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Un’antropologia del ’68. Marilisa Moccia su “L’uso della vita”/16

L’Uso della vita. 1968 è il terzo romanzo di Romano Luperini. A metà strada tra il romanzo storico – di cui riprende le cifre intessendo la trama coi nomi di coloro che il 68 l’hanno fatto, D’Alema, Sofri, Della Mea, ma anche Fortini, di cui viene ripresa la polemica con Pasolini sui poliziotti «figli dei poveri» – e il romanzo di formazione del personaggio Marcello.

Nelle pagine di Luperini si intrecciano dunque due storie: la prima è la cronaca del 68 pisano e dei suoi animatori nella loro veridicità biografica; la seconda è la storia della maturazione umana, erotica e politica di Marcello. Il côté pubblico e quello intimo del protagonista sono strettamente legati e si mischiano continuamente rendendo la narrazione fluida e unitaria. In entrambe le storie Marcello rappresenta il vertice di un triangolo, preso tra d’Alema e Sofri o tra Sandra e Ilaria, stretto nell’impossibilità di operare una vera scelta che lo rende impotente ma mai passivo.

Il romanzo si apre con l’espulsione di Marcello dal partito comunista, accolta con grande favore da Sofri. Sono i primi mesi del 68 e nelle università italiane si comincia a respirare il vento del cambiamento, dei “controcorsi”, delle riappropriazioni, delle manifestazioni al fianco degli operai contro gli impiegati «crumiri», o delle commesse dell’UPIM; un gran fermento culturale e sociale che sfocerà di lì a poco nella lunga stagione di contestazione che attraversò l’Italia. La sovversione edipica al PCI coincide con la disobbedienza al padre, ex partigiano comunista che solo alla fine del romanzo riconoscerà un’estrema attestazione di stima a Marcello. Gli apici attorno ai quali si polarizza la visione della lotta politica sono un D’Alema, lucido, furbo, che non abbandona mai l’adesione all’apparato con un «sorrisino beffardo», e Sofri che giudica Marcello per il suo «attaccamento borghese alla proprietà privata» che si sostanzia in una seicento usata, ed esprime il suo dissenso con una piega della bocca e tuttavia rappresenta per Marcello «l’unico leader possibile». Da un lato, dunque la concertazione lungimirante e accorta fino all’ipocrisia, di chi farà strada nella politica italiana disegnandone gli scenari foschi, fino ai nostri giorni, come un’ombra, un’eminenza grigia; dall’altro, il furore dispotico che preannuncia la stagione delle stragi e delle vite perse, le cui ragioni si sono tutte spente nel fuoco del 68.

Marcello partecipa alla contestazione con passione e convinzione, ma senza quella fede cieca e insana che conduce solo alla consunzione degli ideali e delle esistenze. Insegna in un liceo e lega la teoria della politica alla prassi della formazione umana e culturale dei giovani, rimanendo sempre legato al farsi concreto della politica ed è forse l’unico detentore, poi erede, di una rivoluzione veramente possibile che «rompe i vecchi schemi e impara a vivere nel terremoto». Ciò non gli impedirà di fare esperienza del carcere. Esperienza biografica dell’autore, peraltro raccontata anche ne I salici sono piante acquatiche.

Con l’avventura politica del 68, che viene presentato come un «agire divertente», un momento in cui «la felicità è diventata pubblica», coincide l’inizio della grande rivoluzione dei costumi e la scoperta della liberazione del corpo. Sono due le donne che accompagnano la formazione sessuale di Marcello. La prima è Sandra, la compagna fedele, succedaneo materno con la quale il sesso è bloccato da ripetute défaillances e della eiaculatio precox per sfuggire alla quale a Marcello viene “prescritto” il matrimonio. Ma Sandra è anche la donna che oppone agli sguardi indagatori e meschini del padre di Marcello una sua naturale ritrosia che la mette in salvo dalle brutture del mondo.

La scoperta dei sensi arriva con Ilaria, dalle calze colorate come la Marcella di Kirchner, e non a caso posta in retro copertina. Ilaria è l’incontro fanciullesco e illuminante con cui sarà possibile scoprire le gioie primigenie e dirsi capace di fare l’amore. Nel romanzo viene affrontato anche il tema dell’aborto, all’epoca ancora clandestino sulle cui conquiste varrebbe la pena soffermarsi in tempi in cui la legge 194 viene praticamente disattesa e l’80% dei ginecologi si dichiara obiettore.

Il significato del titolo possiamo coglierlo solo alla fine delle 138 pagine del romanzo: L’uso della vita. 1968, Una parziale citazione di Fortini, messa per giunta in epigrafe, racchiude l’autobiografia romanzata di un anno, un carnevale cui seguiranno una quaresima e un silenzio di piombo, come scriveva Celati qualche anno fa. A dare senso alla vita, allora, deve essere la pratica di una leggerezza che sia quella dell’uccello e non della piuma, che vada ricercata costantemente tra gli equilibri instabili e non indotta dal moto ascensionale dei venti. E intanto, «la rivoluzione, vecchia talpa, continua a scavare».

Cosa resta della spinta ottimistica che caratterizzò tutta la generazione artefice del 68? Per chi del furore che agitò il 68 ha fatto in tempo solo a vederne le ceneri, ben poco. La figura del giovane insegnante forgiatore delle virtù civili e politiche di intere generazioni non esiste più. La politica che per Marcello era la «vita stessa di ogni persona» conosce oggi un disamore e una cinica distanza dalle esistenze individuali. Il romanzo si legge (anche) come un documento e questo suo punto di forza è al contempo il suo limite: riuscire a fotografare un fermento, un vitalismo storicizzabile che non ha più rispondenze nel presente. 

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