Che cosa resta da fare a noi insegnanti di letteratura
Per gentile concessione pubblichiamo il terzo paragrafo del primo capitolo dell’ultimo libro di critica di Romano Luperini, Tramonto e resistenza della critica, Quodlibet, Macerata 2013, il cui titolo originale è Insegnare la letteratura oggi.
Dalla letteratura-identità nazionale al “popolo che manca”
A lungo, in Italia, per quasi due secoli, insegnare letteratura ha voluto dire raccontare una grande narrazione fondata sul nesso letteratura-identità nazionale-storia. Ogni popolo d’altronde trova la propria identità in una sorta di racconto mitico. In Italia, era la letteratura, assai più dell’arte o della musica o di una leggenda delle origini, a garantire un sogno di identità e di unità nazionale. Questa situazione dava senso tanto alla letteratura quanto a chi la insegnava che si trovava investito di un ruolo particolare e per qualche verso persino privilegiato. Il professore di italiano – e soprattutto quello dei licei – formava una classe dirigente nella cui cultura l’educazione letteraria e il momento umanistico costituivano ingredienti fondamentali. Da De Sanctis a Sapegno, Petronio, Muscetta questa visione della storia assumeva la forma di uno storicismo progressivo e lineare, fondato sulla fede nel progresso e sul disegno di una evoluzione della civiltà nazionale. I critici letterari e gli insegnanti di letteratura erano interpreti e mediatori del nesso fra identità nazionale, letteratura e racconto storiografico dell’una e dell’altra. La letteratura stessa aveva contribuito in modo decisivo alla elaborazione di questo racconto mitico e identitario: Dante, Petrarca, Ariosto, Machiavelli, Foscolo, Manzoni, il giovane Leopardi e poi Carducci, Pascoli e d’Annunzio ne hanno ordito in modi diversi la trama.
Qualcosa di importante comincia a rompersi e a cambiare già all’inizio del Novecento, con la stagione del modernismo. I capolavori di Svevo o di Montale ben poco o nulla hanno a che fare con l’identità nazionale, e le opere più significative di Pirandello, che pure ha scritto anche I vecchi e i giovani, ne restano sostanzialmente estranee. Una ripresa di tematiche civili e nazionali si ha solo negli anni del neorealismo e di «Officina», ma dura meno di un paio di decenni e si conclude con la neoavanguardia negli anni del miracolo economico. Qualche anno fa uno dei più importanti poeti contemporanei, Gabriele Frasca, ha parlato della difficoltà degli scrittori italiani ad assumere uno «stile etico» dato che questo sarebbe rivolto a un popolo che manca. La situazione è paradossale per un paese di antica civiltà come il nostro: oggi siamo senza racconto, senza mito e senza identità.
Se si aggiunge che la letteratura e la cultura umanistica hanno perduto il loro posto nella formazione dei ceti dirigenti, che i giovani nella società digitalizzata avvertono una sempre maggiore estraneità al testo letterario e che la scuola non è più l’unica agenzia preposta alla loro formazione e appare progressivamente marginalizzata rispetto ad altre più potenti agenzie (per esempio, rispetto al mondo delle comunicazioni e delle informazioni), si può capire perché gli insegnanti di letteratura vivano una situazione di crescente disagio e di crescente difficoltà a individuare le ragioni stesse del proprio lavoro.
Crisi dell’insegnamento letterario e della condizione intellettuale
La crisi della critica e dell’insegnamento della letteratura s’inserisce poi nella crisi della stessa condizione intellettuale. Per due secoli gli intellettuali hanno fatto sentire la loro voce legittimati – ha scritto Pierre Bourdieu – da «un’autorità specifica fondata sulla appartenenza al mondo relativamente autonomo dell’arte, della letteratura e della scienza, e su tutti i valori associati a tale autonomia – disinteresse, competenza ecc.» (P. Bourdieu, Per un corporativismo dell’universale, in Le regole dell’arte: genesi e struttura del campo letterario, Il Saggiatore, Milano 2005, pp. 425-437). Una condizione di autonomia corporativa garantiva loro un universalismo di valori. L’indipendenza culturale e morale del loro specifico campo diventava ragione di autorità e di prestigio in ogni campo. Gli intellettuali funzionavano come indispensabili mediatori della formazione del senso. Era il grande corporativismo dell’universale, come lo ha chiamato ancora Bourdieu. Un paradosso, se si vuole, grazie al quale gli intellettuali potevano parlare a nome di un corpo separato e, insieme, della totalità dei rapporti umani. Fichte, all’inizio dell’Ottocento, l’aveva chiamato la «missione del dotto», dando dignità ideologica a comportamenti e spunti culturali che in realtà si erano andati affermando già dall’età dell’illuminismo.
Si è sviluppata così una tradizione che da Zola dell’affaire Dreyfus, attraverso Freud e Einstein, Russel e Sartre, ha avuto corso anche in Italia sino agli anni Settanta del Novecento e, se si vuole, sino a un altro affaire, L’affaire Moro di Leonardo Sciascia. Che si trattasse di una tradizione ormai in via di estinzione lo aveva intuito uno di questi ultimi grandi intellettuali complessivi, Franco Fortini. In un saggio del 1971 scriveva infatti che «il processo di distruzione del corpo separato degli intellettuali è così avanzato che il termine stesso di “intellettuale” è quasi inutilizzabile» (F. Fortini, Intellettuali, ruolo, funzione, in Questioni di frontiera. Scritti di politica e di letteratura 1965-1977, Einaudi, Torino 1977, pp. 68-73). Sempre più, infatti, l’intellettuale è sostituito «dallo specialista», dal tecnico o dall’esperto che pone il proprio sapere al servizio di una istituzione – pubblica o privata, non importa – senza più capacità o possibilità di vedere al di là di questo orizzonte settoriale. «Ogni attività intellettuale», scriveva allora Fortini, viene ridotta «alla sua gretta specializzazione e tecnicità». In altri termini: la forbice, e la contraddizione, fra funzione e ruolo, presente in ogni lavoro intellettuale, tende a contrarsi, risolvendosi a vantaggio del secondo. Se la funzione si definisce in un ambito antropologico e storico e coincide con l’obbedienza alla logica della ricerca, il ruolo si definisce invece in un ambito immediatamente sociale e coincide con la mansione assegnata dalle istituzioni, siano esse gli apparati scientifici ed educativi di uno stato, il sistema delle pubbliche comunicazioni, un ente o una azienda privata, o il governo stesso di una nazione.
Inoltre, in un mondo come quello attuale dell’Occidente, in cui il settore-guida in campo industriale è quello che produce merci immateriali, vale a dire informazioni, pubblicità, spettacolo e insomma linguaggio, potere e sapere s’incardinano sempre più nel sistema delle comunicazioni. Il potere del linguaggio e il linguaggio del potere tendono a unificarsi. Il sapere dei singoli intellettuali e anche degli intellettuali come ceto o corporazione viene selezionato e filtrato da apparati tecnologici, da enormi complessi produttivi e anche da istituzioni pubbliche (quella educativa, per esempio), peraltro sempre più deboli e sempre più dipendenti dal mondo della produzione. Potremmo dire che il sapere-potere degli intellettuali si liquefà all’interno di questi apparati, si frantuma in essi che ne decidono o largamente ne condizionano le scelte fondamentali. Inseriti in questi grandi apparati di sapere-potere, che rispondono a pochi centri di comando integrati, nazionali e multinazionali insieme, gli intellettuali non hanno reale possibilità di controllo su di essi, né svolgono più la loro tradizionale attività di mediazione. Si riducono a semplici lavoratori della conoscenza, costretti a fare i conti con instabilità, mobilità, flessibilità e dunque a sviluppare una elevata capacità di conversione. Perduta qualsiasi possibilità di autonomia, non hanno neppure più nulla in comune con la tipologia dell’intellettuale tradizionale di cui parlava Antonio Gramsci.
Quando Edward Said scrive che il rischio della nuova tipologia di intellettuale è di scomparire «in una miriade di particolari» e di diventare una «nuova figura professionale», un ingranaggio tecnico dei nuovi apparati di sapere-potere, coglie esattamente il tramonto del grande corporativismo intellettuale. Tuttavia Said non si limita a questa constatazione negativa e si spinge a indicare ai nuovi intellettuali un compito e una funzione molto diversi da quelli proposti da Fichte e rilanciati da Bourdieu. Egli delinea una figura di intellettuale non molto lontana da quella di quei nuovi lavoratori della conoscenza che la attuale sociologia va delineando. Il nuovo intellettuale, inserito nei nuovi complessi produttivi in posizione subordinata o esterno a essi, si configura come un outsider, un dilettante, un emarginato, un esiliato, un uomo di confine, e per questo gli appare animato da spirito di opposizione e non di compromesso. La sua funzione pubblica, secondo Said, è «di trovare la propria ragione d’essere nel fatto di rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate o censurate» (E. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 9-27). Si pensi, in Italia, alla nuova figura di intellettuale che emerge dalle pagine di Gomorra, al giovane precario che in motoscooter si reca sui luoghi del crimine, così diverso dall’avanguardia in vagone-letto del Gruppo 63, ma così lontano anche dai maestri Pasolini e Sciascia, che esercitavano pur sempre un ruolo ideologico di guide della coscienze. Può essere ripreso allora persino il modello comportamentale di Sartre, tanto caro a Said, ma attraverso un nuovo dislocamento che non presuppone più la funzione ideologica della mediazione e del controllo da una posizione di centralità, ma che fa della marginalità dell’intellettuale una figura rappresentativa di tutte le altre marginalità presenti sulla scena mondiale. Il passaggio da legislatore a interprete, a suo tempo teorizzato da Bauman, può esaltare insomma il ruolo dei lavoratori della conoscenza come specialisti della liminarità, e cioè del passaggio dei confini, della traduzione, del dialogo, della interdisciplinarità, della conoscenza critica della differenza.
Che cosa resta da fare a noi insegnanti di letteratura?
In questa nuova situazione che cosa resta da fare a noi insegnanti di letteratura, addetti a un campo ormai marginale e inseriti nella categoria burocratica del “personale docente” o, anzi, delle cosiddette “risorse umane”?
Per tentare di rispondere bisogna forse ripensare i nostri fondamenti. Come diceva Machiavelli, nei momenti di crisi, per poter risollevarsi e ricominciare, bisogna ritornare alle origini, e cioè alle ragioni storiche e antropologiche della nostra funzione, e trarre da lì le ragioni della nostra esistenza e di una nuova identità da conquistare.
Venuta meno la possibilità di intraprendere una grande narrazione centrata sulla storia letteraria letta come fulcro della identità nazionale, tramontata la tradizione storicistica che fondava tale possibilità, per un certo periodo si è pensato che l’insegnante dovesse chiudersi nel proprio ruolo di esperto di retorica e di analisi del testo. L’insegnamento della letteratura si è così ridotto a tecnica del commento fondata sul concetto della autoreferenzialità del testo. Si leggevano i testi non per interpretarli, ma per descriverli. Anzi l’interpretazione stessa veniva rifiutata perché sospetta di ideologia. E così i testi, chiusi in gabbie di schemi e di schemini, diventavano pretesti per esercizi formalistici che hanno finito per allontanare definitivamente i giovani dal gusto della lettura. D’altronde, fra persone normali chi è che legge un testo per descriverlo e non per cercarne il senso?
Negli anni successivi, soprattutto nelle università americane, si è passati a decostruire il testo, vedendolo essenzialmente come documento di una grammatica del potere oppure leggendolo nichilisticamente come indecidibile allegoria della fuga del senso. Il testo è diventato così un pretesto. La riduzione del testo a documento sta rischiando di vanificare l’insegnamento stesso della letteratura annullandone la specificità. La complessità di senso che è propria della letterarietà va perduta,e non si capisce più perché si sta leggendo un testo per l’appunto letterario. E’ un pericolo che in Italia passa attraverso un uso “selvaggio” dei cosiddetti “percorsi tematici” quando si faccia ricorso al tema per illustrare esclusivamente un problema storico e antropologico dimenticando il modo particolare con cui esso viene formalizzato.
Tornando alle origini, troviamo che la critica e l’insegnamento della letteratura sono eminentemente atti interpretativi. Come è noto, la parola stessa “lezione” significa lettura, in questo caso lettura pubblica di un testo. La critica e l’insegnamento della letteratura sono momenti di una attività triangolare: chi insegna ha da una parte il testo, dall’altra degli interlocutori a cui spiegare quel testo e svolgerne le implicazioni di senso. Ciò comporta due operazioni che andranno collegate fra loro: il commento, volto a rendere intelligibile il testo e a renderlo “forte” di fronte al lettore, e l’interpretazione, volta a dare significato e valore al testo e a rendere “forte” il lettore di fronte a esso. Attraverso il commento il lettore impara a rispettare l’autonomia del testo, ad ascoltarlo e a capirlo nella sua diversità – di qui il rilievo etico-pedagogico di tale operazione -; attraverso l’interpretazione impara ad assumersi la propria responsabilità ermeneutica e a confrontarla con quella della intera comunità interpretante di cui fa parte. Da un punto di vista didattico, nel momento del commento al centro della classe sta il testo; nel momento della interpretazione è la classe stessa che diventa centro. Nel commento, protagonista è il testo; nella interpretazione, protagonista è la comunità ermeneutica formata dalla classe che discute sulle domande di senso da porre al testo.
Naturalmente ogni interpretazione è parziale, relativa a una determinata epoca, a un determinato gruppo sociale, a una determinata persona. Inoltre il testo letterario- a differenza per esempio di un testo di botanica o di biologia – implica una molteplicità anche contraddittoria di significati. Interpretare abitua il giovane a misurarsi con questa complessità testuale e con la varietà di significati individuati dagli altri interpretanti collocati all’intermo e all’esterno della propria comunità, e anche in tempi diversi dal proprio; gli insegna dunque che i significati sono infiniti e che ogni interpretazione è destinata a essere superata. Ma gli insegna anche ad assumere la parzialità e la relatività del proprio punto di vista e a inserirla all’interno della costruzione sociale di un senso, che nasce da un incessante conflitto delle interpretazioni e da una non meno incessante lotta per l’egemonia. Sta qui ovviamente il nesso che unisce il problema della interpretazione e quello della democrazia. Più in generale, sta qui anche il problema dell’orizzonte sociale per cui una determinata interpretazione assume o non assume significato e validità. La classe come comunità ermeneutica non può non prefigurare infatti una comunità più ampia.
Il significato per noi
Quando si cerca il significato di un’opera si cerca sempre un significato per noi. Se insegno letteratura, non cerco nei testi un significato per me. Questo posso farlo se mi dedico a una lettura privata di un testo. Ma se ne spiego il significato in pubblico e devo giustificare perché lo ripropongo oggi all’attenzione, rendendolo così nuovamente attuale, ne devo indicare un significato per noi, tendenzialmente valido cioè per la comunità a cui mi rivolgo.
E’ una questione, questa, già posta da Kant per il giudizio di valore. Nella Critica del giudizio Kant scrive che chi considera le opere da un punto di vista estetico «non giudica solo per sé, ma per tutti, e parla quindi della bellezza come se fosse una qualità delle cose. Non chiede il consenso degli altri, lo esige» (I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Bari 1974, p. 54). In altri termini, per quanto soggettivo e particolare, il giudizio è nello stesso tempo universale. Ovviamente Kant parla del giudizio di gusto, del suo carattere disinteressato e della sua indimostrabilità, dovuta alla aconcettualità del bello. Oggi non possiamo seguirlo su questa strada sia perché la categoria stessa del bello si è fatta nel frattempo sempre più problematica e indefinibile, sia perché nel corso dell’Ottocento e del Novecento il carattere disinteressato del giudizio è stato posto in questione troppe volte perché possa essere tranquillamente accettato. E tuttavia resta il fatto che la tendenza all’universalità fa parte organica del giudizio estetico e, più in generale, dell’atto critico. Anche oggi chi parla e giudica di letteratura e di arte non lo fa solo per sé ed esige il consenso di tutti.
E’ questo, d’altronde, il paradosso della critica. La critica conosce la propria relatività e caducità: sa di essere particolare e parziale, limitata a un tempo e a un orizzonte sociale; sa, oggi, di essere priva di un pubblico e di un interlocutore sociale; ma non può rinunciare a questa esigenza di universalità perché è implicita nello statuto stesso della propria costituzione. Spetta alla critica e all’insegnamento della letteratura (due attività fra loro assai più collegate di quanto si pensi) un incessante rapporto interdialogico di traduzione, trasmissione, trapianto sia orizzontale (al presente, fra lettori e gruppi diversi) sia verticale (dal passato al presente). Il paradosso d’altronde si annida sin qui, alle origini stesse del fatto critico. Da un lato traduzione, trasmissione, trapianto sono infatti operazioni dialogiche che presuppongono un universale umano comune, dall’altro investono invece interlocutori specifici, un tempo e uno spazio concreti, storicamente definiti e continuamente da ridefinire.
Insomma, a partire da Kant, si pone un nodo di problemi – particolarmente nel rapporto fra particolarità e universalità – che è assolutamente attuale. Per quale noi cerchiamo il significato delle opere? Il «tutti» di cui parla Kant, l’universale umano che egli presuppone, in quale orizzonte si definisce?
Penso che la critica debba tornare a porsi queste domande, che d’altronde, in modo implicito e talora anche esplicito, sono state sempre al centro della riflessione teorica sulla letteratura e della concreta attività dei critici. La particolarità e il noi di De Sanctis, per esempio, sono diversi da quelli presupposti da Said e a loro volta quelli di Said sono assai diversi da quelli del suo collega Harold Bloom. Quando De Sanctis scrive per i suoi studenti la Storia della letteratura italiana il proprio punto di vista parziale coincide con quello generale di una comunità nazionale in formazione: il noi di De Sanctis era quello romantico-risorgimentale di un popolo particolare (o, se si vuole, del suo gruppo dirigente borghese) che stava diventando nazione. In nome di questa parzialità De Sanctis conduceva una lotta contro la vecchia cultura classicistica e contro le tendenze politiche reazionarie che contrastavano in Italia il processo risorgimentale. Nel medesimo tempo, però, la sua opera superò agevolmente i confini nazionali e venne riconosciuta come un capolavoro in Europa perché seppe interpretare un movimento di riscossa e di formazione dello spirito nazionale che era largamente condiviso dalla cultura europea. De Sanctis parla a una comunità, intreccia un dialogo e insieme conduce un conflitto. Nel suo lavoro particolarità e universalità sono insomma strettamente intrecciate. E analogamente inseparabili sono dialogo e conflitto.
Neppure un secolo dopo, il noi di Auerbach è già molto diverso. Basta pensare al processo genetico di Mimesis di Auerbach, scritta a Istambul, dove il grande critico ebreo si era rifugiato durante la guerra per sfuggire al nazismo. Auerbach descrive i lineamenti della letteratura occidentale nella sua vocazione alla rappresentazione del reale stando sulla soglia dell’Occidente, anzi già fuori da esso e in esilio, comunque, dalla sua cultura. Si trovava cioè in una situazione che, nonostante la privazione di informazioni e la mancanza di biblioteche specializzate in studi europeistici, e anzi forse proprio per questo, si prestava particolarmente ad assumere quella prospettiva di cui Auerbach stesso parla nel saggio Filologia della Weltliteratur: la prospettiva che muove sì dalla cultura e dalla lingua nazionali, ma che è capace anche di separarsi da esse e di trascenderle. Anzi, come scrive Auerbach, ed è affermazione a mio avviso memorabile, «la nostra casa filologica è la terra, non può più essere la nazione» (E. Auerbach, Filologia della Weltliteratur, in San Francesco Dante Vico ed altri saggi di filologia romanza, De Donato, Bari 1970, p. 191). Per Auerbach particolare e universale, ormai, non possono essere più quelli di De Sanctis.
La situazione odierna è assai più simile a quella in cui si trovava Auerbach durante la seconda guerra mondiale che a quella di De Sanctis. Quando Auerbach scrive che Mimesis non sarebbe stato scritto in condizioni normali, e aggiunge «è possibilissimo che il libro debba la sua esistenza proprio alla mancanza di una grande biblioteca specializzata» (E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1984 [1956], vol. II, p. 343), non compie solo una affermazione di modestia, ma getta luce su un processo genetico non privo di interesse. Il filtro di una biblioteca specializzata è anche quello di una ottica già compromessa. Quanto sta accadendo oggi nel mondo – terrorismi contrapposti, guerre per il petrolio e per l’acqua, nuova precarietà della vita quotidiana dell’Occidente, spostamenti di masse umane e invasioni di popoli spinti dalla fame – richiede un nuovo sguardo planetario anche sul nostro stesso patrimonio culturale. Dovremmo ricordarci, con il Benjamin di Tesi di filosofia della storia, che «non c’è mai un documento di cultura senza essere nello stesso tempo documento di barbarie» (W. Benjamin, «Tesi di filosofia della storia», in Angelus novus, Einaudi , Torino 1982 [1962], p. 79 e cfr. anche W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 31, con traduzione solo lievemente diversa e testo tedesco a fronte). E forse non è un caso se l’ultimo Said si è ispirato esplicitamente all’insegnamento auerbachiano, immedesimandosi in questa figura di esule che scrive dalla soglia dell’Occidente e che ha visto, per così dire, da fuori, in una situazione di emergenza e di rischio imminente, l’intera nostra tradizione letteraria e culturale.
D’altronde il noi in questione non riguarda solo i critici e gli insegnanti di letteratura; riguarda anche il loro pubblico, a partire da quello che frequenta le nostre scuole e che in Italia proviene ormai in misura crescente dal Sud e dell’Est del mondo. Si tratterà di conservare e trasmettere la nostra determinata identità culturale e nello stesso tempo di metterla in gioco cogliendone la particolarità attraverso una visione contrappuntistica delle differenze. D’altronde l’atto stesso della comprensione ermeneutica sembra richiedere una tolleranza che dovrebbe – ha scritto Adorno – «pensare la condizione migliore […] come quella in cui si può esser diversi senza timori» ( Th. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1979, p. 114)
Può esistere un nuovo racconto della letteratura?
E’ giunto il momento di concludere tornando alla domanda implicitamente posta all’inizio. Può esistere un nuovo racconto della letteratura, e dunque un nuovo senso della storia, dell’etica e dell’impegno civile, in una epoca in un cui le morali precostituite sono poste in discussione e il popolo-nazione si dissolve in unità più vaste ma ancora indistinte?
La grande letteratura moderna non fa che rendere più evidente e radicale qualcosa che era percepibile anche nella letteratura antica e medievale: e cioè che il discorso letterario è sempre aperto, in fieri, e si realizza solo attraverso la collaborazione del lettore che, dandogli senso, ogni volta torna a ridefinire insieme il significato dell’opera e quello della vita. Le opere, soprattutto ma non solo quelle moderne, sono sempre costruzioni da completare. Da questo punto di vista ridurre la critica a specialismo asettico, a descrizione retorica o tecnico-formale, è non meno esiziale – per la critica ma anche per il senso della letteratura – che ridurla ad autobiografismo narcisistico o a una mistica oracolare. Indossare il camice bianco dello scienziato o il manto del critico-vate e dell’artifex additus artifici significa rinunciare alla nostra funzione, e cioè alla produzione sociale di senso attraverso la lettura, la interpretazione e il ri-uso critico dei testi letterari.
Insomma il nuovo racconto della letteratura riguarda un significato da costruire, non qualcosa che è stato già costruito. D’altronde, per secoli, non è stato così anche per l’identità nazionale? Non è questa la differenza che separa il Petrarca della canzone All’Italia, il Machiavelli della conclusione del Principe, il Foscolo dei Sepolcri – tutte opere che preparano qualcosa che deve ancora realizzarsi – da Carducci, Pascoli e d’Annunzio che nelle loro poesie civili si sono ormai trasformati in vati retoricamente volti a esaltare qualcosa che già esisteva?
Voglio dire che oggi fare i critici letterari e insegnare la letteratura richiede l’idea di una sua nuova attualità. A sua volta questa ha a che fare con il modo con cui il significato della letteratura si è andata concretamente sviluppando e precisando a partire dal modernismo e poi soprattutto negli ultimi decenni. Nel corso del Novecento, il senso della vita è sempre più quello della nuda vita, senza più pesanti diaframmi ideologici. Il momento problematico, riflessivo, etico, emotivo, è balzato in primo piano. La stessa passione politica e civile ha acquistato, nell’ultimo mezzo secolo, una dimensione nuova, ricca più di domande che di risposte, e capace di coinvolgere una prospettiva che va al di là della nazione per riguardare il destino di ogni uomo o anche del genere umano nel suo complesso. Si pensi alle conclusioni di scrittori eticamente e politicamente impegnati come Primo Levi di Se questo è un uomo e La tregua, o il Pavese di La casa in collina, o il Fenoglio che intitola il suo capolavoro sulla guerra partigiana Una questione privata.
La grande scommessa problematica, etica ed esistenziale della letteratura moderna, la sua ricerca inquieta e inconclusa di senso, la sua apertura, le sue domande e il suo bisogno di risposte definiscono una prospettiva di significato da elaborare insieme; non raccontano un’identità data, ma scommettono su un’identità futura, da costruire con il lettore. Nello stesso tempo questa letteratura richiede una passione civile di tipo nuovo, volta non già a narrare un mito del passato, ma a delineare un nuovo possibile racconto, non più nazionale, ma planetario. La marginalità del critico letterario, rappresentando il destino di tutti i marginali, può allora diventare una forza e, insieme, una ragione di nuova identità.
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Caporedattore
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Editore
G.B. Palumbo Editore
La lupa non ha insegnato nulla
Il denso e lucidissimo intervento del professor Luperini non può lasciare indifferenti: esso delinea, in un quadro molto cupo, ancora una via possibile per la Letteratura e per chi crede nel valore escatologico ed educativo di quest’arte. Milan Kundera in “L’arte del romanzo” scrive: “[…]Tutti i romanzi di tutti i tempi indagano l’enigma dell’io”. Calvino nelle “Lezioni americane” ci ricorda: “Forse il segno che il millennio sta per chiudersi è la frequenza con cui ci si interroga sulla sorte della letteratura e del libro nell’era tecnologica cosiddetta postindustriale. Non mi sento d’avventurarmi in questo tipo di previsioni. La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici”. Credo che Luperini ci dica proprio queste cose quando conclude dicendo: “La grande scommessa problematica, etica ed esistenziale della letteratura moderna, la sua ricerca inquieta e inconclusa di senso, la sua apertura, le sue domande e il suo bisogno di risposte definiscono una prospettiva di significato da elaborare insieme”. La letteratura, emarginata nello sfacelo contemporaneo, continua a respirare, affannosamente, alla costante ricerca di un luogo da cui parlare agli uomini.
Forse su un punto non condivido appieno il quadro delineato dal professor Luperini. Egli sottolinea come un tempo – diciamo dalla metà dell’Ottocento fino agli anni ’60/’70 del secolo scorso – l’insegnante di italiano, l’intellettuale e la Letteratura in generale, avesse un ruolo fondante nell’educazione umanistica della classe dirigente italiana ed europea. I leader politici della nostra storia, gli importanti imprenditori che hanno posto le basi del nostro (passato) benessere e tutti quanti hanno avuto un ruolo di leadership conoscevano a memoria Dante, leggevano Pasolini, avevano sul comodino della loro stanza gli “Ossi” di Montale. Sì, erano colti, si erano nutriti e formati leggendo i grandi classici. Ma – mi chiedo – cosa è stato il Novecento? È stato Auschwitz, la Bomba e tutte le altre cose terribili. E la lupa – che conoscevano molto bene – cosa ha insegnato loro? Nulla. Anzi, l’hanno assecondata, l’hanno liberta nel mondo!
Non credo, quindi, nella speranza che la Letteratura possa “parlare” a molti. Semmai si rivolge ai singoli, a quei giovani in cerca “della leggerazza come reazione al peso di vivere” (Calvino). Oggi, quindi, le cose vanno molto peggio rispetto al secolo scorso. Non resta che sperare che la lupa non si trasformi in un gigantesco drago.
insegnate il nulla
Hitler nel suo programma per le scuole cecoslovacche aveva inserito due sole materie: lingua e matematica. Meditate.