sulla tecnologia occorre non rimanere intrappolati nel livello superficiale e adialettico delle argomentazioni. Anche riguardo al digitale è in atto a scuola una usura delle parole: “telefonini a scuola sì o no”, “memetelling sì o no”. Perché queste semplicistiche opposizioni risultano sterili? Perché la stessa proposta di una “media education non tecnocratica” può risultare a mio giudizio ambigua? Perché la nostra impotenza riflessiva ci priva di uno sguardo dialettico sui fenomeni del comando sociale e produttivo. In astratto, la tecnologia può essere neutra o liberante, nel concreto diviene un cruciale strumento di potere e di estrazione del valore. Occorre tornare a guardare, con Adorno, a ogni innovazione tecnica come liberatoria e, al contempo, come oppressiva: l’areoplano che ha inverato il sogno del volo assume un’aura sinistra dopo Guernica e dopo Hiroshima.
Con Marx, la vicenda del capitalismo può esser ripercorsa come un processo di controllo e appropriazione del tempo, mentre l’emancipazione umana dovrebbe coincidere con la sua liberazione: il digitale, che prometteva liberazione, è divenuto, viceversa, una forma tecnologicamente avanzata del dominio sul tempo. Le aziende produttrici di hardware e software esercitano sulla scuola e sull’università una tale pressione da inibire o da caricaturizzare ogni reattività critica e dialettica alle “innovazioni”: una pressione cresciuta esponenzialmente dopo la “dad”. Per via di questa egemonia, tutto ciò che è innovativo diviene automaticamente “premiale” nei progetti di formazione e, al contempo, viene considerata disdicevole e passatista, a esempio, l’affermazione che nella didattica della letteratura, della filosofia o della storia, ascoltare una lezione o leggere assieme una pagina scritta sia più denso di esperienza, più pertinente e meno costoso di qualsiasi “piattaforma” o interazione su video.
Occorre insomma riabilitare la dialettica negativa. Per il possesso delle terre rare, necessarie alla “transizione digitale”, si preparano le nuove guerre. Detto altrimenti: le transizioni digitali non diminuiscono la capacità distruttiva del capitale né le discriminazioni. Il digitale è in primo luogo un modello di business monopolizzato da poche grandi aziende che estraggono i dati e metadati delle loro attivazioni, li moltiplicano in molti server remoti per metterli a disposizione dei loro dispositivi algoritmici di commutazione e per estrarre da tutto ciò la più alta percentuale di valore. La mutazione antropo-cibernetica, inoltre, pur consentendo infinite connessioni e inedite occasioni di conoscenza, ha anche generato atomizzazione narcisista e solitudine relazionale: compito degliinsegnantipotrebbe esser quello di demistificare la retorica dell’innovazione, di promuovere parole, immagini e idee di insofferenza sociale a questa condizione.
Educazione letteraria e “densità del reale”
Le associazioni disciplinari come l’Adi-sd si sono sforzate di declinare le “competenze” in senso letterario, considerando la letteratura come “risorsa”: emotiva, civica, cognitiva. Questa prospettiva, ben distinta dall’aggiornamento imperante su valutazione-digitale-cittadinanza-inclusività, mi sembra generata tuttavia da un presupposto umanista equivoco: che l’educazione letteraria possa emancipare gli studenti dalla barbarie per farne dei “cittadini”. I testi letterari ospitano invettive, idiosincrasie, asocialità, rabbia, incoerenza ideologica e logica; danno voce a personaggi scomodi, scissi, inaffidabili, perfino ripugnanti. Sul piano formale, sono ambigui e polisemici. In una parola: nella loro “indocilità” implicano la dimensione del ritorno del represso e della contraddizione. Il docente che intenda guidare i suoi studenti verso i “buoni sentimenti” mediante l’esperienza letteraria corre il rischio di depotenziarla: di addomesticarne cioè le aporie. È questo tipo di “antiumanesimo” a farci avvertire i limiti dell’educazione letteraria (con Primo Levi dei Sommersi e salvati: “La ragione, l’arte, la poesia, non aiutano a decifrare il luogo da cui esse sono state bandite”). La didattica letteraria, con il dominio dei pedagogisti – se rimarrà nei programmi – verrà probabilmente imposta negli Aggiornamenti (appaltati a agenzie private di “coaching” o a università pubbliche che le emulano), nella Formazione docenti e nelle Indicazioni nazionali – come puro storytelling “emozionale”.
La letteratura non ci salverà dall’estinzione. Tuttavia alcuni docenti, con il loro persistente anticonformismo e il loro lavoro sotterraneo di “interruzione dell’immanenza” (Gert Biesta), potranno commisurare quel poco che si potrà ancora leggere in aula con l’urgere della dimensione tragica che il futuro prossimo comporterà: selezionando i testi in base alla loro capacità di restituire a studentesse e studenti “la densità del reale” (Simone Weil).
Solo un esempio. Si potranno comparare i testi del canone italiano moderno a opere come Stalingrado e a Vita e destino di Grossman, o alla Strada di McCarthy, in favore del rinvenimento di una dimensione tragica e epica. L’epos è il genere delle origini, corale, incentrato sul tema del conflitto; il romanzo è il genere della modernità̀ legato alla percezione individuale e borghese dell’esperienza. La tradizione filosofica ha inteso i due generi come opposti tra loro; nel passaggio di testimone tra le due forme simboliche, vi sono però delle continuità: Iliadi moderne sono state considerate Guerra e pace di Tolstoj, Vita e destino di Grossman, Una questione privata di Fenoglio; Odissee contemporanee l’Ulisse di Joyce, La tregua di Primo Levi, Horcynus Orca di D’Arrigo. Il modo epico, vale a dire il principio organizzativo del genere, può sopravvivere nonostante l’atomizzazione delle vite e la guerra tecnologica abbiano svuotato di senso il destino a vantaggio del caso, e nonostante l’epica rappresenti una totalità di valori che la modernità percepisce come perduta.
Nelle ultime pagine del suo L’ incontro e il caso Romano Luperini ci dice che nei momenti più drammatici della storia novecentesca riaffiora nei testi l’incontro come esperienza dell’altro: quando nelle opere si ripresenta la conquista possibile di una dimensione di solidarietà verificata in situazioni reali, come a esempio negli Inizi del partigiano Raoul di Fenoglio. Tra tutti gli autori del Novecento è probabilmente Primo Levi che svetta per la risemantizzazione dell’epica, del destino, della tragedia: La tregua e Se non ora quando possono stare a petto con i due testi di Grossman. Il pianeta irritabile di Volponi, col suo diverso codice basso corporeo, può reggere il confronto con La strada di McCarthy: per la comune, estrema ricerca di senso nel mondo annichilito.
Insomma: imparare a riconoscere, come Machiavelli nel Principe, l’apocalisse e al contempo imparare a pensare l’utopia, assumere coscienza della fine possibile di tutte le cose e di un orizzonte di speranza, due concetti non opposti ma inestricabili e urgenti in sede didattica.
Tre strumenti teorici
1) Il Leopardi materialista di Sebastiano Timpanaro. Il Leopardi delle Operette, nel cuore della nostra crisi, ha ancora molto da dirci. Riflettendo su Leopardi, Timpanaro all’inizio degli anni Ottanta – come Rosa Luxemburg negli anni Venti – metteva in luce il nesso politico e antropologico fra la sconfitta di ogni prospettiva anticapitalista e il prevalere della barbarie: “se homo sapiens dimostrasse di essere una specie zoologica (…) incapace di eguaglianza e di autogoverno collettivo, la decadenza e la fine dell’intera umanità sarebbe definitivamente segnata, a scadenza non troppo lunga” (Antileopardiani e neomoderati, 1982, p. 327).
2) Il “realismo capitalista” di Mark Fisher. Con il termine Realismo capitalista Fischer si riferisce a ciò che ci fa percepire il capitale come una prospettiva non trascendibile. L’inconscio politico egemone vieta di immaginare delle alternative alla forma di vita del capitalismo globale: questo scacco alimenta il cinismo a proposito delle più tragiche contraddizioni materiali, occulta lo sfruttamento sempre più acuto del lavoro e il ricorso sfacciato alla guerra nelle controversie internazionali. Insomma: privati di azione, siamo ridotti a poter “immaginare la fine del mondo ma non la fine del capitalismo”. La scuola e l’università – subalterne a questa impossibilità di trascendere lo stato delle cose – sono per Fisher un esempio di “sorveglianza interna” e di “impotenza riflessiva”. I professori sanno che la situazione è tragica, ma si convincono che non possono farci niente e si accomodano in una situazione di triste complicità cinica. Occorre invece che i docenti della scuola e dell’università “si sveglino a verità” (Simone Weil): che inventino le memorie, le letture, le parole e le pratiche per uscire dall’impotenza. Va insomma sempre misurato il nostro tasso di “impotenza riflessiva” prima di prendere la parola in classe o prima di praticare proposte didattiche.
3) Walter Benjamin: la rivoluzione e il freno di emergenza.Come argomenta Michael Löwy, Benjamin in Strada a senso unico, con il titolo Segnalatore d’incendio ha preconizzato la minaccia del progresso tecnologico guidato dal capitale: “Prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia va tagliata”. Nelle celebri Tesi Sul concetto di storia prende le distanze da Marx su un punto importante: “Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno d’emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno”. Detto altrimenti: la storia è in corsa verso la catastrofe e, per tagliare quella miccia, per tirare quel freno d’emergenza, occorrono dei nuovi movimenti di dissenso e di diserzione che, come piante cocciute, possano germinare nelle crepe e negli interstizi di scuole e università ormai mutate in supermarket di riproduzione e vendita della cultura. Riattivare l’immaginazione sociale, rendere dicibile questa prospettiva, interdetta dal realismo capitalista, è possibile solo in una scuola e in una università che lavorino contro se stesse e a favore di chi vivrà dopo di noi. Questa può essere una risposta di chi insegna allo stato di eccezionalità in cui viviamo.
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Caporedattore
Daniele Lo Vetere
Editore
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L’autore dell’articolo afferma, riferendosi alla “funzione docente” così come egli se la immagina, «la possibilità di tornare a considerare una dimensione rimasta a lungo fuori moda: la totalità dei fenomeni». Sennonché l’oscuramento di questa dimensione, dovuto ‘ex hypothesi’ alla prevalenza del “postmoderno”, ne costituisce, sia pure in negativo, la parte positiva, almeno dal punto di vista teoretico: quella, cioè, con cui occorre fare i conti, se si avanza, come presume di fare l’autore, l’istanza di un superamento. Allorché, infatti, si postula l’esigenza di definire “la dimensione della totalità dei fenomeni”, si è costretti a trascendere il tutto che si pretende di considerare e implicitamente a renderlo parte della vera realtà, che sfugge così alla definizione. Insomma, non si può considerare la totalità senza negarla, e se, ciononostante, il pensiero si propone il compito di considerare tale totalità, esso deve fallire in partenza, perché il suo assunto è intrinsecamente contraddittorio. D’altra parte, è pure evidente che il pensiero non può sfuggire all’esigenza di assumere questa dimensione e che la rinuncia a farlo non ha significato. Anche su questo terreno varrebbe, a ben guardare, l’obiezione antiscettica secondo cui tale rinuncia si pone, contraddittoriamente, come un’assunzione di quella dimensione. In effetti, se così non fosse, la certezza della particolarità che la rinuncia implica, non avrebbe luogo, in quanto si può riconoscere che una parte è parte solo perché la si confronta con la totalità. Consegniamo dunque ad una riflessione più attenta le ‘sorprese’ che la dialettica riserva alla ‘ignava ratio’… Del resto, una volta richiesto il chiarimento preliminare sul nodo logico della questione che l’autore ha posto senza un’adeguata consapevolezza della problematicità delle proprie tesi, cui il tono oracoleggiante dei riferimenti evocati (la Weil, Benjamin, Primo Levi ecc.) non aggiunge ma scema la desiderata autorevolezza, l’atteggiamento che merita di essere stigmatizzato è quello tipico della “sinistra imperiale” (si veda lo stigma della “cultura-Nato” che informa la ‘mens’ dell’autore, laddove questi mutua acriticamente dall’opinione dominante, dandolo per scontato, il sintagma “invasione russa della Ucraina”): un atteggiamento di ‘illuminato’ liberalismo improntato ad una difesa, ancorché sofferta, dei cosiddetti “valori occidentali”, ossia del modo occidentale di vivere, di studiare e di formarsi, che caratterizza i nostri paesi. Ma tale modo in che cosa consiste? Nel primato dell’economia, nella lenta ma progressiva distruzione dell’eredità culturale dell’Occidente, nel giovanilismo alla Fedez, nella demolizione del sistema scientifico-professionale, nell’espansione del turismo, nella salvaguardia della ‘movida’… Finora chi osava rifiutare tutto questo passava per un nostalgico di tempi passati, per un estremista di sinistra o un fascista, entrambi da relegare nella spazzatura della storia. In realtà, giacché il mancato riconoscimento della dialettica tra la parte e la totalità genera una inevitabile fallacia cognitiva, non si comprende che la minaccia alla nostra civiltà non viene dall’esterno (Cina, Russia, Hamas…), ma dall’interno della decostruzione della nostra civiltà. Uno degli effetti paradossali degli ultimi avvenimenti è allora di riaffermare il primato della politica sull’economia. Si apre infatti uno scenario in cui il “politico” e l’“economico” (intesi in senso neutro come forme di pensiero) entrano in collisione. Del resto, il primato del politico spiega perfettamente le ragioni della superiorità della Meloni rispetto alla Schlein, sostenitrice di un primato dell’economico e dei diritti individuali, il cui potere persuasivo è sempre più decrescente. Il ritorno del discorso della guerra, per quanto raccapricciante (si parla dell’uso di armamenti nucleari, di armi chimiche e di guerra batteriologica come se fosse una cosa normale) ha almeno qualcosa di positivo: affermare il primato della politica sull’economia. E questo è brechtianamente, con le opportune mediazioni linguistiche e intellettuali, il messaggio che va indirizzato, dentro e fuori della scuola, ai nostri ragazzi: amici, torniamo a parlare dei rapporti di potere, senza dimenticare il fatto che essi e le tecnologie educative che ne dipendono, nascono, in ultima istanza, dai rapporti di produzione e vi ritornano.
Caro Barone,
apprezzo e comprendo il suo tentativo di demistificazione materialistica: tuttavia, come altre volte, il suo bisogno di semplificazione sortisce effetti paradossali. Primo fra tutti, il ridurre a “liberalismo” ogni posizione critica e anticapitalista semplicemente difforme da quella che lei crede la sola legittima (grossomodo, per intenderci, quella della tradizione stalinista). Così come il semplice sintagma “invasione russa dell’Ucraina” le sembra il sintomo di un allineamento al tracotante, irresponsabile espansionismo e bellicismo della Nato (che invece l’articolo critica palesemente, a partire dalle parole di Macron fino al coinvolgimento nella scuola dei produttori di armamenti). Fortini del resto (da “Diario tedesco” alle “Mani di Radek” ) fino alla fine è rimasto convinto delle ragioni e della necessità del “comunismo in cammino”, e al contempo non ha mai fatto sconti allo stalinismo. Ciò che ci divide è anche l’idea di letteratura che sottende i nostri scritti: a suo dire, la scrittura letteraria è irrazionale e “oracolare”, a mio parere la forma poetica comporta per via allegorica un indocile, polisemico, seme di libertà. Una libertà ambigua, tuttavia non liberista, non subalterna alle ideologie imperiali del mercato. In vista dei tempi terribili che ci attendono, dovremmo mettere bene a nudo ciò che ci divide e ciò che ci unisce.
Caro Zinato, come fa a non rendersi conto che, per il suo valore semantico e il suo significato ideologico, il sintagma “invasione russa dell’Ucraina” conferma e legittima quello che lei stesso definisce come “l’irresponsabile espansionismo e bellicismo della Nato”? A parte il fatto che da quanto scrive risulta per logica che, a suo giudizio, esisterebbe anche “un espansionismo responsabile” (sic!), non si accorge che quel sintagma è in contraddizione diretta e frontale con le sue accorate postulazioni pacifiste? Condivido, d’altronde, l’invito a “mettere bene a nudo ciò che ci divide e ciò che ci unisce”, e credo di averlo onorato, nei miei commenti e anche in altre sedi e forme, con la chiarezza dei contenuti e il rigore del metodo che derivano dalla mia formazione marxista e comunista. Condivido quell’invito, perché sono convinto: a) che sempre più urgente è il bisogno di prendere posizione in termini nettamente disgiuntivi, liquidando, sia che si tratti della Palestina sia che si tratti dell’Ucraina, l’opportunismo delle doppie negazioni; b) che solo così, attraverso un potenziamento dell’opposizione e non attraverso soluzioni erasmiane, sia possibile contrastare la deriva drammatica del sangue e dell’inerzia a cui stiamo assistendo. Riguardo poi all’idea di letteratura, mi perdoni, ma io ho definito “oracoleggiante” il tono dei suoi riferimenti, non la scrittura letteraria in sé. Circa il corretto uso della quale mi permetta allora di citare una pagina famosa del “Fermo e Lucia”, che dovrebbe avere un valore programmatico inderogabile per l’azione che questo sito intende svolgere: «Se le lettere dovessero soltanto aver per fine di divertire quella classe di uomini che non fa quasi altro che divertirsi, sarebbero la più frivola, la più servile, l’ultima delle professioni”.