Ancora la pace subito: il multilateralismo conflittuale e la guerra
L’attacco all’UNIFIL è un atto simbolico
L’attacco israeliano alle postazioni dell’UNIFIL, la missione di pace al confine tra Libano e Israele, con il ferimento di alcuni dei caschi blu e la distruzione delle telecamere, è un atto non solo militare, ma soprattutto simbolico. La missione di pace, istituita nel 1978 è stata rilanciata nel 2000 come forza di interposizione tra Libano e Israele dopo la precedente invasione che arrivò fino a Beirut. Ricordiamo che il consiglio di sicurezza dell’ONU decise la creazione della United Nations Truce Supervision Organization il 28 maggio 1948, quindi a ridosso della propria costituzione (1946), proprio per schierarla in Palestina alla conclusione del primo conflitto arabo-israeliano per l’osservazione delle forze in campo e un tentativo di mediazione. Nel corso degli anni i caschi blu hanno subito vari attacchi e numerosi caduti, alcuni dei quali italiani. Il contingente italiano ha avuto la direzione della missione, che è stata motivo di vanto (ricordiamo il famoso generale Franco Angioni). La missione ha funzionato pure come forza di sviluppo culturale ed economico del Sud del Libano, favorendo la nascita di scuole e di varie infrastrutture, dimostrando praticamente il valore delle politiche di pace. Oggi lo schieramento di UNIFIL è un ostacolo sulla linea dell’attacco israeliano alle milizie sciite di Hezbollah; per conseguenza Netanyahu ne ha chiesto il ritiro, sostenendo che i caschi blu appartenenti a quaranta nazioni sotto il comando attuale del contingente spagnolo non sarebbero in grado di contenere gli attacchi di Hezbollah, in particolare il lancio di missili verso il Nord di Israele. È significativo l’intervento mirato a liquidare gli occhi elettronici delle telecamere, cosa che tradisce l’intenzione degli israeliani di portare a termine i propri piani senza testimoni. Quindi essi sono consapevoli dell’irregolarità del loro comportamento, che stato definito “una violenza senza proporzione” dopo l’assalto terrorista di Hamas del 7 ottobre 2023 (Il Manifesto, Marco Bascetta, 19.10.2024). Il Segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha dichiarato che l’attacco all’UNIFIL potrebbe configurare l’ennesimo crimine di guerra israeliano. Tutto questo fa capire quale sia la “volontà di pace” di Israele e del suo governo di estrema destra. È evidente il progetto di “un grande Israele dal fiume al mare” come lo ha definito Netanyahu (Limes, consultato il 20.10.2024) con due ampie zone cuscinetto, a Nord verso il Libano e a Sud verso Gaza, cosa che spiega la ragion d’essere dei due fronti principali di guerra.
Uno sforzo bellico imponente
In realtà i fronti su cui è impegnato l’esercito israeliano sono sette (Gaza, Libano, Cisgiordania, Iran, Iraq, Siria e Yemen). Si tratta di uno sforzo bellico mai visto prima, che può reggere solo con una produzione imponente di armi. È evidente la strategia del governo Netanyahu di rafforzare il ruolo di Israele come potenza regionale egemone, approfittando del cambiamento degli equilibri geopolitici planetari in corso. È quello che all’epoca dello scoppio della guerra russo-ucraina ho definito come multilateralismo conflittuale, cioè un equilibrio planetario instabile e foriero di continui conflitti armati locali. Tale instabilità è conseguenza diretta della fine del ruolo degli USA come superpotenza unica, dopo la caduta del muro di Berlino e dopo l’enorme ristrutturazione economica planetaria che chiamiamo globalizzazione.
Gli USA sono il principale finanziatore di Israele e dei suoi armamenti. Si calcola che nell’anno in corso essi abbiano fornito circa 18 miliardi di dollari di armi, pari all’intero budget della difesa iraniana, che rappresenta un quarto delle spese militari di Israele, il cui impegno bellico su sette fronti non sarebbe possibile senza questo massiccio sostegno. Ecco perché Adam Toose, professore di storia alla Columbia University, ha ipotizzato che si tratti di una scelta strategica statunitense, molto diversa dalle dichiarazioni dell’amministrazione Biden e non esente da ragioni interne di concorrenza con lo sfidante Trump (The Guardian, 10.10.2024). Siamo lontani dalla teoria del politologo americano Edward Luttwak, consulente di Trump, ispirata alla prolungata sopravvivenza dell’impero bizantino e che prevede il contenimento degli attacchi alla superpotenza unica e il mantenimento dello status quo. Toose ipotizza una “strategia della tensione” statunitense, tesa a rallentare il proprio declino geopolitico lucrando nuovi spazi di egemonia nei conflitti locali, in particolare nelle tre aree cruciali su scala planetaria: l’area indo-cinese, per ora con l’estensione “pacifica” della politica delle alleanze; quella russo-ucraina, con la sua guerra per “interposta nazione”; soprattutto quella incandescente del Medio Oriente. Scrive Toose: «in tutte e tre le aree gli Stati Uniti diranno che stanno rispondendo all’aggressione. Ma anziché lavorare costantemente per un ritorno allo status quo, stanno, di fatto, alzando la posta in gioco».
In questo quadro, che viene indicato da Toose come “revisionismo” delle dottrine americane precedenti, il ruolo italiano – come per certi versi quello europeo – è sostanzialmente subalterno, per la scelta ottusamente filoatlantica del governo Meloni, in termini soprattutto economici ma anche geopolitici. Nel solo mese di dicembre del 2023, nel pieno dei bombardamenti da parte di Tel Aviv sulla Striscia di Gaza, l’export italiano di “armi e munizioni” ha toccato quota 1,3 milioni di euro. I nuovi dati Istat smentiscono ancora una volta il governo Meloni e le sue rassicurazioni pubbliche circa un blocco totale operato nei confronti delle esportazioni di armi e munizioni verso Tel Aviv (Altreconomia, 13.3.2024). Inoltre, recentemente (marzo 2023), lo stesso governo neo-fascista ha affidato gran parte della propria cyber-security agli israeliani, che godono in questo ambito di un regime quasi monopolistico per i paesi occidentali. Si tratta di un settore di grande importanza, non solo per il volume di affari che comporta, ma per la possibilità di mettere in mano agli israeliani una grande massa di dati sensibili e quindi di condizionare le politiche di questi paesi.
Il cuore del problema
Il ragionamento ci conduce al cuore del problema: se vogliamo spingere gli avvenimenti verso politiche di pace non è sufficiente reclamare a gran voce il “cessate il fuoco” nei principali teatri di guerra (Ucraina e Medio Oriente), ma ottenere il taglio delle forniture di armi ai paesi in guerra. In particolare in Medio Oriente non è più sufficiente rivendicare il riconoscimento dello stato palestinese secondo gli accordi di Oslo (1993), ma tagliare il flusso di armi verso Israele. È significativo in tale senso l’evoluzione rapida delle posizioni dell’ANPI, una delle principali formazioni del campo pacifista, che è partita con una campagna per il riconoscimento della Palestina (dichiarazione del 21.9.2024) ed immediatamente dopo ha corretto il tiro chiedendo di cessare la fornitura di armi a Israele (lettera delle reti italiane per la pace del 16.10.2024). Questa scelta ripropone inevitabilmente allo schieramento pacifista e alle opposizioni di sinistra al governo Meloni anche la questione cruciale dell’invio delle armi all’Ucraina. Nel corso dei due anni della guerra russo-ucraina, a mano a mano che il conflitto si impantanava e appariva sempre più evidente anche ai vertici miliari l’impossibilità di trovare una soluzione sul campo (secondo l’indicazione “vittoria o morte” di Zelensky), si sono progressivamente stemperate le ragioni “ideologiche” dell’invio di armi al governo di Kiev. Chi ricorda più il dibattito acceso di due anni fa sulla “resistenza ucraina”, paragonata a quella partigiana italiana? di esso è rimasta solo la divergenza tra il Movimento 5 stelle di Conte e il tiepido filo-atlantismo del PD di Schlein.
In più si è aperto un altro fronte di discussione: se sono giuste le sanzioni economiche dei paesi occidentali contro la Federazione Russa, colpevole dell’aggressione allo stato sovrano dell’Ucraina, perché la stessa regola non vale per l’aggressione dello stato “democratico” di Israele contro un altro stato sovrano come il Libano, cui vanno aggiunti gli altri fronti medio-orientali aperti? Perciò sulla strada del cessate il fuoco e della pace ormai ci sono non solo il riconoscimento dello stato palestinese, ma anche il taglio dell’invio di armi a Israele e un sistema di sanzioni economiche crescenti nei suoi confronti. Sembra essere questo, al di là delle inutili e reiterate proteste contro il modo disumano di condurre la guerra del governo Netanyahu, l’unico modo per fermare lo spargimento di sangue e lo sterminio del popolo palestinese. Siamo ormai prossimi a 50.000 morti nella Striscia di Gaza (con quasi un terzo di bambini, inciso che suona ormai derisorio); gli edifici per usi civili distrutti (abitazioni, scuole, ospedali) ammontano a circa due terzi; il blocco persino degli aiuti umanitari richiama le cronache medioevali degli assedi, che affamavano intere popolazioni.
Il “tramonto dell’Occidente” e il ruolo dell’ONU
Il venir meno delle “ragioni” delle democrazie occidentali, che vengono piegate all’ipocrisia del caso per caso, induce a qualche riflessione generale sul “tramonto dell’Occidente” e dei suoi valori fondamentali (la democrazia, la libertà, il godimento dei diritti civili e sociali), affermatisi all’epoca della vittoria contro la barbarie fascista e nazista.
Ho suggerito a suo tempo, rispetto al multilateralismo conflittuale, la necessità di rafforzare e di riformare le istituzioni internazionali ai sensi dell’articolo 11 della nostra Costituzione. L’impotenza dell’ONU è sotto gli occhi di tutti. Essa è frutto della cristallizzazione degli equilibri globali nati dalla Seconda Guerra Mondiale, in particolare con la formazione del Consiglio di Sicurezza in cui siedono con potere di veto su ogni decisione le potenze vincitrici del 1945 (Cina, Francia, Inghilterra, Russia, USA). Abbiamo visto come il potere di veto degli USA abbia bloccato tutte le risoluzioni che avrebbero potuto portare al cessate il fuoco in Medio Oriente. Occorre mettere fine a questo stato di cose e permettere ai deliberati dell’Assemblea Generale dell’ONU di diventare esecutivi senza veto. È necessaria cioè una gestione più democratica dell’organizzazione delle Nazioni unite. Un altro equilibrio planetario si sta formando. È necessario riconoscerlo, prima che lo si imponga con un altro conflitto mondiale, i cui esiti probabilmente nucleari mettono a rischio la sopravvivenza stessa della nostra specie.
Il movimento per la pace e la mobilitazione del 26 ottobre
Il movimento per la pace su scala planetaria è insufficiente rispetto alla posta in gioco. Occorre chiedersi perché. Penso che pesi come un macigno la sconfitta del movimento no global degli anni Novanta, portato a termine cinicamente dagli apparati repressivi, polizieschi e di intellingence dei “grandi della terra” proprio sul nostro territorio nazionale con i “fatti del G8 di Genova” del luglio 2001, grazie alla connivenza del governo italiano della destra berlusconiana. Il compito prioritario delle cittadine e dei cittadini conseguentemente democratici è ricostruire il movimento pacifista internazionale. Questo è quanto è chiesto dall’appello Contro la guerra. Cosa altro deve succedere per scendere in piazza?, sottoscritto da dodici personalità del mondo della cultura e della politica (Elena Basile, Ginevra Bompiani, Luciano Canfora, Alessandro Di Battista, Domenico Gallo, Raniero La Valle, Lea Melandri, Tomaso Montanari, Piergiorgio Odifreddi, Moni Ovadia, Vauro, Alex Zanotelli). La prossima scadenza saranno le manifestazioni del 26 ottobre prossimo in moltissime città italiane, convocata dalle principali sigle del movimento pacifista italiano. È decisivo che i contenuti di una politica di pace riempiano le piazze insieme alle persone.
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Pochi sanno che gli ebrei ucraini hanno fornito un contributo fondamentale allo Stato israeliano, come dimostrano i nomi, pressoché sconosciuti all’opinione pubblica europea, di Ytzhak Ben-Zvi e di Ephraim Katzir, entrambi, come un buon numero di altri, ucraini. Del resto, lo stesso Volodymir Zelensky, nato da genitori ebrei divenuti recentemente cittadini israeliani, ha delineato, in un discorso tenuto all’Onu il 5 aprile del 2022, il futuro politico dell’Ucraina, dichiarando che il suo paese avrebbe dovuto conformarsi al modello israeliano. L’Ucraina, ha detto in quella occasione, «sarà più simile allo Stato israeliano che all’Europa occidentale; di fatto, tenderà a trasformarsi in un “Grande Israele”, la cui società sarà altamente militarizzata e le cui forze armate saranno incorporate in tutte le istituzioni». In effetti, come ha rilevato la rivista statunitense “Forbes”, «le analogie con Israele sono moltissime. […] Alcune di esse sono state analizzate dal gruppo di studio “Atlantic Council” e da numerosi osservatori». Non desta meraviglia, pertanto, che con Zelensky quale presidente e con Volodymir Grojsman (anche lui ebreo) quale primo ministro, l’Ucraina si sia sempre più avvicinata a Tel Aviv, fino al punto che nel 2020 ha deciso di ritirarsi da un Comitato delle Nazioni Unite creato nel 1975 per consentire al popolo palestinese di esercitare non solo i suoi diritti di autodeterminazione, indipendenza e sovranità nazionale, ma anche il diritto a recuperare i suoi territori e le sue proprietà. Dal canto suo, il governo israeliano ha inviato i suoi istruttori in Ucraina per contribuire, così come fanno sulla stessa falsariga altri paesi occidentali, alla formazione militare dell’esercito di Kiev. Sennonché, per quanto riguarda la funzione dei due regimi nei rispettivi contesti geopolitici, è evidente che essi svolgono il ruolo, sotto la vigile guida americana, di avamposti aggressivi dell’Occidente imperialista contro il mondo russo, arabo e cinese. In base alla strategia delineata da Zbigniew Brzezinski nel libro “La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana”, Kiev svolge questa funzione contro la Russia, mentre Tel Aviv è, da oltre settant’anni, il principale fattore di destabilizzazione e di guerra nel Vicino Oriente. Infine, per quanto concerne l’opinione pubblica, l’ONU e il movimento per la pace, questi fattori contano oggi, nella contesa mondiale per l’egemonia, come il due di picche. Del resto, se anche avessero un peso maggiore, questo non muterebbe di uno iota il fatto che, fin quando esiste il capitale, non c’è pace che sia desiderabile e non c’è guerra che non sia atroce, poiché, a partire dalla prima guerra mondiale, l’alternativa è sempre la stessa: socialismo o barbarie.
Ottimo articolo, caro Beppe. Siamo diventati rane, dentro un pentolone che sta per bollire. Ci siamo assuefatti anche a ciò che non avremmo mai immaginato. Non basta più neanche costruire la pace dentro i nostri piccoli sistemi (Persone, famiglie, Club, Comunità locali). Eppure è importante perseverare. La domanda è pertinente: cosa aspettiamo a scendere in piazza? La risposta migliore è quella di scendere in piazza e continuare a costruire la Pace, anzitutto dentro di noi. Grazie per le tue belle riflessioni.
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D’accordo, Adelmo. Secondo “Il Manifesto” ieri in piazza ervamo in 80.000