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diretto da Romano Luperini

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Lettura, esperienza e interpretazione. La letteratura nella scuola superiore

Proporzione matematica

In Critica e verità, Roland Barthes ha proposto una distinzione fra tre tipi di relazione che è possibile intrattenere con l’opera letteraria: la prima è quella della «scienza della letteratura», che si occupa di studiare le «condizioni del contenuto, ossia […] le forme» dell’opera, cioè i dispositivi attraverso i quali essa è in grado di produrre senso (è evidente che Barthes pensa allo strutturalismo); la seconda è quella della «critica», che non indaga le condizioni di significabilità, ma dà un senso particolare all’opera, anche se questo è diverso per ciascun critico; infine, la terza è quella della «lettura». Quest’ultima si differenzia radicalmente dalle prime due, le quali, pur così diverse, sono accomunate dal fatto di avere con il testo un rapporto mediato: la mediazione è la scrittura, che si inserisce come un cuneo tra testo e lettore. La lettura è l’unica che resti al di qua di questa mediazione, ad un contatto immediato con l’opera letteraria.

“Toccare” un testo – non con gli occhi, ma con la scrittura – scava un abisso fra la critica e la lettura […]. Infatti, nessuno potrebbe mai sapere nulla del senso che la lettura dà all’opera, […] forse perché questo senso, essendo il desiderio, si stabilisce al di là del codice della lingua. Solo la lettura ama l’opera e mantiene con essa un rapporto di desiderio. Leggere è desiderare l’opera, voler essere l’opera, rifiutarsi di giustapporle una parola che le sia estranea (Critica e verità, Torino, 2002, p. 63).

Vorrei suggerire una proporzione matematica: la «scienza della letteratura» sta all’approccio formalistico di stampo strutturalista del biennio, come la «critica» sta all’approccio storicistico del triennio.

Biennio: scienze della letteratura

Ogni insegnante sa come si affronti lo studio della letteratura i primi due anni di scuola superiore: sostanzialmente si invita lo studente a un giochetto di scomposizione e ricomposizione di racconti, poesie, testi teatrali, al fine di collocarne ricorrenze e invarianze in griglie tassonomiche, dentro cui i testi, dopo l’autopsia, perdono la propria irripetibile identità, per servire alla comprensione delle categorie generali della fabula, dell’intreccio, delle focalizzazioni, delle figure retoriche, delle regole della versificazione. Perché non il testo conta, in verità, ma la comprensione dei suoi costituenti, quelli che gli consentono di “funzionare” come testo: precisamente ciò che, secondo Barthes, fa la «scienza della letteratura». Il successo di questo approccio nel biennio dipende probabilmente dal fatto che la sua pretesa oggettività sembra particolarmente adatta agli studenti più giovani, cui si pensa di dover fornire strumenti di base e tecniche di analisi “neutrali” e applicabili potenzialmente a tutti i testi.

Triennio: storicismo

Veniamo al triennio. Lo studio della letteratura è inteso soprattutto come informazione sui nostri classici, ampiamente fondata sul deposito delle interpretazioni che delle loro opere hanno fornito i critici e gli storici della letteratura, cioè dei sensi che essi vi hanno attribuito (taccio della differente funzione di critici e storici della letteratura: per quanto qui interessa, la funzione di entrambi consiste in una mediazione dei testi ai lettori, cioè, in termini barthesiani, nell’introduzione della scrittura tra desiderio e testo). Ma lo storicismo, non essendo più una filosofia della storia, come era per Croce e Gentile, è da tempo ridotto a poco più del suo scheletro, cioè all’ordine cronologico di presentazione degli autori, sgranati l’uno dietro l’altro come in un rosario: di «storicismo degradato» ha infatti parlato Pier Vincenzo Mengaldo. Aggiungerei che il procedere extensive invece che intensive, comporta per sua stessa natura il nozionismo minuto, i brevi (e generici) cenni sull’universo, e riduce la conoscenza di un autore ad un piccolo «record» o voce di enciclopedia.

Mezzo = fine

A parte la schizofrenia di una scuola che alberga in sé due metodi che qualche decennio fa si facevano una guerra spietata – e quanto ciò dipende dalla reciproca indifferenza di insegnanti del biennio e del triennio e dall’insufficiente consapevolezza teorica? –, l’effetto che la riproposizione ormai inerziale di questi metodi produce è che i mezzi sono diventati fini: leggere Leopardi o Hemingway dovrebbe essere un’esperienza di accostamento alla letteratura, invece diventa l’occasione per spiegare i concetti di “pessimismo storico e cosmico” e per comprendere la funzione della focalizzazione esterna in un racconto. Lo studente si abitua così a pensare alla letteratura non come a una delle possibili narrazioni o rappresentazioni dell’esperienza umana, attraverso la parola e lo scavo in essa, ma come a un sapere su, un insieme di nozioni e di strumenti analitici.

Ora, la relazione che «scienza» e «critica» intrattengono con il testo letterario, dice Barthes, è una relazione mediata: la scrittura, infatti, si frappone tra testo e lettura, tra testo e desiderio. Tutte le volte che chiediamo agli studenti di studiare la letteratura attraverso il filtro delle parole dei critici o, ancor peggio, attraverso categorie di tipo strutturale, noi non li invitiamo davvero a leggere e a desiderare il testo. Dunque dovremmo occuparci solo di come si legge, essendo questo l’unico compito della scuola, come ha osservato ancora Mengaldo:

l’insegnamento della letteratura sui testi è il solo veramente omologo alla libera esperienza che tutti fanno – quelli che la fanno – della letteratura, che altro non è se non la lettura dei testi» (Il Novecento a scuola, in Giudizi di valore, Torino, 1999, p. 100, corsivo nel testo).

Ma cosa significa precisamente insegnare a leggere? Come si può trasferire agli studenti questa abilità o – molto meglio – questa forma di esperienza? In effetti, la lettura è al di là di ciò che possiamo dirne, perché il desiderio è al di là del codice della lingua: «nessuno potrebbe mai sapere nulla del senso che la lettura dà all’opera». Eppure, se la letteratura è una forma di conoscenza irrinunciabile, perché non surrogabile da nessun’altra, dobbiamo provare a portare in classe il discorso sul desiderio, o – per evitare un termine che è ambiguo e carico di troppe implicazioni –, il discorso sull’esperienza della lettura.

Interpretazione “a piombo”

Prendiamo uno studente intelligente e studioso del triennio. Mettiamolo di fronte, poniamo, al componimento petrarchesco Pace non trovo et non ò da far guerra. Egli saprà probabilmente dire che appartiene alla parte «in vita di madonna Laura» e che si tratta di un sonetto; saprà descriverne la struttura delle rime, riconoscere le antitesi e gli ossimori di cui questa poesia è intessuta e valutarli come tratti tipici dello stile dell’autore; sarà in grado, si spera, di farne un discreta parafrasi e di riassumerne il contenuto, spiegando che il poeta si rappresenta lacerato fra passioni opposte a causa dell’amore per la donna. Temo che lo stesso studente, messo davanti a una poesia di Baudelaire o di Rilke (immaginando che egli abbia studiato solo un po’ di letteratura inglese), non saprà dirne molto. Questo capita perché egli è stato abituato a pensare che interpretare un testo sia, da un lato, verificare la presenza di un certo numero di tratti formali, dall’altro, usarlo come esemplificazione della poetica dell’autore, studiata in un apposito capitolo del manuale.

A scuola, il problema dell’interpretazione è precisamente questo: casca sempre in piedi. Non è un’approssimazione al testo, un tentativo di strappare ad esso un senso, una costruzione ipotetica che debba poi essere validata da riscontri testuali convincenti, ma è il reperimento del già noto. L’interpretazione è, invece, un atto difficile e incerto: ed è sempre così, al di fuori della scuola. Gli studenti, anche tutti quelli che disdegnano la letteratura che noi offriamo loro in classe, leggono romanzi e fumetti, vedono film, ascoltano brani musicali… e in ciascuna di queste attività è in gioco un atto interpretativo. Si dirà che la cultura pop è di facile decrittazione, mentre la letteratura dei grandi autori è difficile. Certo è così, per l’alterità storica, linguistica, retorica, epistemica di quest’ultima, ma non si deve credere, per questo, che la cultura pop sia immediata: anch’essa viene interpretata, per la semplice ragione che anch’essa è collocata in un contesto – un’enciclopedia, per dirla con Eco – che fornisce gli interpretanti. La differenza è che quella della cultura pop è un’enciclopedia di massa, mentre quella della scuola un’enciclopedia colta, per giunta non più organica alla nostra società. Inoltre, quest’enfatica polarizzazione tra highcult e masscult da parte del mondo adulto crea una percezione distorta proprio negli studenti, che finiscono per credere che vedere un blockbuster e ascoltare musica pop siano atti piacevoli e gratuiti, mentre la fruizione di un’opera letteraria, di un film d’autore, di musica colta o di ricerca, sia una specie di pratica ascetica.

Lo studente, invece, dovrebbe essere aiutato a comprendere quanto poco immediata sia la sua stessa fruizione culturale, prendendo consapevolezza di essere sempre immerso in un mondo complesso che va interpretato. Con questa consapevolezza, forse, egli potrà essere incoraggiato ad avvicinare il testo letterario con minore diffidenza; infatti, per quanto arduo e lontano quel testo sia, lo studente vi vede o intravede qualcosa, comunque lo interpreta. Certo potremo parlare di interpretazione ingenua, superficiale, eventualmente anche di vera e propria misinterpretazione, ma non servirà a molto semplicemente sostituire a tutto ciò il sapere del mondo adulto, consapevole e accertato negli anni. Una capacità interpretativa più raffinata deve essere maturata, altrimenti l’alterità di quei testi difficili diventa mera estraneità: qualcosa che, venendo da fuori, semplicemente si sovrappone alle categorie d’interpretazione dello studente, il quale, uscito da scuola, tornerà a leggere e comprendere secondo gli schemi a lui consueti.

Incontro ed esperienza

Bisogna domandarsi, dunque, cosa avvenga nell’incontro tra testo e studente. A scuola l’orientamento al lettore non è un’opzione fra altre, bensì un percorso naturale. È evidente, infatti che «quando leggiamo le parole di un testo le riempiamo della nostra esperienza», perché «un testo è un segno di vita cui si deve continuare a dare vita» (E. Raimondi, Un’etica del lettore, Bologna, 2007, p. 15): ciò può accadere solo se il suo potenziale di senso viene riattivato in classe, che è un altro modo per dire se viene attualizzato.

A me pare che le due modalità principali di attualizzazione di un testo da parte di un adolescente siano il contestualizzarlo entro l’enciclopedia di massa a sua disposizione, di cui si è già detto, e il riferirlo immediatamente a sé. Quest’atteggiamento egoriferito è certamente dovuto all’età e al narcisismo della nostra epoca, ma ha forse anche un’origine meno banale ed è produttivamente legato alla natura più propria della letteratura.

Scrive Yves Bonnefoy: «I concetti sono innanzitutto nozioni generiche, senza capacità d’intimo contatto con gli esseri e perfino con le cose per come esse esistono». Solo la poesia lascia intravedere qualcosa della «piena presenza della realtà denominata, al primo istante dell’ascolto». Da questa specificità del linguaggio poetico – il suo restare in qualche modo, per epifanie, in contatto con quello che Barthes avrebbe chiamato desiderio – Bonnefoy trae una conseguenza interessantissima. Così egli descrive l’atto della scrittura: «Che fare se non ascoltare nelle parole che si presentano […] ciò che resta in esse, talvolta, del ricordo di quei momenti in cui, per una qualche ragione, abbiamo scorto un albero, o un cielo, o tale o talaltra persona amica o anche sconosciuta, in un sovrappiù di senso rispetto a ciò cui avremmo potuto ridurle?» (Seguendo un fuoco. Poesie scelte 1953-2001, Milano, 2003, pp. 233-236). Nella scrittura, insomma, resta memoria di una presenza offertasi al poeta, ma quella presenza è ormai sottratta al lettore, che però può risvegliarla attraverso quello che Bonnefoy, senza tecnicismi ed eufemismi, chiama esplicitamente «amore»:

per abitare una poesia abbiamo bisogno soltanto dell’evidenza , in questa, dell’intensità – della verità – della sua domanda sulla vita e […] possiamo quindi legittimamente trasportarvi i nostri ricordi personali e le nostre emozioni (p. 239).

La tendenza a proiettare sé sul testo letterario, perciò, non è solo sindrome di un atteggiamento egotico, ma l’unica via attraverso la quale ci è possibile rievocare il senso più autentico della parola, il suo dire la presenza che sempre ci è sottratta e che nessun linguaggio concettuale e referenziale potrà mai renderci. Se del linguaggio della letteratura e dell’arte abbiamo ancora bisogno, è perché esso è l’unico capace di mantenere un rapporto totale con la realtà, senza sclerotizzarlo in forme astratte e mentali. La letteratura e l’arte sono le uniche forme di espressione che riescano ancora a restituire una figura dell’uomo nella sua integralità, fatta di razionalità, passionalità, corporeità. Credo che chiunque capisca quanto ciò sia importante in un’epoca, come la nostra, esposta al rischio di un’umanità a una dimensione, cui conducono la razionalità tecnica, l’ipercerebralità della realtà virtuale, la dittatura del denaro come unico generatore simbolico di tutti i valori.

Dunque, io credo che valga davvero la pena salvaguardare, almeno come punto d’abbrivio, un certo istintivo e magari confuso identificare la propria esperienza nel testo che si ha di fronte. La salvaguarderei come fattore creativo e fortemente mobilitante e motivante, senza assecondarla in tutto e per tutto. In effetti:

Il lettore non dispone dell’arbitrio di manovra di una soggettività assoluta, poiché leggere significa vedere e comprendere nella dinamica inventiva del testo una coscienza diversa, un altro individuo, circoscritto dalla sua posizione, dalla sua prospettiva temporale e culturale.

Il testo rappresenta «una differenza che non può essere violata proprio perché vi si incarna una persona» (E. Raimondi, op. cit., pp. 18-19).

Lettura/scrittura

Considerato tutto ciò, la letteratura può essere utilmente rinominata «lettura/scrittura», secondo un suggerimento di Fortini: leggendo e interpretando un testo, siamo sempre chiamati a dar forma a quell’esperienza, cioè a “scriverne”. Bisogna aiutare lo studente a dotarsi di un vocabolario adatto a verbalizzare ciò che ha letto, pensato, provato, compreso. In questo senso, si parva licet, recuperiamo la funzione della «critica» come la intendeva Barthes, poiché ogni nostro contatto con il testo è un piccolo atto di critica, se è vero che questa è solo un (più raffinato) atto di lettura e interpretazione. L’educazione letteraria allora è, integralmente, una educazione linguistica. E l’educazione linguistica e letteraria sono, integralmente, un’educazione al pensiero e un’educazione morale, perché attraverso la letteratura si educa una persona a dare ragione di ciò che sente e pensa e a comunicarlo, per iscritto o a voce, curando la propria argomentazione e fornendo riscontri delle proprie affermazioni.

L’insegnante esposto

Ma mettere al centro dell’insegnamento l’esperienza della lettura è possibile solo a un patto: che ciò valga prima di tutto per l’insegnante. Questi deve saper dare ragione, a se stesso e ad altri, di ciò che avviene in quell’evento: diversamente non potrà insegnare a farlo. Il suo ruolo non può essere ridotto, quindi, come spesso si tende a fare oggi, a quello di facilitatore, tutor, guida che quanto più si ritrae e resta nell’ombra, a tutela dell’autonomia dello studente, tanto meglio agisce. L’insegnante di letteratura, invece, deve esporsi, è già esposto, quando fa lezione: in lui gli studenti possono vedere concretamente manifestata l’esperienza della lettura, e nella forma di un’esperienza adulta e consapevole. Non si tratta né di narcisismo né di autoritarismo: proprio perché l’esperienza e il desiderio sono al di là del codice della lingua, è fondamentale ricorrere all’ascolto e imitazione non passiva di un modello. Difatti, ciò che non può essere definito, per cui le parole sono solo un’approssimazione, può essere mostrato.

Quella di docente e studenti si configura quindi come una vera e propria comunità ermeneutica, nella quale si negoziano i significati attraverso un conflitto delle interpretazioni, secondo le parole di uno dei critici più attenti alla scuola, Romano Luperini. Leggere e interpretare, perciò, non sono atti solipsistici: sono invece capacità di relazione, perché è nel confronto con le idee dell’altro che si acquista certezza delle proprie e si impara a definirle. Questo “altro” è rappresentato dal docente, dagli altri compagni, dalle interpretazioni dei critici e degli storici della letteratura. Queste ultime dovrebbero essere offerte in forma diretta, per evitare che siano percepite come un contenuto uniforme e stabile, ovvero “quella cosa che sta nei manuali”. Se per i ragazzi la letteratura coincide con il manuale, sfuggirà loro che intorno a un testo si sia dovuto fare ipotesi, discutere, magari litigare: penseranno che la letteratura sia un sapere accertato e accertabile, non ermeneutico, e sfuggirà loro la dimensione realmente storica, diveniente dell’interpretazione.

C’è però ancora un elemento fondamentale di cui tenere conto: prima di offrirsi a noi nell’atto dell’interpretazione, il testo possiede una sua semantica. Dunque il primo e fondamentale passo è sempre la comprensione della lettera del testo, attraverso il commento puntuale (e non interpretativo) e la parafrasi. Una lettura attenta di questo genere rappresenta una formidabile palestra di educazione linguistica, senza la quale non si potrà affinare in alcun modo neanche la capacità critica e interpretativa. Si deve trattare, però, della parafrasi e del commento dello studente, non dello studio mnemonico di quelli forniti da qualcun altro, docente o autore del manuale. Procedendo in quest’ultimo modo, infatti, si finisce solo per sovrapporre la parafrasi all’originale, gesto non molto diverso dal ripetere le interpretazioni altrui.

Il rapporto tra università e scuola

A scuola ci si dovrà occupare, quindi, soprattutto di lettura e non di critica o scienza della letteratura, compiti, questi, dell’università. Ma quale dovrebbe essere il rapporto fra università e scuola? Io credo che finché si continuerà a procedere seguendo la scansione logica secondo la quale l’accademia discute e stabilisce i contenuti del sapere e solo poi, e in subordine a questa operazione, si pone il problema di come “divulgarli” ad un pubblico di adolescenti, esisterà sempre una distorsione nei curricoli scolastici. Occorre costruire il sapere subito in funzione dell’uso che se ne fa a scuola. Quella che immagino è una sorta di (utopica?) critica letteraria applicata, senza la quale in classe si continuerà a cercare di far entrare a forza, dentro griglie didattiche, materiale che parla il linguaggio dello specialismo. L’università infatti può dare per presupposto, almeno in parte, ciò che nella scuola deve essere ancora completamente sviluppato: il senso della storicità e una sensibilità per i problemi formali e astratti della ricerca. Spiegherò con un esempio cosa intenda dire.

Storicizzare se stessi

Prendiamo lo studio della lirica d’amore predantesca. Le minuziose distinzioni tra concezione dell’amore cortese e stilnovista, e cavalcantiana e guinizelliana, gli influssi della filosofia coeva, le filiazioni e derivazioni di scuole le une dalle altre, sono meravigliose sottigliezze, ma pur sempre sottigliezze restano all’orecchio di un adolescente. Forse meglio sarebbe individuare delle categorie interpretative di immediata prensione, diciamo pure archetipiche. Delle categorie culturali, credo, andrebbe portata in emersione la latente dimensione psicologica, ma sarebbe molto meglio dire antropologica, che è quella oggi più schiettamente spontanea. Forse varrebbe la pena scommettere su un tema di vastissima portata come “L’amore” e inserire lo stilnovismo in esso. Banalizzazione e imbarazzante ammicco al narcisismo adolescenziale? Niente affatto. Penso piuttosto a una seria discussione su come la nostra capacità mitopoietica cerchi di raccontare questo inafferrabile sentimento, su come la cultura, anzi le culture, cerchino di tematizzarlo e farne materia di poesia o di riflessione filosofica. Non si tratta dunque di attualizzazione a tutti i costi, anzi, proprio del contrario: per uscire dalla prigionia del presente, il modo migliore è arrivare a storicizzare se stessi, comprendendo che anche per noi l’amore è un’esperienza culturalizzata, mediata; né più, né meno che per il Medioevo. Si dovrà allora partire da una riflessione su come noi oggi leggiamo l’esperienza amorosa, provando poi a metterle a fianco altre letture: l’amore romantico, l’amore cortese e stilnovista, l’amore nella poesia greca e latina.

Volendo, lo studio della poesia d’amore medievale servirà anche a indagare qualcosa di ben più complesso: le ragioni della sublimazione (magari, chi sa, per noi “riduzione”) dell’amata in argomento di poesia, in signora feduale, in mediatore angelico tra cielo e terra, in «pintura» mentale, in «aura» e «laurea», in «Filosofia». Qual è il significato di questa sublimazione? Ascesi religiosa o della conoscenza? Forma di radicale soggettivismo del poeta maschio che cancella la donna reale e la sostituisce con una più rassicurante immagine spirituale? Trasfigurazione del reale in parola poetica? Difficile dirlo. So però che è un peccato che essa sia percepita dagli studenti semplicemente come bizzarra sovrapposizione di schemi intellettualistici su un sentimento di per sé così “ovvio”.

Si dirà che i percorsi tematici esistono già da tempo. Sì, ma essi troppo spesso perdono ogni dimensione di profondità, perché si limitano ad appaiare i testi uno di fianco all’altro intorno ad un tema (penso alle tracce di Tipologia B della Prima prova dell’Esame di Stato), senza indagare qualcosa di certo molto più complesso, ma ineludibile: la storicità. A me pare che dimentichiamo troppo spesso che la letteratura è un sapere storico non solo nel senso che essa è alle nostre spalle, monumentale, ma anche che ce ne appropriamo storicamente, integrandola poco alla volta nella nostra esperienza. Se la letteratura non è solo apprendere delle nozioni, essa deve modificarci, diventare parte di noi, e questo può accadere solo rispettandone la durata laboriosa. Solo allora un classico non sarà più sentito come irriducibilmente altro, perché solo allora si sarà colmato il salto tra presente e passato, tra hic et nunc del proprio sé e ibi et tunc della storia.

Alcune proposte

Credo sarebbe interessante stilare, grazie a una (utopica?) sinergia tra scuola e università, una specie di piccolo censimento di temi significativi, forme e generi essenziali, snodi storici fondamentali, intorno ai quali costruire percorsi come quello sull’amore appena descritto. Dobbiamo abbandonare con coraggio la pretesa, d’altra parte astratta, di esaustività storica e offrire della storia tagli verticali, mettendo in costante relazione passato e presente, e tagli orizzontali, collegando culture e popoli contemporanei e diversi (R. Luperini, La riforma della scuola e l’insegnamento della letteratura, Milano-Lecce, 1998 , p. 26).

Per concludere, propongo alcuni percorsi, con la premessa che si tratta di poco più che suggestioni:

  1. Lo studio della poesia potrebbe passare attraverso lo sviluppo dell’opposizione «tradizione / innovazione», fondamentale per ogni forma della cultura. Storicizzata, questa opposizione significherebbe studio attento della rivoluzione romantica e della sua “coda” simbolista. Potremmo così far capire agli studenti perché tutta l’arte pre-romantica enfatizzi soprattutto il primo dei due termini, sembrando ai loro occhi “formalistica”, e perché, al contrario, la modernità artistica ricerchi quasi spasmodicamente l’originalità, anche se questo non significa “spontaneità”, come essi a volte intendono banalmente. Su un’opposizione così netta, ma chiara, si potrà a quel punto innestare, a rimescolare le carte, T. S. Eliot e la sua difesa della tradizione a scapito del talento individuale in pieno Novecento.

  2. Lo studio delle Avanguardie storiche e della Neoavanguardia potrebbe essere l’occasione per indagare il bisogno palingenetico di rinnovamento e la rottura radicale con la tradizione, che a tratti riemergono nella storia umana, ma, anche, la (speriamo non definitiva) scissione tra arte colta e intellettualistica e cultura pop.

  3. Lo studio del personaggio potrebbe essere un tema trasversale in cui far confluire romanzo, cinema, fumetti, e grazie al quale indagare il processo dell’identificazione psicologica del lettore o spettatore in uno dei personaggi. Come accade ciò e perché? Come accade che un essere umano, complesso e contraddittorio, si identifichi in«tipi», come ce ne sono nella letteratura commerciale? Che differenza passa tra i protagonisti simili a figurine pubblicitarie di Tre metri sopra il cielo e Zeno Cosini?

  4. Nel biennio, prima che come scomposizione in fattori strutturali, lo studio della letteratura dovrebbe configurarsi come vera e propria fenomenologia dei testi letterari. Classificandoli o mettendoli l’uno a fianco o contro l’altro, se ne potrebbe far cogliere una quantità infinita di tratti: la differenza tra «scrittori grassi» e « scrittori magri», come diceva Tomasi di Lampedusa; la differenza tra poeti tendenti all’assoluto lirico e poeti prosastici e narrativi; la differenza tra la scrittura sciatta e banalmente referenziale di molta produzione di genere e commerciale e una scrittura che senta la necessità di uno stile; la differenza tra scrittori che ricorrono al gioco raffinato e tecnicamente consapevole sulla struttura (focalizzazioni, fabula e intreccio, suspence, …) e scrittori in cui l’urgenza etica è prioritaria e che perciò sono moralisti, indagatori dell’animo umano, filosofi, …

  5. Infine, non si dovrebbe mai dimenticare Leopardi, per la ragione che in lui tutto il sapere precedente precipita in una miracolosa sintesi moderna, cui ancora la nostra sensibilità non è estranea. In altre parole in Leopardi molti temi della tradizione occidentale (natura e cultura, classicismo e modernità, ragione e immaginazione, …) perdono il connotato di temi culturali e diventano temi psicologici, del tutto interiorizzati.

    Insomma, il lavoro sulla letteratura che ho proposto di fare, Leopardi l’ha già fatto per noi.

    _____________

    NOTA

    Questo articolo è già stato pubblicato col titolo La letteratura nella scuola superiore: lettura, esperienza e interpretazione e diversi titoletti in Cosa insegnare a scuola, a cura di Amedeo Savoia e Claudio Giunta, Trento, Provincia autonoma di Trento – IPRASE 2013. Il libro può essete scaricato liberamente dal sito dell’IPRASE.

     

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