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Ribellarsi è un desiderio precoce e interrotto. Giacomo Annibaldis su “L’uso della vita”/6

«Veramente straordinario»: è il giudizio di Andrea Camilleri esibito sulla copertina del romanzo L’uso della vita. 1968 di Romano Luperini. E il lettore sbaglierebbe se ritenesse che quello stelloncino sia soltanto il frutto di un parere amichevole e “partecipativo”, sfruttato dalla casa editrice in modo propagandistico. Invece il romanzo è un racconto accattivante e illuminante, che immerge il lettore di oggi nella dimensione pubblica di quell’anno fin troppo declamato, non rinunciando al suo versante privato, altrettanto necessario per comprendere il pensiero e l’azione politica.

Ripercorrendo le tracce della memoria, rivisitata con qualche tocco della immaginazione, Luperini narra sostanzialmente i fermenti del movimento studentesco a Pisa nell’anno fatidico 1968; basandosi sulle sue stesse esperienze personali, dall’espulsione dal Partito Comunista fino alla reclusione in carcere: una “cronaca romanzata”, in cui il verosimile è più che mai vero. Sicché, se il protagonista, e il suo alter ego, è Marcello, intorno a lui si avvicendano personaggi “reali” , indicati col loro cognome: da D’Alema a Sofri, Pietrostefani e Della Mea, Fortini e Pasolini; e reali – naturalmente – sono le immagini proiettate sulla scena di fondo, da Rudi Dutstschke e la “lunga marcia attraverso le istituzioni” alla strage degli studenti in Piazza delle Tre Culture a Città del Messico, dal Black Power alle Olimpiadi ai braccianti uccisi dalla polizia ad Avola, dalla contestazione alla prima della Scala di Milano all’assalto della Bussola…

Già dall’inizio il nodo cruciale è esplicitato: c’è una generazione che chiede “tutto e subito” e che deve però fare i conti con i propri padri, col “sistema”. Come lo deve Marcello, a cui il Partito chiede le dimissioni, non intendendo espellerlo in considerazione del padre, un compagno che ha combattuto nella Resistenza. Le scelte della nuova generazione oscillano sostanzialmente fra le istanze di due leader giovanili, Massimo D’Alema e Adriano Sofri. Ambedue beffardi, il primo però incline alla «mediazione, al controllo, all’apparato…lui in realtà crede solo negli organismi e nelle strutture organizzati, nei gruppi dirigenti che tessono, rammendano, ordiscono i fili della politica»; il secondo, Sofri, che invece ha «paura della tregua, della normalità, vorrebbe un perenne stato di eccezione e di eccitazione» e che «alla mediazione che smussa, nasconde, accorda, sintetizza, procrastina» oppone «l’atto immediato, l’azione subito, l’urgenza che non vuole aspettare, che esige subito, che deve ottenere subito».

A questo piccolo genio del male si accosta sempre più, con qualche distinguo, anche Marcello, facendo propria l’invocazione di «rompere i vecchi schemi e imparare a vivere nel terremoto», perché «il terremoto siamo noi». E’ quello il momento del secolo in cui ai giovani parve che l’«intensità» era finalmente a portata di mano. E con essa anche una maggiore libertà di costumi: tra una protesta e l’altra, emergono i primi aneliti per una liberazione sessuale, che esprime i suoi due volti contrapposti nelle donne di Marcello, la Sandra impacciata e un po’ frigida e la salentina Ilaria, disinibita e gioiosa. Con la prima, la reazione di Marcello sarà un’allarmante “ejaculatio praecox”; con la seconda, un eros affrancato e l’esperienza dell’aborto, in cui la donna decide di riconquistare la sua solitudine. (E non sarebbe forzato leggere nel coito precoce delprotagonista l’allegoria diuna gioventù che ha sposato l’«immediatezza senza progetto», diun desiderio sessuale che assomiglia a quello politico, che ha troppa fretta di attuarsi).

Metafora più evidente del contrasto generazionale è la contrapposizione con il padre, che sottende tutto il racconto e attraversa anche la sfera sessuale. Quel padre, scoperto da Marcello bambino in segreti rapporti con la zia; quel padre che lo invita a presentargli le sue ragazze, perché lui sa subito individuare «quelle che ci stanno», e «forse per questo Marcello aveva cercato una ragazza che potesse resistere allo sguardo del padre, una ragazza su cui la malizia di lui potesse scivolare via come un’acqua sporca su una pietra dura e levigata».

Il contrasto fra i due si dissolverà infine, dapprima con la constatazione di una «somiglianza» (le stesse «mani piccole e sottili») e poi con l’adesione alla figura paterna (il suo pullover indossato dal figlio, che si impegna a concludere la memoria sulla guerra partigiana in Istria fra il 1944 e il 1945 lasciata incompleta dal padre per la sopraggiunta morte). Il Sessantotto «era finito come se avesse perduto per via buona parte della sua leggerezza». Le assemblee universitarie, gli scontri con la polizia intesi come «iniziazione necessaria», la mobilitazione insieme agli operai e l’esperienza carceraria… sono tutte tappe di una felicità che sembrava «a portata di mano come la sconfitta e la catastrofe».

Dopo I salici sono piante acquatiche e L’età estrema, Luperini – insigne italianista (ha insegnato anche all’università di Lecce) – torna al romanzo con questo L’uso della vita. 1968, che trae il titolo da una frase di Fortini: «La forma è attributo delle classi dominanti e insieme anticipazione dell’uso formale della vita, che è il fine e la fine del comunismo». Lo fa cercando – come l’uccellino delle ultime pagine – di catturare la leggerezza di quel momento; leggerezza non incerta né svagata», ma a suo modo decisa, orientata a una meta», una leggerezza (di uccello non di piuma) «che andava conquistata, e forse non sarebbe bastata tutta una vita».

NOTA

Questa recensione di Giacomo Annibaldis è stata pubblicata su La Gazzetta del Mezzogiorno del 6 marzo 2013. 

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