Oltre la scuola delle nozioni e oltre la scuola delle competenze: lo spazio sempre aperto della letteratura
Necessità di riforma e inquietudine
Vorrei provare ad essere insieme progressista e conservatore, insomma, vorrei provare ad essere dialettico. Vorrei, soprattutto, avanzare dei dubbi, assumendomene la responsabilità: nella scuola, oggi, l’incertezza e il disorientamento sono assai diffusi, e probabilmente ci sarebbe bisogno di punti fermi e di indirizzi d’azione chiari, piuttosto che di un’altra dose di crucci. Tuttavia la mia volontà di riforma – sì, la scuola ha bisogno di essere riformata – è perplessa e inquieta.
L’oggetto della mia riflessione sarà l’insegnamento della letteratura nella scuola secondaria, in particolare le proposte di rinnovamento didattico rappresentate dalla “scuola delle competenze” e dal paradigma costruttivista, paradigma che aspirerebbe a diventare vera e propria koiné epistemologica della scuola attuale. L’approccio dialettico consisterà proprio nel tentativo di individuare quanto di positivo queste due proposte portano con sé e, contemporaneamente, di esprimere alcune riserve, per quanto di ambiguo e rischioso contengono, in particolare per una scuola in cui l’arte e la letteratura vogliano rivendicare ancora uno spazio non marginale.
Scuola delle competenze e costruttivismo: cosa ci insegnano
La scuola della trasmissività e del nozionismo è esistita ed esiste. Sicuramente, però, non nella forma della trasmissività e del nozionismo integrali che qualcuno disegna: quello è solo uno sciocco mito polemico. Da sempre gli insegnanti prestano attenzione non solo a quanto gli studenti sanno, ma anche a cosa sanno fare con ciò che sanno. Questa attenzione però non è mai stata tematizzata esplicitamente e oggi, purtroppo, non possiamo più permetterci questo artigianato: la congerie di altri saperi che preme intorno alla letteratura, le mille altre esigenze formative, l’esplosione della quantità di informazioni disponibili, ha reso necessaria una rigorosa analisi disciplinare. Oggi la letteratura è chiamata a dare ragione di sé, dei suoi scopi, dei suoi metodi, finanche della sua utilità.
Scuola delle competenze, molto sinteticamente, significa proprio questo: selezionare nel corpus di ciascuna materia i saperi e le abilità essenziali, organizzarli in forme di apprendimento significative, trovare mezzi validi e affidabili per valutarne l’acquisizione. Conoscere alcuni canti della Commedia e saperli parafrasare e commentare non è diventato inutile, ma non è più fine a se stesso: è giustificato dal fatto di essere una conoscenza rilevante nell’immaginario culturale di un italiano, di essere un mezzo di apprendimento linguistico, di permettere di conoscere temi antropologicamente rilevanti, e così via.
Scuola delle competenze significa però anche un’altra cosa, più semplice: dobbiamo fare delle scelte radicali e coraggiose. L’idea di totalità che, nonostante tutto, ancora permea la nostra scuola, per cui fare letteratura è fare storia della letteratura, a partire dalle origini e procedendo in ordine cronologico (per fermarsi dove, solo a Montale e Svevo?), è un’idea inerziale. Dobbiamo individuare alcuni nodi essenziali e sciogliere quelli, abbandonando l’idea di procedere extensive; in questo caso intendo nodi in sé culturalmente rilevanti, fini a se stessi, non strumentali allo sviluppo di qualcos’altro, abilità o competenza che sia.
In che cosa consiste invece il contributo del costruttivismo alla nostra didassi? Innazitutto bisogna dire che esso ambisce ad essere non un indirizzo fra altri, ma l’«elemento aggregatore e integratore di metodologie preesistenti» (Carletti A. – Varani A., Didattica costruttivista, Trento, Erickson, 2005, p. 11). Esso infatti è un approccio trasversale, che attraversa molteplici campi e saperi: didattica, psicologia, pedagogia, epistemologia. I suoi principi fondamentali sono così riassumibili: 1) anti-oggettivismo, le conoscenze non stanno nel mondo, ma vengono costruite dal soggetto; 2) intersoggettività, le conoscenze vengono costruite in una transazione di significati tra soggetti; 3) contestualismo, le conoscenze non sono astratte ma concretamente situate; 4) relativismo, le conoscenze dipendono dal contesto socio-culturale in cui si nasce e si è educati; 5) focus sul rapporto tra pensiero e linguaggio, le categorie concettuali sono categorie linguistiche, il pensiero si costruisce insieme al linguaggio; 6) centralità della metacognizione, apprendere è essere consapevoli dei propri processi di apprendimento.
Su queste basi, il costruttivismo ci invita a riflettere sul fatto che: 1) il nozionismo altro non è che sostanzialismo, ovvero basta poco perché categorie critiche come la «regressione del narratore» in Verga o gli immarcescibili «pessimismo storico e cosmico» leopardiani si trasformino, da grimaldelli euristici ricavati dai testi per meglio comprenderli, in nozioni in sé e per sé valide, idee eterne che ogni studente di ogni generazione deve ripetere; 2) gli studenti possiedono già delle categorie interpretative ed è questo “filtro” che occorre modificare, perché possano comprendere la grande letteratura, senza deformarla e banalizzarla (il nostro compito non è imporre nella sua monumentale magnificenza la poesia d’amore medievale a coloro per i quali l’amore è tutt’al più una strofa di Sanremo, ma condurli, mediazione dopo mediazione, a fare il percorso che dalla Pausini arriva a Giacomo da Lentini, Dante, Petrarca – sempre che ci si riesca… –); 3) apprendere, quindi, significa ristrutturare continuamente le proprie categorie interpretative, e si tratta di un processo di decostruzione e ricostruzione continuo, che usa come mezzo principale il linguaggio (gli studenti devono scrivere e parlare più di quanto non facciano oggi); 4) la discussione e la costruzione di conoscenze avviene dentro lo spazio situato della classe, attraverso il dialogo tra l’insegnante e gli studenti, e tra studente e studente. Questo, schematicamente, è quanto si dovrebbe dare a Cesare: la scuola ancora non l’ha fatto. Ma quali sono i rischi di cui parlavo all’inizio?
Diciamolo, almeno una volta: il re è nudo. Il rischio di pretendere l’onniscienza
Gli insegnanti sono esseri umani limitati, ma a volte sembra che la politica e la società se ne dimentichino. Basterebbe leggere il programma d’esame del concorso che ancora si sta svolgendo e verificare quale sterminata enciclopedia di saperi e miracolosa somma di capacità, secondo il legislatore, dovrebbe possedere un futuro insegnante di lettere: a parte la persistente inattualità, tutta italiana, di attribuire agli insegnanti di lingua e letteratura anche la storia e la geografia (discipline importanti, che dovrebbero essere insegnate da chi è specificamente formato per farlo, non da laureati in lettere in partibus infidelium), si va dalla letteratura italiana a quelle europee ed extraeuropee, dalla glottodidattica alla sociolinguistica, dalla massmediologia alla dialettologia, dalla pedagogia alla psicologia, dalla didattica alla docimologia, per finire con l’italiano a stranieri, le nuove tecnologie, una lingua straniera a livello B2. Si dirà: si tratta di ideali controfattuali, all’atto pratico tutti rimettiamo i piedi a terra, persino i ministri. Entriamo allora, ma cursoriamente, nel merito di alcune decisioni e discussioni recenti.
La recente circolare ministeriale sui BES del 27 dicembre 2012 individua una gamma di «bisogni educativi speciali» tanto ampia da includere disagi (permanenti e «temporanei»: sic) fisici, culturali, sociali, psicologici, non certificati; a questi l’unico insegnante presente in classe, quello curricolare, dovrebbe rispondere con piani educativi personalizzati. A ciò aggiungiamo che proprio durante il dicastero di Profumo si è discusso di abolizione della figura dell’insegnante di sostegno, perché degli studenti con disabilità dovrebbe occuparsi – c’è da chiederlo? – sempre il solitario insegnante curricolare. Solo di discussione si è trattato, ma è spia eloquente di mezze intenzioni e atteggiamenti diffusi. Ma la cosa più importante è un’altra ancora e mi sia consentita una digressione personale.
Già insegnante in servizio, ho recentemente studiato in una scuola di specializzazione in italiano a stranieri e ho fatto un tirocinio con una classe di immigrati. Era, per me che l’italiano l’ho sempre e solo insegnato ad italiani, la prima esperienza: breve, ma sufficiente per capire che insegnare una lingua a nativi e a stranieri sono due mestieri affatto diversi. Se volessi continuare quell’esperienza, la deontologia e l’etica mi imporrebbero di studiare ancora, di leggere, di aggiornarmi, di approfondire, per affrontare quella professione come si deve; soprattutto, per affrontarla come è dovuto agli allievi, che hanno il diritto di avere un docente agile su quel particolare terreno, non un tuttologo superficialmente abilitato a insegnare ogni cosa, e ciascuna male. (En passant: l’apprendimento dell’italiano a stranieri è, secondo la citata circolare, uno di quei bisogni educativi speciali di cui dovrebbe occuparsi l’insegnante factotum. Che esistano docenti specializzati in questo particolare campo sembra essere questione indegna di considerazione. Ma immaginare che in ciascuna scuola possa esistere un pool di insegnanti formati ad hoc accanto a quelli di L1 è oggi fantascienza: è molto più comodo stabilire per decreto di aggiungerlo alla lista delle cose da fare dell’unico insegnante già a libro paga).
Affinarsi e affinare quello che sa, questo dovrebbe fare un insegnante: ed è impossibile giocare su troppi tavoli contemporaneamente. Solo in questo modo si può pensare di raggiungere quell’obiettivo (per il Ministero addirittura un prerequisito!) indicato nei programmi del concorso: «conoscenza critica delle discipline di insegnamento e dei loro fondamenti epistemologici per poter individuare gli itinerari più idonei per una efficace mediazione didattica». Per tracciare una rotta sensata in un territorio, bisogna conoscerlo bene, averlo già percorso.
Che cosa c’entra tutto questo con la scuola delle competenze e con il costruttivismo? C’entra. Lavorare sulle competenze e insegnare seguendo gli orientamenti costruttivisti non è cosa che si improvvisi da un giorno all’altro. Occorre adeguare lentamente il proprio modo di insegnare, modificare le proprie abitudini: occorre meditare seriamente, sperimentare nella prassi quotidiana, fallire e riprovare; e occorre leggere almeno qualche libro o fare corsi di aggiornamento. Per la verità, trattandosi di un vasto ambito di discipline, per concretizzare una didattica costruttivista bisognerebbe sapere qualcosa sull’apprendimento cooperativo, sulla media education, sull’uso didattico delle nuove tecnologie, nonché leggere qualche testo divulgativo di psicologia cognitiva, anche se sarebbe meglio andare direttamente alla fonte (Vygotskij, Gardner, …). Occorre fare tutto questo, sì: a meno di non voler applicare semplicemente l’etichetta nuova sul vecchio prodotto (metti i ragazzi in uno pseudo-gruppo e lo chiami “cooperative learning”: non per malafede, ma perché la buona volontà non basta, serve la competenza), o a meno di non volersi buttare superficialmente ed entusiasticamente sul nuovo, finendo per diventare schiavi inconsapevoli di qualche tecnologia luccicante.
Insomma, la “nuova scuola” passa da un poderoso contributo di discipline che gli insegnanti generalmente conoscono solo per sentito dire. Anche i giovani insegnanti come me, che hanno fatto la SIS e hanno dovuto studiarle, ne hanno una conoscenza superficiale. Se non basta più, come una volta, conoscere bene la propria materia e saperla insegnare, ciò dipende dal fatto che la realtà è diventata troppo complessa per le nostre possibilità di comprensione e azione e che, di conseguenza, ci sono troppe cose che bisognerebbe sapere e saper fare per addomesticarla. In un quadro di questo genere, se il destino dei nostri studenti fosse una priorità non solo retorica, la politica si preoccuperebbe di guardare alle condizioni materiali di lavoro nelle classi, invece di aggiungere in calce a programmi e contratti di lavoro una pretesa e un’altra ancora con la mano destra, mentre con la sinistra taglia i fondi. Se lo facesse, dovrebbe ammettere che neanche il più capace e meglio motivato insegnante d’Italia potrà far molto, se viene chiuso, solo, dentro un’aula con 30 studenti (di cui un terzo stranieri da alfabetizzare e un terzo portatori di “bisogni educativi speciali”), a far amare la letteratura, a insegnare a scrivere, a usare criticamente le nuove tecnologie, a demistificare il linguaggio subdolo di politica e pubblicità, a familiarizzare con il passato della storia e l’altrove della geografia, e a farlo non limitandosi a “spiegare”, ma costruendo percorsi laboratoriali centrati sullo studente, reperendo materiali autentici, chattando da casa con la classe, curandone il blog, aggiornandosi con dei buoni libri … Dirlo forse non servirà a risolvere il problema. Però far notare che il re è nudo, almeno una volta, è liberatorio.
Tentativi dal basso
Nell’attesa, forse beckettiana, di intravedere una politica diversa all’orizzonte, credo che gli insegnanti possano mettere in atto qualche concreto e sensato tentativo di riforma dal basso, e senza necessariamente disperdersi fra varie e molteplici discipline, anzi facendo precisamente il percorso contrario: quello di un approfondimento delle ragioni della propria materia, di una riscoperta del suo più alto ufficio di conoscenza.
La letteratura ha già una naturale predisposizione per molti degli assunti del costruttivismo, in particolare per la relazione del sapere con i contesti storici e sociali, per il rapporto tra pensiero e linguaggio, per la dialogicità. Non si può dire qui come, ma se gli insegnanti di letteratura riuscissero a evitare ogni forma di cristallizzazione, monumentalizzazione e sostanzializzazione (vedi sopra) dei discorsi che ogni giorno in classe fanno intorno ai testi, se lo studio della letteratura cessasse di essere la ripetizione di un sapere riassuntivo e manualistico, per diventare un rapporto vivo e dinamico con la parola scritta, nella lettura, nell’interpretazione e nell’appropriazione linguistica (parafrasi, commento, riscrittura, …), nonché nell’indagine approfondita dei contesti storici e sociali in cui quegli stessi testi sono nati, si potrebbe raggiungere l’identico obiettivo del costruttivismo: costruire le conoscenze. Per far questo, è necessario che l’insegnante conosca molto bene la propria disciplina o le proprie discipline: di solito si tratta di un ambito di per sé già vastissimo, ma è pur sempre un mare navigabile, al confronto delle galassie di saperi che il ministero snocciola nei suoi documenti.
Pensavo che la parola “Europa” avesse un altro significato. Il rischio della tecnocrazia
Scuola delle competenze e costruttivismo sono cose serie. Ma forse queste parole non hanno lo stesso significato per gli studiosi che hanno contribuito con pazienza alla loro concettualizzazione e per la tecnopolitica che vorrebbe imporli alla scuola in una forma – mi pare – stravolta. Userò un esempio per spiegarmi. In un’Europa unita ma plurilingue, l’apprendimento delle lingue straniere è diventato di fondamentale importanza. Per uniformare le politiche di tutti gli stati membri su questa materia, è stato redatto un Framework, cui scuole, ministeri, insegnanti, autori di libri di testo, enti certificatori delle competenze linguistiche potessero far riferimento (in italiano: Quadro comune europeo di riferimento per le lingue, La Nuova Italia-Oxford, 2002). Tale documento, certo piuttosto indigesto alla lettura, non vuole essere prescrittivo di un indirizzo o di una tecnica e vorrebbe anzi «incoraggiare tutti coloro che […] operano professionalmente nel campo delle lingue, […] a riflettere [sul proprio operato]» (p. XI). Ma è stato notato da chi è del settore che esso, ampiamente diffuso ormai tra autori di libri di testo e personale degli enti certificatori, è ancora poco noto o sottoutilizzato da parte degli insegnanti, che su quel documento si sono «inutilmente affaticati nel reperire […] indicazioni pratiche» e hanno avuto difficoltà «a recepire le sue linee guida come tali e non come precetti» (S. Machetti, in Diadori-Gennai-Semplici, Progettazione editoriale dell’italiano L2, Perugia, 2011, p. 254). Detto in parole semplici: gli insegnanti vogliono sapere “come fare”, quale tecnica applicare. Ma noi siamo intellettuali, non tecnici: dovremmo integrare azione e riflessione, non aspettare l’imbeccata da altri.
Tuttavia, anche con il nostro autodafé, il problema probabilmente resterebbe. Infatti, nella difficoltà a familiarizzare con un documento del genere si nasconde anche altro. Non è un caso che esso sia ormai un punto di riferimento imprescindibile proprio per chi, come case editrici ed enti di certificazione, deve rispettare procedure standardizzate e norme rigorose, ottenere riconoscimenti della qualità, fare i conti con la logica della formalizzazione burocratica: chi deve, in altre parole, certificare le competenze. Gli insegnanti – ed è comprensibile e in qualche modo anche salutare – continuano ad essere riottosi a tutto questo. Particolarmente riottosi sono gli insegnanti di letteratura, perché è la nostra stessa disciplina che fatica ad essere piegata a quella logica. Lo dimostra anche il Quadro, in cui all’insegnamento della letteratura («Usi estetici della lingua», p. 70) è dedicata mezza pagina, su quasi 300. Così fuggevole è la citazione, che gli autori sentono il bisogno di giustificarsi: «Questa trattazione sommaria di ciò che ha tradizionalmente costituito un aspetto importante, spesso dominante, dell’insegnamento delle lingue straniere […] può sembrare riduttiva, ma non lo è. Le letterature nazionali e locali danno un sostanziale contributo all’eredità culturale europea». La letteratura è importante, ma il suo apprendimento è difficile da scomporre in competenze. Poiché credo che sia più che difficile – direi quasi impossibile, almeno per il suo nucleo più autentico –, dovremmo probabilmente essere profondamente grati di tanta pudica cautela, anche se resta la marginalità assoluta, in un documento ufficiale, di «un aspetto [così] importante» della cultura europea.
Il rischio che la scuola delle competenze diventi una scuola della certificazione burocratica delle competenze è reale, al di là di ogni buona intenzione. Sarebbe infatti sciocco negare che le intenzioni siano anche buone: se è vero che l’insegnante è, come è stato detto, un «professionista riflessivo», egli deve essere in grado, da un lato, di dare ragione del proprio operato, dall’altro, di «operazionalizzare» (cioè di scomporre e tradurre in prestazioni misurabili e valutabili) le capacità e gli apprendimenti degli studenti. Ma queste buone intenzioni, al di fuori di un contesto di riflessione di cui si faccia carico l’insegnante nella sua quotidiana attività, rischiano di degenerare in mezzi per attribuire patenti di eccellenza e di inefficienza a studenti, insegnanti, istituti.
Scopi propri e usi impropri dell’Invalsi. Conoscenza vs comprensione?
Le prove Invalsi si muovono proprio su questo scivoloso crinale. Questa prova a carattere nazionale è di necessità standardizzata, diversamente sarebbe impossibile la raccolta e la comparazione dei dati. Tuttavia ciò impone anche una precisa restrizione dell’oggetto di valutazione: la capacità di individuare singole informazioni, di fare inferenze strettamente legate al testo, di ricostruire le referenze pronominali e avverbiali, di spiegare il significato di singoli lemmi o fornirne il sinonimo. È evidente che sia impossibile abbandonarsi al campo molto più aperto dell’interpretazione e della rielaborazione critica. Personalmente non credo che sia saggio da parte degli insegnanti criticare le prove Invalsi sottraendosi alla discussione sul merito. In primo luogo la scuola sta diventando un sistema complesso e abbiamo bisogno di raccogliere dati precisi; in secondo luogo un test a crocette va benissimo se gli scopi che ci si prefigge sono quelli appena elencati. Aggiungerei che le prove Invalsi ci obbligano a prestare attenzione a un aspetto fondamentale della comprensione del testo: la comprensione letterale. Non bisogna dimenticare questo chinarsi paziente sulle parole e sulle frasi. Avere per obiettivo, giustamente, quello di far apprezzare la letteratura non può farci dimenticare che ci sono adolescenti che faticano a fare inferenze piuttosto semplici su un testo in italiano standard.
Ma potrebbe accadere che questo sistema venga orientato a scopi che non dovrebbero appartenergli. Ha scritto Giuseppe Bertagna: «Se esiste un Istituto nazionale per la Valutazione del Sistema di Istruzione, è giusto che raccolga dati il più possibile completi sullo stato delle conoscenze e delle abilità mostrate dagli studenti italiani. Non è giusto che questo serva non solo a valutare gli studenti, ma nemmeno a valutare la qualità educativa delle scuole» (Per un vocabolario di base. 3. Obiettivi e prestazioni, in «Scuola e didattica», n. 3, a. XLVI). Per usare ancora il lessico di questo studioso, abilità e conoscenze pertengono all’«avere» di un individuo, mentre capacità e competenze al suo «essere» (Per un vocabolario di base. 1. Le parole dell’essere: capacità e competenze e 2. Le parole dell’avere: conoscenze e abilità, in «Scuola e didattica», rispettivamente nn. 1 e 2, a. XLVI). L’essere può essere descritto indirettamente, certo mai misurato. Ma stilare graduatorie fra istituti o fra sistemi scolastici significa dire che un sistema è migliore di un altro, non che i suoi studenti hanno migliori qualità. La distinzione può sfuggire e si sa che i dati statistici di solito non vanno troppo per il sottile. Se poi le graduatorie serviranno per decidere come ripartire i fondi, non c’è bisogno di dire quali saranno le conseguenze.
Ma è un altro l’aspetto sul quale vorrei soffermarmi. Se le prove Invalsi sopravanzeranno per importanza, anche soltanto di percezione mediatica, tutte le altre forme di valutazione cui ricorriamo a scuola, incorreremo nel ben noto fenomeno del «teaching to test», cioè dell’insegnamento che va al traino della prova, che diventa addestramento al suo superamento. Ma, proprio perché questo genere di prove, fondato sulla linguistica testuale e su costrutti di tipo cognitivista, impoverisce la portata di senso del testo e limita il fenomeno della comprensione a quello della pur importantissima comprensione letterale, ciò ridurrà il lavoro sui testi a qualcosa di troppo angusto e renderà del tutto superflui quelli letterari. Riconoscere l’importanza della comprensione letterale infatti non deve far cadere nell’unilateralità uguale e contraria, per cui si finisce per considerare i testi letterari raffinati dispositivi di cui compiacersi esteticamente (e in modo in fondo un po’ frivolo e gratuito, e se resta tempo), dopo la seria e fondata fatica della decodifica semantica.
Il fenomeno della comprensione – come ha mostrato, io credo indubitabilmente, l’ermeneutica di Heidegger e Gadamer – non è riducibile solo a un processo cognitivo di apprensione di un oggetto da parte di un soggetto, bensì è fondato su una precomprensione esistenziale, che lo limita ma anche lo orienta e rende possibile. Noi siamo nel mondo, e per questo comprendiamo e interpretiamo. Scrivono Lutero e Pavese: «Qui non intelligit res, non potest ex verbis sensum elicere» (in exergo alla seconda parte di Gadamer, Verità e Metodo); «Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi» (Il mestiere di vivere, 3 dic. ’38).
Si legga questa breve poesia di Sandro Penna: «Nel fresco orinatoio alla stazione / sono disceso dalla collina ardente. / Sulla mia pelle polvere e sudore / m’inebbriano. Negli occhi ancora canta / il sole. Anima e corpo ora abbandono / fra la lucida bianca porcellana». Non si può dire che una poesia come questa sia difficile, quanto alla lettera. Tuttavia, potrebbe riuscire vuota di significato per chi non possa o sappia riconnetterla a una memoria che è nei suoi stessi sensi, memoria necessaria per capire quell’ebbrezza del sole e del sudore e tutte le connotazioni di quel semplice aggettivo d’apertura, «fresco»: e intendo in senso stretto, semantico, testuale. In altre parole, anche la comprensione linguistica è più profonda (e, fatto rilevante per l’insegnamento, più facile), se non si dimentica il terreno dalla quale nasce, quello della vita che comprende per il semplice fatto di esserci.
Mi domando da un po’ che risultati otterremmo nelle prove Invalsi, se sottoponessimo agli studenti testi per loro avvincenti. Sono convinto che sarebbero migliori. Ma, chissà, forse qualcuno ne dedurrebbe solo che ad essere migliorate sono le loro competenze linguistiche e cognitive, statisticamente comparate a quelle della precedente rilevazione.
Lo studente al centro: siamo sicuri? Il rischio dello strumentalismo
Oggi si parla molto di «centralità dello studente». Questa centralità è particolarmente rilevata nelle teorie costruttiviste, che parlano di «ambiente di apprendimento» per indicare la classe e tutti i suoi componenti, umani e strumentali. Si legga questa affermazione (speriamo un lapsus calami), che denuncia abbastanza chiaramente un orientamento di pensiero: «Anche la comunicazione e l’azione del docente possono essere considerate un oggetto tra gli altri oggetti a disposizione dell’apprendente» (Didattica costruttivista, cit., p. 45, corsivi miei). L’insegnante è inteso, negli approcci costruttivisti, come tutor e facilitatore dell’apprendimento dello studente: egli deve discretamente farsi da parte. A chi obiettasse che questa è una grave limitazione della sua figura, un costruttivista obietterebbe probabilmente che non di svilimento si tratta, ma di mutamento di funzione. Ammesso che gli insegnanti italiani, da sempre abituati a considerarsi conoscitori della propria materia piuttosto che empirici osservatori e quasi microsociologi, siano in grado di cambiare così radicalmente paradigma, questa rivoluzione copernicana mostra un aspetto inquietante.
L’idea di un insegnante che diventa mera funzione dell’apprendimento dello studente è ben più del democratico rovesciamento dell’autoritarismo di una scuola trasmissiva. Innanzitutto occorrerebbe osservare che è solo perché si è costruito un altro mito polemico, grazie al quale disfarsi meglio della “scuola tradizionale”, che trasmissività è venuta a coincidere con frontalità: esistono lezioni frontali non trasmissive, ma capaci di suscitare interesse e catalizzare l’apprendimento. In ogni caso stupisce che teorie come quelle costruttiviste, così attente ai contesti sociali, culturali e storici preesistenti al soggetto, e che il soggetto necessariamente influenzano, siano così entusiaste sostenitrici della trasformazione dell’adulto in figura comprimaria. Invece, se è vero che il processo della conoscenza avviene attraverso la relazione con “oggetti” simbolicamente carichi di significato, il principale simbolo grazie al quale e contro il quale imparare ad articolare il proprio sapere e la propria identità è l’adulto: i padri, da sempre, vanno amati, odiati, simbolicamente uccisi, superati ed infine ringraziati. Basta, ovviamente, che siano padri e non padroni, o Saturno che divorano i figli. Non si può evadere la domanda che prima o poi qualunque studente fa, non necessariamente ad alta voce, al proprio insegnante: «Che cosa sei diventato grazie a quello che sai?». Continuo a credere che una risposta come «un capace e onesto professionista che ti sta aiutando a crescere» lasci piuttosto delusi.
Anche lo studente può diventare strumento d’altro, e paradossalmente in nome del suo diritto di sviluppare le proprie attitudini. Il modello delle competenze, infatti, è incardinato a un principio, quello dell’adattamento (il costruttivismo direbbe forse, piagetianamente, «accomodamento») del soggetto all’ambiente: un soggetto competente è colui o colei che sa attivare le proprie conoscenze ed abilità in un determinato contesto, allo scopo di risolvere certi problemi e raggiungere certi obiettivi. Da questo è facile ricavare l’inferenza che uno studente competente sarà un lavoratore competente.
Bisogna intendersi bene su questo punto, per evitare fraintendimenti. Una scuola centrata sul problem-solving non è ovviamente una scuola tout court al traino del mercato capitalista; anzi, impostare l’insegnamento intorno alla risoluzione di problemi – ogni materia ha i suoi specifici – e fornire agli studenti i mezzi per giungere da soli alla soluzione, li aiuta certamente ad aumentare il senso di efficacia e l’autostima, dunque a renderli persone (almeno un po’) più felici. Non voglio assolutamente invitare a puntare al ribasso. Ma non dovrebbe sfuggire che l’enfasi sulla capacità di conseguire un risultato, di concretizzare i propri apprendimenti in produzioni personali che siano il più possibile autentiche e reali (il progetto multimediale, l’ipertesto, …: sembra di essere in preda a una vera e propria ansia di realtà o fretta di realizzare), rischia di soffocare un tratto qualificante della scuola: l’ipoteticità, la potenzialità, il “come se”, insomma il non ancora attuato o, magari, l’inattuabile. Perché limitarsi ad ascoltare una lezione ben tenuta e non poter fare nulla del sapere che mi viene offerto dovrebbero essere solo forme di tradizionalismo regressivo?
Forse più difficile ma altrettanto necessario è dire anche un’altra cosa: la scuola deve, certo, insegnare ad agire con miglior efficacia nel mondo. Ma un’umanità consapevole davvero dei suoi limiti sa che nessuna scuola, nessun insegnante, nessuna pedagogia sarà mai in grado di conseguire pienamente quel risultato: resterà sempre un margine, ampio, di possibile fallimento. Quel fallimento non è un disguido correggibile, un vuoto colmabile, un negativo progressivamente superabile: è invece un revers de la medaille concretissimo e consustanziale all’esistenza.
Leggere Petrarca, Leopardi, Baudelaire, Montale, se riusciamo a farne un sapere vivo e attuale e non l’ammirazione idealistica del monumento, serve anche a dare un senso alla noia e al dolore: ma lasciandoli lì dove sono, irriducibili e insuperabili, certo non fungibili in nessuna modo alla realizzazione in questa vita. So che gli ottimisti commenteranno cachinnando: parole di noiosi pessimisti. Pazienza. A loro resta l’onere di spiegare le ragioni dell’aumento dei casi d’ansia, stress, depressione, delle varie forme di dipendenza, del conformismo passivo e dell’abulia che colpiscono la nostra società e in particolare quella sua parte fragile che sono i nostri studenti. Anche perché noi non vogliamo essere pessimisti: piuttosto, un po’ progressisti e un po’ conservatori.
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L1 e L2
Sono d’accordo su tutte le riflessioni espresse in questo intelligente e utile articolo. Specie sul fatto che è inconcepibile pensare di poter chiedere a un docente, pur preparato nell’insegnamento della lingua L2, di insegnare, nella stessa classe, l’italiano a degli stranieri di livello nettamente diverso l’uno dall’altro e insieme la letteratura a degli studenti italiani (come far capire, almeno all’inizio, infatti, il lessico specificamente letterario a persone che non comprendono neanche frasi elementari espresse in italiano?). I percorsi vanno necessariamnte diversificati. E non basta affiancare alle ore curriculari ore di L2 in aggiunta.