La piazza di Roma come il ‘68. Alberto Alfredo Tristano su “L’uso della vita”/11
«Abbiamo abrogato la democrazia rappresentativa e scelto la democrazia diretta. L’assemblea è sovrana e i suoi rappresentanti sono delegati revocabili in qualsiasi momento dall’assemblea. Gli organismi rappresentativi non contano più nulla, anzi non hanno mai contato nulla, sono sempre stati solo emanazioni burocratiche dei partiti, carrozzoni vuoti. Non ci hanno mai rappresentato, non hanno nessun rapporto con noi, con la nostra vita concreta. Da qui in avanti ci rappresentiamo da soli». E ancora: «Il movimento sta crescendo qui e in tutta Italia. Non può essere ingabbiato, programmato, incanalato, deve restare sempre allo stato fluido, essere imprevedibile, imprendibile… Bisogna rompere i vecchi schemi e imparare a vivere col terremoto, nel terremoto, e il terremoto siamo noi. Ragionare di piattaforme significa non aver capito nulla del nuovo che noi rappresentiamo».
Non sono frasi tratte da qualche recente comizio di Beppe Grillo e il movimento di cui si parla non è il Cinque Stelle. Sono invece le parole che Romano Luperini mette in bocca ad Adriano Sofri nell’infuocato Sessantotto pisano del movimento studentesco, raccontato nel recente romanzo L’uso della vita. 1968 (Transeuropa edizioni). Luperini è uno dei massimi studiosi di letteratura italiana, che insegna nell’ateneo di Siena e all’estero. Stavolta affronta però le lettere nelle vesti dell’inventore di storie, desumendo il materiale narrativo dal proprio bagaglio autobiografico. Luperini è stato infatti uno degli animatori della contestazione nella città galileiana, fondando la “Lega dei comunisti pisani” raccolta intorno alla rivista “Nuovo Impegno”.
Nella Pisa universitaria di quegli anni emergevano due figure cardine (continuamente evocate nel romanzo) nella storia recente della sinistra italiana, che ne avrebbero incarnato in qualche modo le due anime da quel momento divergenti e non più compatibili: quella organica, ultraortodossa di Massimo D’Alema (il primo ex comunista a guidare un governo, come da trita definizione) e quella contestataria, movimentista, rivoluzionaria di Sofri. Luperini incardina la propria storia sullo strappo dalla prima per abbracciare la seconda ala: non a caso, il romanzo si apre con l’espulsione di Marcello (il nome del protagonista, e alter ego dell’autore) dal Partito comunista pisano, reo di aver dissentito dalla linea e di mostrare simpatie per i “rivoluzionari da farmacia”, come li chiamava Giorgio Amendola (maestro politico dell’altro Giorgio riformista, il presidente Napolitano). Una posizione, quella di Marcello, ancora più grave perché tradiva la militanza del padre, fiero comunista d’apparato, ex partigiano.
Comincia così, con questo strappo doloroso e convinto, l’avventura di Marcello nel ‘68 delle occupazioni e delle manifestazioni in piazza. D’Alema è per disoccupare, risolvere il problema nella mediazione, istituzionalizzando la protesta, in puro togliattismo (basti ricordare in questo senso la battuta del Migliore a Pajetta che gli annunciava l’occupazione della prefettura di Milano: «Ah sì, e adesso che ve ne fate?»).
Sofri è per proseguire e allargare il fronte dall’ateneo alle fabbriche. Luperini la fa spiegare così a un suo personaggio: «A D’Alema non importa nulla né dell’assemblea né dei delegati, li ha accettati e proposti come terreno di mediazione perché a lui interessa appunto la mediazione, il controllo, l’apparato… lui in realtà crede solo negli organismi e nelle strutture organizzati, nei gruppi dirigenti che tessono, rammendano, ordiscono i fili della politica. È l’opposto di Sofri che crede solo al movimento. Anche a Sofri in fondo non interessano i singoli obiettivi, non gliene frega nulla che vengano raggiunti o no, non gli interessa un successo di per sé, gli obiettivi sono per lui solo pretesti perché il movimento si muova, perché cresca, cresca, cresca, senza arrestarsi un momento. Direi che Sofri ha paura della tregua, della normalità, vorrebbe un perenne stato d’eccezione e di eccitazione…».
Tutto sommato la sinistra, nel suo ampio fronte variamente connotato, è rimasta tuttora a questa polarizzazione ideale, osservabile anche nell’attuale fase politica: compresa forse la drammatica secondarietà degli obiettivi, come i più maligni potrebbero sottolineare. E la polarizzazione invade anche la valutazione perfino personale dei due uomini simboli: D’Alema stratega o in alternativa mente di ogni complotto di Palazzo (non ultimo, l’affondamento quirinalizio di Prodi, in cui la narrazione del tradimento ha investito pure il suo labrador); Sofri adorato maître à penser, in forza a “Repubblica” come al “Foglio” o disprezzato leader di un passato culto politico sanguinario (fa una certa impressione la prima riga della voce di Wikipedia: «Adriano Sofri (Trieste, 1º agosto 1942) è un giornalista, scrittore e criminale italiano…»).
Va tuttavia osservato che la scrittura di Luperini non vive del senno di poi, cercando capziosamente di riversare l’oggi sui giorni d’allora. È piuttosto un racconto che salta l’analisi per tuffarsi nel vivo delle contraddizioni e della intensità esistenziale dei ragazzi e degli uomini di quel tempo. Emergono figure come l’intellettuale Franco Fortini, che ha ispirato in parte il titolo con una criptica frase che è insieme politica e poetica: «La forma è attributo delle classi dominanti e insieme anticipazione dell’uso formale della vita, che è il fine e la fine del comunismo». Fortini che contesta Pasolini sui poliziotti figli del popolo contro gli studenti borghesi: «Non ti bastava essere D’Annunzio, hai voluto essere anche Malaparte». Sofri che contesta entrambi: «Libri, solo i libri, nelle case borghesi degli intellettuali i libri si ammucchiano, straripano dovunque, coprono la vista, impediscono di vedere la vita vera. Bisogna buttare via i libri, Fortini», gli fa dire Luperini.
Il ‘68 catalizza e incendia i malesseri della società, ma anche la quotidianità, perfino l’intimità di quella generazione, nella sua immaturità sessuale perfino feroce, nelle sue famiglie anchilosate. I figli contro i padri, anche se quei padri hanno fatto la resistenza e pure i figli si sentono di dover fare la rivoluzione, e come quei padri sotto il fascismo anche i figli ora entrano in latitanza, stanno per prendere le armi, conoscono il carcere per motivi politici: la galera capita anche a Marcello, ed è questo un racconto autobiografico di Luperini, finito dietro le sbarre dopo scontri con la polizia e poi uscito prosciolto perché del tutto innocente. I brani sul carcere sono forse i più belli del romanzo, perché vi si traccia il confronto con l’umanità imprigionata, malviventi di varia misura, uomini ai margini, contestatori, maturando lì – forse soprattutto lì – una coscienza civile di intellettuale impegnato («De Sanctis in prigione lesse la grande “Logica” di Hegel e tradusse la “Storia della poesia” di Rosenkranz… Per non dire di Settembrini o di Gramsci»).
Ne esce un quadro di nessuna nostalgia, coerente con certi entusiasmi di allora, vivo di tutti gli errori (per primo la lotta armata che di lì a poco sarebbe iniziata), chiuso sulla dolce immagine della leggerezza per come ne scrisse Valery: quella consapevole degli uccelli in volo, invece di quella passiva delle piume volteggianti in aria.
NOTE
Questo articolo è stato pubblicato su Linkiesta del 21/4/2013.
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