L’individuo e la realtà. Niva Lorenzini su “L’uso della vita”/12
Ritmi e fisionomia di un testo
Molto è stato scritto da recensori tempestivi (Angelo Guglielmi, Giulio Ferroni, Daniele Giglioli tra i primi, rispettivamente su “l’Unità” il 12 febbraio, “Alias” e “La Lettura” il 17 dello stesso mese) su questo terzo romanzo di Luperini, con analisi che ne hanno messo in luce la tipologia, discutendone l’appartenenza di genere (romanzo storico, cronaca romanzata, romanzo di formazione), e insieme l’ottica in cui si colloca la narrazione (autobiografica e storico-politica), la scelta del linguaggio (partecipe e distaccato), i personaggi (reali e d’invenzione).
Raccontare il Sessantotto da chi l’ha direttamente vissuto senza cadere in toni apologetici o nostalgici era sicuramente una sfida, e di questo le recensioni si sono giustamente occupate, ricostruendo la fisionomia di un testo che si presenta come reportage, ricostruzione in presa diretta di eventi che si collocano tra le occupazioni universitarie pisane del ’68 e la contestazione di capodanno alla Bussola di Focette. Nel libro i “fatti” pubblici, che prendono corpo e voce tra gesti, incontri, azioni collettive, sono registrati in tensione dinamica, ripresi in continuo movimento, tra condivisione e contrasti, affermazioni e sconfitte, e interagiscono con i dubbi, le difficoltà, le emozioni private, gestite invece in solitudine, con senso di privazione, perdita, inappartenenza. Ed è questione non solo di ritmi.
Il contrasto di incipit ed explicit
Di questo vorrei parlare, ma prima dirò che la mia attenzione è stata richiamata subito dal singolare contrasto, strutturale e tematico, tra le righe di apertura e quelle di chiusura di un libro che invita il lettore ad aprirlo con fiducia, a partire dal titolo invogliante: ma L’uso della vita, lo si scopre presto, non sarà accompagnato da istruzioni, alla maniera di un Perec decontestualizzato e risemantizzato (sua, proprio del ’68, La Vie Mode d’Emploi, tradotta da noi con La vita istruzioni per l’uso). Nessuna parodia del genere autobiografico si darà lungo il testo di Luperini, e insieme nessun tuffo in un Je me souviens che denunci, con fredda impersonalità, stereotipi e conformismi del vivere. Piuttosto si tratterà di leggerlo, quel titolo, nella sua integrità (che è appunto L’uso della vita. 1968), per capire che qui si assiste a un tentativo di collocare in situazione la vita, accompagnandola con la data che ne segna una connotazione essenziale, perché della “vita” definisce circostanze, confini, necessità storica. E se chi scrive ha attraversato di quella data entusiasmi e speranze deluse, trasformazioni ed epilogo tragico, l’interrogativo che si pone il lettore riguarda i modi con cui quella esperienza abbia potuto trovare spazio e forma nella scrittura, a distanza di più di quarant’anni dai fatti narrati.
La sfida, per Luperini, stava intanto nella scelta dei tempi, che si risolve nel consegnare in primo luogo all’imperfetto, alternato al passato remoto, non la connotazione dell’elegia o dell’evento concluso, ma la vitalità di episodi che acquistano di pagina in pagina la scioltezza dell’accadere, grazie al nitore materico, fisico, della parola che li registra (“Fuori c’era un sole tiepido che riempiva di luce le strade […] “Marcello ora pedalava verso la casa di Adriano […] Guardava con la testa contro i vetri […] Ilaria guidava zigzagando felice nel traffico, sfiorava le auto, saliva sui marciapiedi, si incuneava fra i pullman dei turisti, sgattaiolava tra moto e bici […]”). E non sorprende che dal passato si passi agevolmente al presente, ogni volta che si voglia rendere, tramite il discorso diretto, la ‘verità effettuale’ di ciò che viene raccontato, o quando si tratta di restituire la pregnanza dell’azione tramite un deittico (“ecco”) che la introduce, come nell’episodio della stazione di Pisa, facendo scattare all’improvviso nel testo l’urgenza, la rapidità, della scrittura paratattica (“Intanto il corteo penetrava nella stazione ferroviaria […] Ed ecco Adriano che attraversa di corsa i primi due binari, salta sulla banchina che divide il secondo dal terzo e dal quarto […]”, e via così, per tre pagine fitte di icasticità in pieno risalto).
Ma torno al contrasto cui accennavo in apertura. “I tre sedevano dietro la stessa scrivania”: è statico, l’inizio, bloccato su un periodare breve, che si accompagna alla descrizione di un interno asfittico e spoglio, e di movimenti contratti. In una stanza nuda, senza colore e senza arredi, si svolge una sorta di processo kafkiano, condotto da figure senza volto né nome, esponenti della “Commissione federale di controllo” del Partito. Intolleranti del dissenso, “i tre” – definiti volta per volta “il più anziano”, “quello di destra”, “quello che aveva parlato per primo” , “quello che era stato sempre zitto”, “quello che aveva fatto la battuta”, “il più vecchio che stava seduto al centro” – propongono l’espulsione dal partito, barattabile con le “dimissioni”, a Marcello, un giovane bollato come appartenente a un movimento “piccolo-borghese, estremista e pseudo rivoluzionario” (e non stupirà proprio ritrovare più avanti quel Marcello, seduto qui su una sedia davanti ai suoi giudici, con “lo spazio vuoto intorno”, disorientato “come a un esame, o a un processo”, ritrovarlo, dicevo, in carcere, mentre regala a un detenuto Il processo di Kafka. Segnale minimo ma tutt’altro che ininfluente di una struttura narrativa in cui, senza darlo a parere, tout se tient).
Tonalmente diversa la conclusione, alleggerita di ogni pesantezza, affidata al vagare dello sguardo di Marcello dietro la traiettoria di una piuma in volo verso l’alto e verso il basso, e poi del movimento “diritto e lieve” di un passero tratteggiato fino alle righe finali, che suonano da implicita morale della favola: “La leggerezza del passero non era come quella della piuma, andava conquistata e forse non sarebbe bastata una vita intera”. La piuma, il passero, con la loro contrapposta valenza, diventano così allegorie di una leggerezza che scioglie, risolvendole in immagine, le parole di Valéry citate in epigrafe (“Il faut être léger comme l’oiseau, et non comme la plume”), lasciando tuttavia aperto, tutto da penetrare, l’enigma del titolo, se lo si legge nell’accezione di un Fortini citato anch’esso in epigrafe (“L’uso formale della vita, che è il fine e la fine del comunismo”).
L’allegoria della piuma
A me pare che quell’allegoria sia pienamente in linea con lo sviluppo tematico che attraversa tutto il romanzo e ne occupa la struttura e il ritmo, sospeso ogni volta tra pesantezza e leggerezza, ripetizione e intensità, fissità e movimento, monocromatismo e trionfo del colore, lontananza e immediatezza. Se lo si scorre in questa prospettiva, il terzo romanzo di Luperini mette in luce, oltre tutto, una continuità di scrittura che va profilandosi di tappa in tappa: intendo dire che tanti aspetti de I salici sono piante acquatiche, edito da Manni nel 2002, e soprattutto dell’Età estrema, uscito per Sellerio nel 2008, confermano una tendenza a raccontare gli eventi che “accadono” spezzando la fissità, introducendo il dilemma (nell’Età estrema bastavano improvvisi fotogrammi – un insetto verde o una lama di sole, o la figura di Claudine, “delicata e luminosa”, che attraversava “morbida l’aria” – a interrompere e a mettere in crisi, come “incontri” casuali, non necessitati, la continuità predefinita, senza sviluppo).
Lo si potrebbe leggere, in fondo, a partire da questo approdo, il romanzo di formazione (“romanzo storico”, “cronaca romanzata”, secondo l’autore) che tocca, con risvolti anche direttamente autobiografici, sfera pubblica e sfera privata: quella delle prime esperienze professionali del protagonista Marcello, dei problemi sessuali che lo angustiano, del rapporto difficile con il padre, partigiano eroe della Yugoslavia di Tito, chiuso nella sua rigida, inattaccabile disciplina di partito; e accanto quella di vicende condivise con i compagni di Università, di cui si dà conto con documentazione rigorosa, a partire dai nomi dei protagonisti delle assemblee e delle lotte pisane, tra cui i giovanissimi D’Alema e Sofri, Della Mea e Bompressi. E lo si potrebbe leggere, credo, anche seguendo il percorso di parole chiave che si disseminano lungo il testo come precisi segnali indicatori, riprese ritmiche che ne marcano la compattezza e la tenuta.
Tra queste spicca l’“intensità”, che Marcello insegue fino dall’inizio e lo dichiara: “Ecco – si legge a p.32 – ho sempre cercato l’intensità, e l’intensità ora è qui, a portata di mano. Solo per questo si vive, per raggiungere l’intensità. Il senso della vita sta tutto qui: rifiutare le zone opache, negarsi al grigio della vita ripetitiva” (a un passo dalla fine sarà di nuovo un riferimento a Marcello a veicolarla: “Non si sentiva né un intellettuale e basta, né un rivoluzionario e basta, e viveva così, a mezza strada […], alla ricerca di un cambiamento che a tratti aveva intravisto e di una intensità che di tanto in tanto, seppure per pochi istanti, era riuscito davvero a vivere”).
All’intensità si accompagna la “leggerezza”, che si traduce in scelta stilistica dando vita a un periodare agile, ritmato sulle descrizioni interrotte da rapidi affondi introspettivi. E’ la leggerezza che si accompagna al progetto di cambiare il mondo, e si esprime nella felicità dello stare insieme, o nella “voglia di vivere” di Ilaria, personaggio positivo, solare come la Claudine dell’Età estrema, colta in pagine ariose mentre percorre le strade di Roma “zigzagando” con il motorino nel traffico, con l’“allegria delle sue calze verdi e nere” che si incidono come un refrain nel tessuto testuale; ed è la leggerezza, ancora, che svanisce a fine libro, tra rintocchi che paiono fissarne, prolungarne la scia (“Il sessantotto era finito, ed era finito come se avesse perduto per via buona parte della sua leggerezza…[…] Marcello pensava alla leggerezza di Soriano […] L’aveva ritrovata anche in Ilaria […]”). All’intensità, alla leggerezza, si contrappongono la solitudine, la fissità, lo slontanarsi degli affetti, il senso della fine, che acquistano a loro volta, lungo il testo, connotati allegorici marcatamente benjaminiani. Quelli di un mondo che frana in rovina e si immobilizza, si decompone, insieme alla svolta del Movimento verso nuclei di lotta armata, avviati verso epiloghi tragici (così a p.94: “Ottavio ormai era lontano, imprendibile e ironico. Il corso, su cui tante volte aveva marciato in corteo, era vuoto, i bar sbarrati. Manifesti mezzo strappati penzolavano dalle muraglie delle case. Alle cantonate le cartacce rotolavano sul selciato investite da folate di vento, urtavano i marciapiedi, facevano mulinelli […]).
Si lascia all’allegoria il commento muto. L’autore dell’Uso della vita non giudica. Si limita a “mostrare”, alla maniera di Benjamin, censurando il rigore che sconfina nella rigidità: fosse pure quello di Fortini, maestro controverso, odiosamato, cui il Luperini critico ha dedicato studi esemplari, chiamato più volte in causa lungo il testo, con lettere-testimonianze e precisi riferimenti citazionali.
Perché in fondo quello che il libro racconta è il problematizzarsi del rapporto individuo-realtà, che comporta i dilemmi di chi partecipa agli eventi “entusiasta e perplesso”, fra “slanci e dubbi”, mettendo faticosamente a punto, sulla propria pelle, schegge di istruzioni per l’uso del vivere.
NOTA
Questo intervento è apparso sul n. 274 de L’Immaginazione, marzo-aprile 2013.
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