Autobiografia di un anno. Daniela Brogi su “L’uso della vita”/5
Fino a dove possono spingersi i diritti dell’immaginazione e dell’invenzione letteraria quando a raccontare una vicenda storica non è un autore vissuto molti anni, magari secoli, dopo, ma, piuttosto, è stato uno dei protagonisti di quella storia? La risposta più facile e diretta è: si può arrivare ovunque; quella più condizionata e condizionante invece è: fino al limite di coesistenza armonica di quell’invenzione con l’immagine pubblica che l’autore ha costruito nel corso della propria vita. È anche per azione di questo riflesso, forse, che le recensioni e i giudizi sul testo narrativo di Luperini tendono a scavalcare un dettaglio che invece mi pare significativo, ovvero il fatto che il libro faccia sì risuonare, come del resto si esplicita tanto in epigrafe quanto nel corso del testo (p.123), la formula fortiniana sull’ «uso formale della vita, che è il fine e la fine del comunismo», ma il titolo, in realtà, soltanto in parte è una citazione, perché la ripresa fa saltare l’aggettivo: non uso formale, ma, appunto: L’uso della vita. La rima è imperfetta, il cerchio non è rotondo: l’espressione definisce un taglio, sia di lessico, che di organizzazione della storia narrata, tant’è vero che il racconto comincia con una scena di espulsione del protagonista dai quadri del PCI e, in generale, dal discorso politico di seconda mano costruito su teorie e schemi astratti che lasciano fuori la vita.
Quella sparizione, allora, può valere come soluzione d’inquadratura, e in questo senso aiutarci a capire meglio l’angolazione e la materia del racconto. L’uso della vita, infatti, sembra qualcosa di diverso da un romanzo storico, di cui certamente si riprendono dispositivi forti, come la scelta di riflettere anche sul significato generale di un’epoca, o l’elezione – che è quasi una costante dei romanzi storici – di un punto focale decentrato, sia in senso spaziale che esistenziale. Del romanzo storico, d’altra parte, manca l’intelaiatura storica e romanzesca di grande respiro: in questo caso, come indicato dal sottotitolo, si parla di un tempo preciso e limitato: 1968. Potremmo parlare allora, volendo proprio cercare una definizione, di “autobiografia di un anno”: racconto di un tempo storico filtrato dall’esperienza soggettiva di un unico personaggio. L’io che vede sa e sente di partecipare a un movimento generale – le parole “mare” e “corrente”, non per nulla, ricorrono in continuazione -, ma questa partecipazione avviene anche in uno stato di disforia: non politica, né etica, ma emotiva, proprio nel senso della fatica, dell’ansia vitale che questa situazione comporta. È a questo livello, direi, che agiscono le suggestioni simboliche più forti del richiamo alla ragazza dalle calze colorate del quadro di Kirchner: Marcello si chiama come lei, ma non le somiglia, come non somiglia, pur essendone attratto, alla gioiosa Ilaria. Alla verifica della vita, qualcosa di sé resta fuori da entrambe le ideologie: quella dell’uso formale, come quella stessa della leggerezza evocata dalla seconda frase messa in epigrafe «Il faut etre légercomme l’oiseau, et non comme la plume», firmata da Valery ma, vale la pena di notarlo, recuperata all’attenzione da Calvino nella lezione americana sulla leggerezza.
Ma da dove arriva questa fragilità? Da una condizione soggettiva e particolare, senza dubbio; non solo però, e qui vedo un altro elemento interessante del libro – forse il più originale. L’uso della vita non fa i conti col Sessantotto da una prospettiva ex post, ovvero dal punto di vista di ciò che è accaduto e si è pensato “dopo”, come avviene nella maggior parte delle narrazioni di quell’epoca – non solo di carta, tra l’altro: penso al recente film Après mai (Qualcosa nell’aria) uscito in sala qualche mese fa. Piuttosto L’uso della vita racconta il senso comune che c’era “prima”: l’habitat dal quale e contro il quale arriva la rivoluzione del Sessantotto, e così si tratterà della presenza ingombrante dei padri della Resistenza, come il padre stesso del protagonista, ma anche del “personaggio” di Fortini, ritratto per chiaroscuri; oppure, ai livelli più prosaici ma non per questo meno invasivi, si tratterà del conformismo degli apparati scolastici, o del regime di aperta sessuofobia destinato a condizionare non solo le ideologie ma la stessa pratica dei corpi. Le catene che furono spezzate, non senza contraddizioni, non erano retoriche o metaforiche, ma reali, come ci comunicano certe pagine tetre de L’uso della vita che fanno talvolta pensare a Prima della rivoluzione, di Bertolucci.
L’autore di L’uso della vita è uno dei più noti critici letterari; chiunque abbia ascoltato una delle sue conferenze sarà certamente stato colpito dallo stile da vero leader politico con cui Luperini appassiona al discorso la platea. Nel libro, invece, i leader sono altri: D’Alema, Sofri, Della Mea, Fortini. Anche questa, in fondo, è una delle riscorse dell’invenzione artistica: tra la narrazione sociale di sé e il sé resiste una zona oscura che la sociologia non saprebbe mai raccontare. L’uso della vita, coi suoi meriti e se vogliamo anche con certi suoi limiti, ha voluto lavorare in quella zona di disarmonie.
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NOTA
Questo commento è uscito anche su www.leparoleelecose.it del 22 febbraio 2013.
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