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diretto da Romano Luperini

Come una comunità

L’immagine dell’aula magna della Facoltà di Lettere e Filosofia della “Federico II” di Napoli gremita di studenti, di curiosi e di appassionati di letteratura, tutti intenti nell’ascolto della relazione di un giovanissimo collega, iscritto a un corso di laurea triennale o specialistica, è l’istantanea più sorprendente che conserviamo tra i ricordi della nostra partecipazione al ciclo di seminari sulle “Attese”, appena conclusi nell’ateneo napoletano, nell’ambito delle attività dell’Opificio di Letteratura Reale, coordinato da Francesco De Cristofaro e Giovanni Maffei. Insieme a questa suggestiva immagine, tanto più significativa se si considera che le giornate di seminario non concorrono all’attribuzione di alcun credito formativo, resta l’impressione di un ampliamento di orizzonti che ci ha investito e coinvolto ben al di là del contributo offerto in sede di relazione, di discussione o, semplicemente, d’ascolto. Si tratta soprattutto della costruzione faticosa e indispensabile di una comunità.

Le attività promosse da Eutopia, di cui il ciclo di seminari sul tema delle “Attese” è parte, si avvalgono del contributo di studenti, dottorandi e dottori di ricerca, ricercatori e docenti di ruolo, un gruppo transdisciplinare ansioso di percorrere il terreno che i due ideatori di questa sorta di racconto comunitario, De Cristofaro e Maffei, immaginano come «l’esatto punto mobile mobilissimo dove ci piace abitare senza sapere per dove è il viaggio», «un domicilio nomade e avventuroso, trascorrente ed equoreo, congeniale alla schiumante dubbiosità dell’oggi: Eutopia come una grassa foce di svelti legni e lente pensose chiatte, che s’apre al mare della città e delle sue domande, e vi convoglia tre vie d’acqua, tre rotte già dal vario naviglio navigate da qualche anno nell’Università» (http://www.premionapoli.it/attivita/eutopia). Le tre rotte, ciascuna delle quali vanta un nome e una storia, nocchieri ed equipaggi, bussole e approdi, in direzione di «nuove provvisorie costruzioni», si chiamano Mitologia, Ferri del mestiere e Opificio: dall’ottobre scorso anche la Fondazione Premio Napoli ne ha riconosciuto la vitalità e le promuove attivamente.

Tre rotte

Mitologia ha tentato una riflessione «sui nuovi miti d’oggi e sul mito nel nostro oggi» attraverso sei incontri, da ottobre 2012 a marzo 2013, su altrettanti archetipi (della nascita e del ritorno, di Penelope e Maria), figure (Godot, Pinocchio) e formazioni storico-antropologiche (Carnevale, Halloween). La formula dei Ferri del mestiere prevede invece una bottega di apprendisti – si tratta ancora di studenti, dottorandi, dottori di ricerca, docenti – e un “capomastro” che espone un “ferro” per un lavoro comune, ovvero lo strumento critico di cui è esperto per l’indagine sui testi. Accade che agli apprendisti, di volta in volta, si aggiungano i maestri delle sedute precedenti. L’Opificio, ispirato ai principi della divisione del lavoro, è infine lo spazio in cui «l’opera può dirsi compiuta solo dopo essere passata attraverso le mani di tutti: con la precisazione che, a dispetto di quanto accade nelle catene di montaggio del sapere tecnocratico, qui ciascuno, nel momento in cui fornisce il suo contributo al manufatto, ne modifica la stessa progettazione, ne riarticola il senso». La formula di Opificio è stata sperimentata già l’anno scorso, con un ciclo di seminari sul tema delle “Coincidenze” (i cui contributi sono confluiti in un volume, a cura di Francesco De Cristofaro e Chiara De Caprio, dal titolo Delle coincidenze. Opificio di letteratura reale, Napoli, Ad est dell’equatore, 2012) ed è stata replicata, in maniera più ampia, nella primavera di quest’anno, con un nuovo programma di seminari sul macrotema delle “Attese”: tutti hanno avuto la possibilità di inviare una proposta di studio e sono stati accolti nei sei sottogruppi che avrebbero preparato il ciclo di incontri. Anche le relazioni selezionate e comprese nei seminari sulle “Attese” confluiranno in un volume e in un nuovo numero della rivista Status Quaestionis. Quel che conta e che risulta innovativo, però, non consiste tanto nella presentazione dei risultati delle ricerche individuali legate al ciclo di incontri, ma riguarda soprattutto il metodo di lavoro, che sembra poter indicare una via per rivitalizzare l’università nell’epoca dei crediti e, soprattutto nel contesto napoletano, per riaprire l’ateneo e la Facoltà di Lettere e Filosofia alla città.

Per un’università viva

La formula dell’Opificio, aperta ai contributi di studiosi di varia esperienza, nelle sei giornate di seminario (ciascuna delle quali coordinata da due dottori di ricerca) e nelle due di workshop conclusivo in cui si è articolato il ciclo, ha provato a fornire una semantica storica dell’attesa e un ventaglio interpretativo molto ampio: l’analisi della fenomenologia dell’attesa attraverso i testi teorici di varie discipline (filosofia, psicoanalisi, antropologia, dottrine politiche); una rassegna sul tema letterario dell’attesa d’amore (con particolare attenzione al genere del romanzo epistolare); l’esplorazione delle esperienze di attesa della fine e di attesa dell’inizio (o di un nuovo inizio) in ambito letterario (dall’epica cavalleresca a quello che Guido Mazzoni ha definito “romanzo di destino” in Austen, Flaubert, Tolstoj); uno studio dei meccanismi dell’attesa dell’esperienza estetica, da parte degli autori, ma anche dell’aspettativa e dell’orizzonte dei lettori in diverse epoche storiche; un’analisi delle attese profetiche e teleologiche (dall’attesa del Messia a quella della rivoluzione); infine l’esplorazione dei luoghi in cui si è consumata l’attesa volontaria o coatta nel romanzo tra Otto e Novecento (con particolare attenzione agli spazi della formazione, della correzione, della reclusione e della deportazione, senza dimenticare il contributo dell’architettura e della sociologia in tema di non-luoghi dell’odierna metropoli).

I ferri arrugginiti

È curioso che anche nei lavori di Opificio sia stata osservata la logica dei “ferri arrugginiti” che vengono rimessi a nuovo, rivitalizzati per la ricerca comune: nella giornate di seminario, infatti, costante è stato il richiamo ai classici del pensiero e della critica letteraria, usati come grimaldello per aprire nuove porte: Freud, Lacan, Augé, Van Gennep, Jauss, Barthes, Girard, Adorno e Horkheimer, fino a Moretti, Mazzoni e Francesco Orlando. Da ciò deriva il pregio (soprattutto nel contesto di un sistema universitario che con la riduzione dei programmi di studio non offre quasi mai la possibilità di approfondire le principali correnti critiche e interpretative), ma anche il limite di alcune delle relazioni ascoltate: spesso gli studenti hanno la tentazione di immaginare che il grimaldello appena scoperto possa essere applicato anche dove non è utile, oppure finiscono per limitarsi, nell’analisi di un’opera letteraria, a cercare in essa la conferma di un’intuizione critica, pur feconda, elaborata altrove, in riferimento ad altri contesti espressivi. Eppure tali rischi contano molto meno della risorsa che lo sforzo organizzativo e il coordinamento scientifico di Francesco De Cristofaro e Giovanni Maffei sono riusciti a produrre, a stimolare nei giovani partecipanti all’Opificio. Lo abbiamo capito soprattutto ascoltando la relazione di Romano Luperini, in chiusura del workshop finale del ciclo di seminari sulle “Attese”.

Luperini sulle “attese”

Con la chiarezza di sempre, Luperini ha ricordato che se la lettura definisce il rapporto tra l’opera e il fruitore, la critica è un rapporto a tre: tra l’opera, il fruitore e il destinatario sociale sia dell’opera che del fruitore. Il docente di scuola, in tal senso, svolge una funzione critica e il testo è il medium di una possibile intesa tra il critico e il pubblico. Se il lettore cerca il significato per sé, il critico cerca il significato per noi, un significato condiviso e condivisibile. È la modificazione di quel noi a rendere difficile, oggi, la critica, che va intesa dunque come una relazione interdialogica tra critico, testo e comunità.

In ogni caso la critica presuppone un pubblico, una società, un orizzonte d’attesa; per questo continua, in forme rinnovate, a esistere e a esprimere un bisogno di socialità: sulle pagine dei blog letterari della critica militante così come in esperienze di ricerca come quella dell’Opificio. Eppure, per Luperini, la cosiddetta critica 2.0 è in gran parte autoreferenziale, risponde spesso alle logiche commerciali dei gruppi editoriali ed è vittima del “narcicinismo” del web, pur avendo il merito di cercare uno stile di comunicazione adatto alla Rete. Se si guarda alla scuola, poi, si assiste addirittura a una rivoluzione passiva (perché semplicemente subìta dai docenti, che non sono partecipi né protagonisti di tali modificazioni) che vuole il mondo dell’elettronica nel sistema educativo, senza che si apra una discussione critica sul valore degli strumenti informatici e multimediali e, soprattutto, sulla pericolosa deriva che rappresenterebbe l’esclusione dell’intersoggettività dalla formazione scolastica.

Il campo comune di scuola e università

Durante l’intervento di Romano Luperini ci siamo guardati intorno: l’aula magna di Lettere e Filosofia della “Federico II” era piena di laureati, dottorandi e dottori di ricerca che, come noi che scriviamo, sono insegnanti di scuola secondaria, e insieme a loro c’erano tanti giovanissimi studenti la cui carriera professionale probabilmente si svolgerà, ci auguriamo stabilmente, nel mondo dell’istruzione. Dell’esperienza di Opificio siamo certi che resterà loro la consapevolezza che l’insegnamento è un sapere pratico, piuttosto che tecnico, che la ragione politica dell’intellettuale, del critico che dovrebbe essere il docente di materie umanistiche, deriva dalla sostanza culturale che egli esprime e dalla disposizione alla relazione dialogica che è capace di intrecciare, dentro e fuori dall’aula, con una comunità di persone. Poi, il futuro insegnante si prepara leggendo, interrogando e interpretando testi. Anche approntando risposte errate, ma comunque osservando, nel confronto e nella discussione con altri (magari più esperti di lui), lo sviluppo stesso del processo di analisi, di comprensione, di interpretazione di un’opera. Come non pensare, allora, alla difficile situazione in cui versano, oggi, i corsi di aggiornamento per gli insegnanti, utili a rimpinguare le casse di istituzioni pubbliche e private, ma tremendamente carenti sul piano scientifico, incapaci di promuovere forme concrete di approfondimento disciplinare, affidati a un corpo docente disorganizzato e disinteressato a una vera progettualità formativa? A essere penalizzati sono soprattutto gli utenti di tali corsi, che scelgono di iscriversi solo per conservare le loro posizioni in graduatoria, senza ricevere in cambio alcuno stimolo sul piano della ricerca e della sperimentazione.

Ascoltiamo sempre più spesso accorate invettive contro la spaccatura esistente fra scuola e università, ma non si sottolinea abbastanza quanto la persistenza di determinate “offerte formative”, nella maggior parte dei casi, finisca per aggravare la situazione e renda ancor più difficile lo sviluppo di una proficua cooperazione. C’è da chiedersi se non sia più sensato costruire corsi di perfezionamento per i docenti di scuola secondaria (e non solo) partendo proprio dalla pianificazione di percorsi di ricerca condivisi, creando stabili opportunità di incontro con i colleghi impegnati nell’università e promuovendo sistematici scambi di esperienze. Nella stessa didattica universitaria si avverte, del resto, la necessità di un ripensamento di prospettive, utile a superare le asfissie imposte da tracciati poco inclini a promuovere indagini interdisciplinari. Risulta inoltre sempre più difficile rendere gli studenti partecipi di un “progetto formativo” degno di questo nome, indipendente dalle logiche di parcellizzazione tese a soddisfare le esigenze dipartimentali e quelle di “equilibrio” fra i diversi settori disciplinari. La tanto vituperata formula del discorso “frontale” resta imperante e sembrano mancare, per gli allievi, concrete possibilità di entrare nel laboratorio dello specialista, di comprendere le problematiche legate all’evoluzione dei percorsi di studio.

La ricerca senza sguardo

I prodotti della ricerca continuano a essere criptici, finalizzati a soddisfare esigenze concorsuali più che urgenze culturali, e la cerchia sempre più ristretta dei lettori rischia di isolarsi in uno spazio oltremodo oscuro e codificato. Le stesse iniziative “scientifiche” (convegni, seminari, giornate di studio), oltre a essere talvolta assai costose, conservano gelosamente il loro carattere autoreferenziale e restano aperte al pubblico solo per ragioni di opportunità formale. Sempre più spesso capita di assistere a corsi di dottorato e di post-dottorato che somigliano a conferenze: le riflessioni metodologiche restano in secondo piano, lasciando spazio a meccanismi di promozione dei risultati di ricerche individuali. A pagare le conseguenze di questa paralisi sono gli studiosi più giovani, costretti a confrontarsi sempre più spesso con progetti a breve scadenza, a produrre risultati in tempi ristretti e aderenti ai criteri valutativi ministeriali, senza trovare adeguati spazi di condivisione delle proprie esperienze. Un disagio ben espresso dalle parole di Vittorio Celotto, all’epoca giovanissimo studente della “Federico II” (e oggi dottore di ricerca), in risposta a un questionario propostogli nel 2007 proprio da Francesco De Cristofaro, che il coordinatore di Opificio ha ricordato in apertura dell’ultima giornata di workshop del seminario sulle “Attese” (un professore che cita un allievo: una notizia!): «Voglio piuttosto parlare della passione frustrata di chi studia letteratura italiana in Italia: di noi, “promettenti” filologi, dantisti, italianisti, comparativisi, incastrati irrimediabilmente tra lo zoccolo di una rigidissima tradizione d’impronta classicista e il martello dei contemporanei dipartimenti sonnacchiosi, e chini su testi sottovuoto […]. Avendo spesso a che fare con incolti (pochissimo con intellettuali) vedo straordinariamente chiaro il modo con cui la gente del popolo oggi dichiara l’assoluto ed esclusivo valore “mistico” della poesia e l’uso prettamente immanente, pratico, che ne fa, tra la seduzione, l’auto-presentazione e il suggerimento di pensieri politici altrimenti inesprimibili. Spero di non banalizzare, ma credo che la grande poesia classica vada riletta alla luce della percezione e uso che ne fanno/hanno i popoli, oggi come ieri, tra una percezione trascendente (ma in modo quasi pedissequo, manifesto) e un uso in realtà estremamente fisico, ma in modo nascosto. L’impostazione neoclassica m’impone uno sguardo asettico, non-situato; questo come dire che studi socio-antropologici e studi letterari non si toccano e non devono toccarsi. Tutto ciò mi disillude e non so più in che direzione guardare».

Contro il silenzio, verso una nuova comunità

In questo contesto, l’esperienza dell’Opificio di letteratura reale assume dei significati specifici che meritano di essere sottolineati e che Giovanni Maffei ha provveduto a richiamare con forza: «Prima di tutto, il nostro è un gesto politico. Il problema vero è dare voce a una generazione che rischia di rimanere in silenzio». Alla luce di queste idee, si intravede la possibilità di ripensare completamente il concetto stesso di “comunità scientifica”, da intendere finalmente in maniera inclusiva e non esclusiva: non più un fortino isolato e inespugnabile, ma il cuore pulsante di una comunità, una forza vitale capace di ascoltare la città e il territorio, di restituire quanto ricevuto sotto forma di progetti, idee, competenze e organizzazione.

Si avverte, del resto, l’urgenza di una svolta nel mondo accademico, soprattutto in una realtà come quella napoletana, che sta sperimentando gravi forme di disgregazione. Recentemente è stato proprio Aldo Masullo a ricordarlo, sottolineando anche nel suo intervento al seminario il valore dell’attesa come desiderio di cambiamento e fiducia nel futuro. Ci piace ricordare le sue parole: «Oggi, la malattia mortale di Napoli è la separatezza dilagata, l’isolamento non solo tra le classi e i ceti, ma all’interno di ciascuna classe e di ciascun ceto. Anzi, non vi sono più né classi né ceti, ma ricchi e poveri alla rinfusa, potenti e umili alla rinfusa. Ogni abitante di Napoli è isolato, senza comunicazione, senza alcun essere-in-comune. Semmai vi sono bande, non comunità. Perciò si è senza speranza. […] La salvezza è possibile, soltanto se i potenti si fanno umili e gli umili si fanno arditi. Altrimenti l’umiltà è un guscio vuoto, inutile, e il potere è una macchina senz’anima, sterile. Non v’è speranza, dove non v’è responsabilità. La responsabilità non è tanto quella legale, verso le regole poste, quanto quella politica, la decisione che si assume in risposta ai bisogni emergenti e agli effetti futuri dei processi in corso, anche se poco visibili, nelle viscere della storia. È necessario che tutti, soprattutto i potenti, divengano maggiorenni. La speranza, come l’amore, o è responsabile, o non è» (La responsabilità della speranza, consultabile su www.aldomasullo.com, nella sezione “Scritti”).

Siamo certi che a ottobre il “naviglio” di Opificio ripartirà con un nuovo macrotema – chissà, magari anche con una formula rinnovata – da sviluppare attraverso un racconto comunitario. Vi invitiamo, sulla scorta della nostra esperienza, a prendervi parte con proposte e suggerimenti. L’obiettivo, direbbe Aldo Masullo, è durare, nel senso di non adagiarsi pigramente nel movimento del tempo, ma di farlo diventare senso, di introdurre un taglio tra il prima e il poi, di esprimere la cura per ciò che ci circonda nello spazio che separa la vita dalla morte: perché l’attesa è sempre attesa del nuovo. 

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