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diretto da Romano Luperini

Da tempo (senz’altro decenni) si discute nella scuola (e anche nell’università) di interdisciplinarità. E proprio in nome di tale dogma sono state inserite nella notte dei tempi varie forme di elaborato, le cosiddette tesine, che devono accorpare attorno ad un unico tema/oggetto tutte le materie: esemplari in questo senso sono gli esami finali di scuola secondaria (medie e liceo), che si stanno svolgendo peraltro in questi giorni. Ed è da questa interpretazione bizzarra dell’interdisciplinarità che nascono aberrazioni quali i lavori sulla “luna”, che inducono gli studenti ad accostare geografia astronomica e Leopardi (ma anche storia, con l’allunaggio del 1969), o le foibe, da cui poi si passa ancora a geografia, Trieste, e da lì a Svevo (morto quindici anni prima degli eventi però), ecc. Fortunatamente nella scuola italiana gli insegnanti preparati e intelligenti non sono pochi; e pertanto i casi in cui il povero poeta di Recanati finisce sulla luna, per poi ridiscendere insieme ad Aldrin e Armstrong, vengono drasticamente tamponati. E tuttavia, la scuola e l’università, come ogni categoria del resto, non sono costituite di soli docenti intelligenti. Per questo motivo un’ennesima riflessione su alcune modalità interdisciplinari si ritiene utile, se non indispensabile; tanto più in un momento come questo in cui la critica letteraria, con modalità differenti rispetto a quanto accadeva qualche anno fa, cerca il dialogo con altre discipline.

Con l’intervento odierno inauguriamo una serie di articoli che investigano i rapporti e gli incroci tra la letteratura e gli altri campi del sapere: geografia, diritto, scienze cognitive, psicanalisi, ecc. In alcuni casi verranno ospitati interventi che stilano un bilancio e descrivono lo stato dell’arte dei rapporti presi in esame (è il caso di Tiziano Toracca che presenterà una breve storia di quella nuova disciplina che è Law & Literature), in altri si darà spazio ad articoli che offrono subito un esempio pratico delle conseguenze critico-didattiche che una certa interdisciplinarità può avere: è il caso del mio intervento su letteratura e geografia, che però vuole avere anche una funzione introduttiva. Si segnala che l’intervento è sollecitato dai lavori del recente convegno annuale della MOD Geografie della modernità letteraria, organizzato presso l’Università per Stranieri di Perugia e l’Università di Perugia nei giorni 10-13 giugno 2015.

Il connubio letteratura-geografia si salda intorno agli anni Novanta, soprattutto in seguito ad alcuni ripensamenti del paradigma geografico. I lavori di Lefebvre (La produzione dello spazio, scritto dal ’76 al ’79), Virilio (Lo spazio critico), e poi De Certeau (L’invenzione del quotidiano) mobilitano un’idea statica, trasformando i luoghi – semplici contenitori di eventi, di oggetti e di persone – in spazi, che coincidono con esperienze vitali e sociali che in determinati ambienti si consumano (e di pari passo prende piede la riflessione di Augé sui non-luoghi, ossia su centri commerciali, aeroporti, ecc., in cui la spazialità è ridotta, perché lì i consumatori cedono la propria identità e si trovano in una zona franca; in qualche modo, ma da prospettive diverse, rientra in questo grande dibattito anche il concetto di eterotopia di Foucault).

E proprio sul finire degli anni Ottanta, e poi con maggiore forza negli anni Novanta, la critica letteraria si è rivolta alla geografia, ritrovandovi non più solo una scienza cartografica, ma una sorta di antropologia o di disciplina capace di interpretare i comportamenti umani e l’immaginario collettivo (è insomma in questi anni che si impone la geografia umana): faccio riferimento a Bertrand Westphal, colui che ha istituito la Geocritica (Geocritica. Reale Finzione Spazio), o più tardi a Collot (Pour une géographie littéraire). Ebbene il motivo di questo matrimonio geoletterario, negli anni Novanta, trova le sue radici nell’ideologia postmoderna. Il paradigma geografico infatti consentiva di accantonare l’assetto storiografico e di accostare e appaiare autori di epoche differenti, e spesso anche di contesti nazionali differenti, che però avevano ambientato le loro opere nei medesimi contesti geografici: scrittori insomma che avevano riscritto letterariamente uno specifico spazio. Si tratta in sostanza di un’aggressione frontale al metodo storicistico, in ossequio ad una fine della storia sbandierata da più parti: non sarà certo un caso che le opere prese in esame da Westphal e Collot sono (prevalentemente) successive agli anni Sessanta. Colpisce che l’approccio postmoderno, in campo geoletterario, si sia imposto soprattutto in Francia. In ambito anglosassone invece, lì dove forse il postmoderno aveva maggiormente permeato gli ambienti sociali e culturali, nella seconda metà degli anni Novanta si è invece assistito ad un’inversione di rotta: prendendo ad oggetto di esame il modernismo, la geocritica si è trasformata in una disciplina che tentava sì di comprendere come gli scrittori hanno descritto gli ambienti e gli spazi, ma senza accantonare le necessarie esigenze storiche: si pensi a Thacker (Geographies of modernism), a Winkel e Doyle (Geomodernisms), a Moretti (Atlante della modernità), e in Italia a Fiorentino (Letteratura e geografia e Atlante della letteratura tedesca), a Pedullà (Atlante della letteratura italiana), ad Alfano (Percorsi, mappe, tracciati). In tutti questi critici, con modalità e prospettive diverse, si manifesta l’esigenza di comprendere come un certo gruppo di autori ha vissuto, interpretato e rappresentato il mondo circostante. Del resto se la letteratura è sempre una riscrittura del mondo, indagare la mappa letteraria che i romanzi consegnano al lettore è operazione legittima, utile a comprendere la visione sociale ed esistenziale di un’epoca. Un caso esemplare è il modernismo italiano, di cui daremo alcuni cenni.

È un dato che la narrativa modernista italiana trova la sua ambientazione in provincia piuttosto che in città: Trieste per Svevo, Siena per Tozzi, la Sicilia di Pirandello, la Lucchesia di Pea. E anche Roma, scenario di tante novelle e di tanti romanzi di Tozzi e di Pirandello, non appare come una capitale europea, ma piuttosto è rappresentata in maniera metonimica, nel suo essere quartiere, ossia parte di città; Roma infatti si configura come una piccola comunità che in fondo ripropone dinamiche di stampo provinciale (esemplare è casa Paleari). La provincia modernista (Ian Bochum ha parlato, per gli inglesi, di township modernism) colpisce per due questioni. In primo luogo non ha alcun complesso di inferiorità nei confronti di grandi centri che prima costituivano un irresistibile polo di attrazione: Milano, Napoli, Palermo, Roma. Se nell’Ottocento il giovane ’Ntoni dopo aver conosciuto Napoli ritiene inabitabile Aci Trezza, se i Consalvo riconoscono un potere politico a Roma (di cui naturalmente appropriarsi), e se Parigi è una calamita maledetta per Madame Bovary e Bel Ami, nel primo Novecento modernista le metropoli diventano marginali: Milano è solo luogo di alienazione (si pensi alle pagine del Mattia Pascal o a Rubé di Borgese), Roma coincide di fatto con un borgo provinciale, e Napoli ha dei tratti assolutamente inospitali (La vita intensa di Bontempelli). E questo accade – ed è la seconda questione da sottolineare – perché i piccoli centri si propongono come elementi totalizzanti, capaci di offrire denaro e povertà, amori e tradimenti, amicizia e solitudine. Detto in maniera più diretta, Zeno trova tutto a Trieste, e non ha alcuna esigenza di guardare fuori dalla sua terra: Milano infatti è assente, mentre le pagine dedicate al viaggio di nozze dicono poco dell’Italia visitata. E lo stesso discorso può essere applicato alla Siena tozziana, alla Sicilia di Pirandello, alla Lucchesia nei romanzi di Pea. Si tratta di province che perdono qualsiasi subalternità e assurgono a centri pieni a tutti gli effetti: del resto se usciamo dal panorama italiano, troviamo nella Dublino di Joyce una facile conferma a quanto andiamo asserendo. Questo mutamento di prospettiva spiega anche perché i personaggi modernisti sono stanziali, fermi nel loro luogo natale, diversamente da quanto accadeva a Frédéric Moreau, al giovane ’Ntoni, a Carletto Altoviti; e anche quando si spostano, come Mattia Pascal, i loro viaggi non vengono dettagliatamente raccontati (mentre è descritto il vagabondaggio immaginario di Belluca).

Da questo breve sondaggio si ricava che il romanzo modernista ha una fisionomia tendenzialmente monocentrica: la provincia in cui si ambientano le vicende è totalizzante e marginalizza ed esclude tutte le altre realtà cittadine. Al tempo stesso però se dal singolo romanzo si passa ad una visione d’insieme, ossia si raggruppano le opere moderniste, la geografia che si ricava è invece policentrica: Trieste, Siena, la Sicilia, la Lucchesia, etc. sono tutti centri di uguale importanza, che convivono all’interno del canone romanzesco di primo Novecento senza alcuna costruzione gerarchica. E proprio questo policentrismo, che fa sistema con uno smarrimento di verità precostituite tipico del primo Novecento, diventa marca distintiva del modernismo italiano: sicché il romanzo restituisce una mappa che a sua volta diventa spiegazione geografica di un periodo, e la stessa mappa raffigura la parcellizzazione e l’isolamento dei romanzieri modernisti. Prende corpo insomma quel connubio di letteratura e geografia, in cui alcuni confini saltano e due discipline in specifici passaggi interpretativi si fondono e offrono un approccio nuovo: quello che possiamo appunto chiamare l’approccio geocritico.

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