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diretto da Romano Luperini

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Finché le donne saranno considerate a responsabilità limitata

A responsabilità limitata

Finché le donne saranno considerate a responsabilità limitata ci saranno la violenza e l’assassinio sulle donne e delle donne in quanto donne. Per questo frasi del tipo “Come era vestita quella notte?” o “Sarebbe bene che le donne non uscissero da sole la sera” sono pericolose e gravissime.

La prima me la sono sentite arrivare contro io stessa, da un poliziotto ben poco rispettoso e consapevole (si direbbe scarsamente sensibile), due giorni dopo essere stata aggredita per la strada, poco dopo mezzanotte, mentre tornavo a casa dopo una riunione di lavoro. Quando quelle parole mi sono arrivate contro stavo andando in Questura con mia madre a fare il riconoscimento segnaletico dell’uomo che due giorni prima mi aveva aggredita alle spalle sul marciapiede subito fuori le mura cittadine di una città considerata fino a quella notte “una delle più sicure d’Italia”. E la verità, per assurdo (non per rispondere all’improvvido, maleducato e maschilista poliziotto) è che se quella notte non avessi indossato un paio di pantaloni a vita alta quello sconosciuto, ora in carcere, mi avrebbe certamente violentata sul marciapiede. Se per caso quella sera avessi deciso di mettere una gonna o un paio di pantaloni più leggeri, magari di cotone o di lino, sarei stata violentata. Ora, per chi subisce violenza (ogni tipo di violenza, che è prima di tutto la privazione momentanea della propria libertà, ma ci torneremo) non esistono molte differenze fra “tentata violenza” e “violenza”. Qualcuno dovrebbe spiegarmi qual è la differenza fra le mani infilate in bocca e in mezzo alle cosce da parte di uno sconosciuto che ti piomba addosso mentre stai camminando per i fatti tuoi e la penetrazione con altre parti del corpo. Ma certo una differenza alla fine c’è, è differenza di intensità della violenza e comunque la legge la riconosce e quindi c’è di fatto. Ma le parole non sono meno violente e rischiano spesso, ancora, di umiliare la donna che ha subito violenza e di addossarle una colpa che certamente non ha. Come se, come sempre, la colpa della violenza subita fosse sua, per come era vestita, per come comminava, per come si poneva, seduttrice innata. Dimenticando invece che la responsabilità è di chi commette l’atto violento, non chi lo subisce (e questo è vero per tutti i tipi di violenza, per quelli che avvengono in strada e per quelli che avvengono dentro le mura domestiche).

Così, quando, a distanza di anni da questo fatto avvenuto a me, sento le parole del procuratore capo di Bergamo, Francesco Dettori, all’indomani dell’ennesimo stupro di una donna da parte di un uomo, in una città considerata, ancora una volta, sicura, provo prima di tutto rabbia e poi dolore. Il procuratore capo Dettori afferma: “Le donne non dovrebbero uscire da sole la sera”. La rabbia e il dolore sono per il fatto che occorre costruire una cultura della civiltà condivisa fra uomini e donne perché smettano le violenze contro le donne in quanto donne. La rabbia e il dolore sono per il fatto che queste parole (tanto più se dette da un uomo che rappresenta lo Stato) umiliano ancora una volta le donne (alla stregua del “Come era vestita quella sera?”), colpevolizzandole, ma, cosa assai più pericolosa, considerandole a responsabilità limitata, il che per altro sta alla base dei motivi subconsci per i quali gli uomini usano violenza contro le donne, nei secoli dei secoli. Siamo pronte a scusare il poliziotto, che non è stato addestrato per intervenire in casi del genere (in casi di genere!) e il magistrato, che magari voleva solo constatare l’ovvietà del pericolo, ma rimane la gravità del problema. Che è problema sociale e non personale. E che come tale va affrontato.

Così viene da chiedersi, perché ogni giorno sentiamo notizie di violenza ai danni di una donna? Perché ogni due giorni in Italia viene uccisa una donna per mano di uomo? E ci raccontiamo mentalmente che le cose altrove vanno perfino peggio (vedremo i dati, che ci spiegano come in realtà, come per la violenza e la tentata violenza a differire sia l’intensità, non il fenomeno in sé). Ma il punto da chiedersi è, ancora, perché?

Per altro noi vogliamo raccontare la storia di donne che ce l’hanno fatta, che sono uscite dal circolo della violenza, che, magari aiutate da altre donne, si sono rimesse in piedi e hanno ripreso la loro vita. Così occorre allargare la visuale, dall’Italia al mondo, ma anche da oggi a ieri per capire fino in fondo. Per darci un vocabolario, un Paese e un mondo senza violenza (di genere).

Gli uomini invidiano alle donne qualcosa di intimo e di profondo. Oggi come ieri. Certo oggi ci sono gli smart phone, la tecnologia, il sesso usa e getta, a portata del palmo della mano (che è ancora più comodo di quello a portata di click), i corpi delle donne sono ovunque (parliamo dell’Occidente e dell’Italia in particolare), eppure non muoiono meno donne di prima per mano degli uomini. Anzi, ultimamente ne muoiono perfino di più e l’unico motivo per cui vengono ammazzate è perché sono donne. In cosa consiste quindi l’essere donne? E perché questo porta gli uomini ad ucciderle in quanto donne? Forse perché le donne hanno in sé il dono della vita? Cioè perché portano in sé, nel proprio corpo, la capacità di dare la vita? Perché hanno il grembo? Gli uomini invidiano il grembo delle donne? Ma allora a cosa ci sono serviti secoli di storia e di cultura se le donne sono ancora invidiate per il solo fatto di avere il grembo? E cosa c’entra questo con le parole del procuratore di Bergamo, con la mia indignazione e con la responsabilità limitata?

L’invidia del grembo

La psicanalisi moderna, con Freud, dà alla donna una responsabilità limitata, in quanto il piacere è puramente quello maschile (quello femminile è sempre “non maturo”, cioè rimane infantile), come anche il punto di vista, e la donna è affetta dall’invidia del pene, oltreché da un sacco di altri problemi legati al fatto di avere, si è scritto lungamente, un’intelligenza uterina molto più sviluppata di quella cerebrale e anche molto più lunatica. Per decenni i disturbi femminili, come l’isteria, sono stati curati con torture fisiche inaudite. E la donna, si sa, ha sempre avuto come ruolo quello di rimanere in casa, partorire figli, con dolore, e accudire la famiglia. Per questo, anche, alla donna erano intercessi i pubblici uffici, la magistratura, la politica, la scuola (intesa come educazione). Perché le donne, proprio come i bambini, non esistevano, non dovevano esistere nella dimensione pubblica della vita, esistevano solo in quella privata, dentro le mura domestiche, ad uso e consumo dell’autorità maschile (della patria potestà, affidata al padre, al fratello, infine al marito) ed erano per questo private di voce (pubblica), di parola (perfino di voto, naturalmente). Quella della donna, come anche dei bambini (non parliamo poi di quella delle bambine) è sempre stata una vita a responsabilità limitata, perché soggetta all’autorità paterna, prima (del fratello del padre poi, eventualmente) e del marito, dopo. Per questo le parole “E’ bene che le donne non escano da sole la sera” indignano fortemente. Perché si riporta la donna alla dimensione subalterna all’autorità maschile (alla patria potestà). Perfino la legge però si è aggiornata e oggi parla di potestà genitoriale, cioè affidata in maniera paritaria ai due genitori, padre e madre.

Se si fa un balzo culturale indietro, non solo nella storia, ma nella mitologia, si vede come il tema della responsabilità limitata per la donna sia costante. Le divinità nascono nei modi più bizzarri (dalla terra, dallo sterco, per gemmazione, con il vento, e via di fantasia), quasi mai partoriti dal grembo di una donna o, se anche sono partoriti da una donna, si tratta di una donna isolata dalle altre e vergine (come nel caso di Maria, madre e vergine di Gesù Cristo, allontanata dalla madre, Anna. Madre a cui Maria non porterà nemmeno il pargolo in visione. Lo farà vedere invece ad Elisabetta). La verginità è fondamentale in tutte le religioni, non solo in quelle monoteiste, come lo è nella società patriarcale, in genere, anzi, ne è l’elemento di garanzia. Perché è sullo scambio della verginità della figlia che si basa l’economia delle società primitive (e non solo di quelle primitive, come la storia delle monarchie europee moderne ha dimostrato) patriarcali. La mitologia stessa si basa su questo. La figlia di Zeus e Demetra, Core-Persefone viene portata via alla madre. A rapirla è Ade, dio degli inferi. La povera ragazza, ovviamente vergine, non avrà né voce, né volto, di lei si perderanno le tracce e, cosa fondamentale, non potrà chiedere aiuto alla madre. “Giove (o Zeus) scambia la verginità di sua figlia contro l’affermazione della sua onnipotenza maschile. L’episodio del rapimento di Core-Persefone riguarda un conflitto di potere fra Zeus e Ade, due fratelli di differenti origini che non possono né vedersi né incontrarsi a causa della loro appartenenza genealogica. Zeus discende da Gaia, Ade da Caos. Zeus vuole divenire il Dio degli dei. Vuole capovolgere il Caos iniziale in un’unica potenza divina monoteista. A questo scopo cede la figlia in sposa ad Ade che, ciò nonostante, la rapisce e la violenta” (L.IRIGARY, Il tempo della differenza. Diritti e doveri civili fra i due sessi. Per una rivoluzione pacifica, Editori Riuniti, 1989 Roma, pagg. 77-79). E’ il passaggio dal matriarcato al patriarcato, che avviene, guarda caso, con un rapimento e con la violenza della giovane che in questo modo perde il proprio valore, ovvero la verginità. E in questo sta la sua colpa. Perché, sempre secondo il mito, Ade, che pure rapisce la giovane e la porta nel sottosuolo, negli inferi, togliendole la voce, l’identità e il legame profondo con la madre, non la stupra subito. Sarà lei a sedurlo. Inoltre, invocato da Giove, rimanda la giovane rapita indietro, ma solo dopo averla raggirata. Giove infatti deve richiedere ad Ade la figlia, per fare in modo che Demetra rinsavisca. Nel frattempo infatti Demetra, impazzita di dolore per la perdita della figlia, in risposta al rapimento, abbandona il mondo divino per lavorare fra gli umani e diventare la nutrice di un bimbo umano, che intende segretamente allevare come divino, ma, scoperta, si ritira e si fa costruire da Giove un santuario. Il suo lutto per la perdita della figlia rende però sterile la terra. Per impedire che la carestia uccida tutti gli uomini Giove interviene e chiede ad Ade di riavere la figlia. Il quale acconsente, prima di lasciar andare Core-Persefone però le fa mangiare dei chicchi di melagrana. “Chi accetta un dono dal principe dell’Ade ne diviene ostaggio”. Quindi la giovane, non più vergine, è colpevole. Proprio come lo è Eva, responsabile di aver accettato dal serpente-demonio la mela e quindi di aver indotto il Dio, buono, a diventare cattivo, e a cacciare lei e Adamo (che è il creatore di Eva, essendo lei frutto della sua costola!) dal Paradiso terrestre. Nell’uno e nell’altro mito, come in quelli di molte culture, per altro, le donne sono a responsabilità limitata (ma contemporaneamente colpevoli, perché seduttrici) e inoltre il regno maschile è infernale e potente (anzi, meglio, onnipotente e violento). Ade d’altra parte non è che la negazione (il Negus) di Giove. “Questa potenza infernale del regno dei maschi, questo dio invisibile, sarà un ladro e uno stupratore, l’uomo nero di cui hanno paura tutte le bambine. Ade è il doppio oscuro di Giove, l’ombra della sua sovranità, l’inverso o l’inferno della sua potenza assoluta senza partizione con l’altro sesso. Ade corrisponde alla notte e all’inconscio”. Corrisponde all’uomo nero, che si ritrova, magari con sembianze diverse, un po’ in tutto il mondo. Ovunque è un uomo cattivo che rapisce e violenta. Cosa c’entra tutto questo con il fatto che in Italia nel 2012 sono state uccise per mano dei propri mariti, fidanzati o ex 116 donne, una ogni due giorni? Cosa con 2061 (fonte Ansa-Eures) donne ammazzate negli ultimi dieci anni? E cosa con le parole del procuratore capo di Bergamo?

Se si passa dalla mitologia alla scienza moderna e poi anche contemporanea si vede che la donna è sempre considerata inferiore. Gli anatomisti del XIX secolo per esempio rappresentavano “una realtà del tutto particolare ispirata soprattutto agli ideali di virilità e di femminilità: il cranio delle donne era significativamente più piccolo rispetto a quello maschile; il loro bacino era (in modo quasi imbarazzante) più ampio (C.FLAMIGNI, Casanova e l’invidia del grembo, Baldini Castoldi Dalai editore, 2008 Milano, pag. 191). Le conclusioni delle loro analisi erano (e restano spesso) ovvie: “le donne hanno un cranio più piccolo perché il loro cervello (quindi la loro intelligenza) è inferiore a quella dell’uomo; le donne hanno un bacino più ampio perché il loro destino naturale è quello di fare figli, restare a casa, educare la prole, provvedere alle faccende domestiche”. Le matrone romane d’altra parte dicevano “domo mansi, lanam feci” (ho fatto la calza, non mi sono mossa da casa). D’altra parte la scienza, fino a pochi decenni fa, ha dimostrato l’inferiorità naturale della donna “non c’era quindi bisogno di giustificazioni per escluderle dalle attività pubbliche che comportavano senso di responsabilità, equilibrio, razionalità, moderazione, capacità di ignorare gli impulsi vergognosi del corpo, saggezza”. Sempre “scientificamente” ci sono autori che a fine Ottocento e inizio Novecento dimostrano “L’inferiorità della donna” e per tradizione le donne “non votano, non studiano, non lavorano e soprattutto non si lamentano”, perché vengono private della voce. Ma anche perché la storia, la tradizione, la mitologia, la scienza, perfino la psicanalisi le ha tenute in uno “stato infantile”. L’uomo lavora per la donna, la mantiene. “La donna abbandonerà la sua famiglia, abiterà in casa del marito, prenderà il suo nome, si lascerà possedere fisicamente da lui, porterà i suoi figli, li metterà al mondo, li crescerà, il che significa servire da nutrice” e da colf. In questo schema, che solo da poco è in parte stato superato, la donna è come i bambini, quindi è in uno “stato infantile”, subalterno, “anche i bambini sono infatti mantenuti dai loro genitori e dallo Stato per il loro lavoro scolastico”. Le donne come i bambini possono essere puniti. Ora naturalmente la punizione corporale è rigettata dalla nostra società, ma solo fino a qualche decennio fa era accettata e incoraggiate e ci sono Paesi dell’Europa che ancora tollerano le punizioni corporali, come elemento educativo, come l’Inghilterra e la Romania. D’altra parte il dire che le donne sono tenute in “stato infantile” non è così sbagliato, se si pensa per esempio al successo delle Cinquanta sfumature di grigio, dove la donna amata (amata?) viene ripetutamente “educata” a suon di sculacciate dall’uomo, che è ovviamente onnipotente. In fondo le donne uccise per mano di uomini che dicevano di amarle sono state punite (e quindi uccise) perché erano uscite di casa, avevano abbandonato lo stato di sudditanza, avevano troncato la relazione, lasciato l’uomo “onnipotente” per riprendere il cammino da sole o con altri uomini.

La mattanza: diario delle donne uccise

Le donne uccise in Italia per mano di un uomo in quanto donne sono state 116 nel solo 2012. Una ogni due giorni. Stando ai dati Ansa-Eures sono state 2061 nell’ultimo decennio le donne uccise da un uomo in quanto donna. Siamo alla mattanza.

Ora “la ventisettesima ora”, il blog al femminile del Corriere della Sera, ha collezionato i volti e le storie di queste donne. Le storie sono quindi a disposizione di tutti e utili per capire qualcosa di più.

In Italia la violenza degli uomini contro le donne è la prima causa di morte per le donne. Si muore per mano del proprio uomo, dell’uomo “di casa”, di un uomo più che per il cancro, l’inquinamento, gli incidenti stradali. La violenza contro le donne in Italia è così radicata che perfino l’Onu l’ha denunciata, dichiarando il femminicidio nel nostro Paese “Crimine di Stato”. Ma lo Stato, il Governo e la società dove sono mentre la mattanza continua?

Il blog “la ventisettesima ora” ha raccolto le foto delle donne ammazzate e le loro storie. Ci sono donne del nord e del sud, giovani e vecchie, italiane e immigrate, bionde e more, alte e basse, magre e grasse. Sono madri, figlie, sorelle, compagne, mogli, fidanzate. Sono chiunque di noi. E tutte conoscevano molto bene, intimamente, il proprio assassino. Quasi tutte avevano denunciato almeno una volta la violenza, le percosse, le minacce, l’insistenza. Alcune avevano confidato a parenti e amici, o denunciato alle forze dell’ordine: “questa volta mi ammazza”. C’è chi la denuncia l’ha fatta tre, quattro, dieci volte. Tutto è stato vano. Queste donne sono state lasciate sole e sono morte. Morte ammazzate. Leggendo le storie, quello che colpisce è il modo col quale, giorno dopo giorno, queste donne sono state uccise per mano di un uomo che in passato avevano amato. Quasi sempre c’è penetrazione, con un coltello, un pugnale, uno stiletto, un’arma che è in grado di entrare dentro al corpo e di lacerare in maniera deturpante e irreversibile, di ferire a morte. E vengono colpite, oltrepassate, squarciate al ventre, al fianco, al cuore, al collo, al volto. Quasi sempre prima o dopo ci sono le botte, i lividi sul corpo nudo, l’accanimento sul corpo esangue. Queste donne sono state deturpate nella bellezza e nell’integrità del proprio fisico, il corpo segnato dalle botte, dal fuoco, lordato dal sangue, il viso sfigurato dall’accanimento della violenza e della follia. In alcuni casi c’è perfino l’occultamento del cadavere, che viene gettato, abbandonato. Le protagoniste di questa mattanza vengono trafitte, prese a calci, pugni, a bastonate, i loro volti e i loro corpi vengono marchiati, come a cancellarne l’identità, a negarne in eterno la voce e l’immagine. E cade il tabù, che, come quello dell’incesto, si ritrova in moltissime culture, della cura dei defunti. Questi corpi, violentati, massacrati, sono anche violati, perfino dopo la morte.

E’ il coltello ad uccidere, ancora, oggi. Sono le pietre, gli oggetti contundenti che possono tramortire, ferire, lacerate, trafiggere. C’è qualcosa di arcaico, di barbaro in tutto questo, che segna, la prepotenza, la prevaricazione, il possesso dell’uomo sulla donna. Il paragone col passato è difficile, mancano serie di dati storici, la società è cambiata, la legge è cambiata, perfino gli uomini e le donne sono cambiati. Fino al 1981 ha resistito il delitto d’onore, eppure la percezione è che oggi muoiano più donne di un tempo e in maniera, se possibile, ancora più efferata. La morte è morte. Ancora una volta a cambiare è l’intensità dell’accanimento e della violenza, non la violenza in se stessa, che invece rimane e si accentua. Certo le serie tv che fanno vedere nei dettagli omicidi efferati hanno creato un’abitudine alla violenza perfino eccessiva. Karl Popper, in Cattiva maestra televisione, l’aveva intuito oltre vent’anni fa, e oggi il panorama mediatico ha superato di gran lunga la visione e perfino la sua previsione del filosofo. Ad ogni ora del giorno e della notte, su tutti i canali ci sono programmi di approfondimento sui casi più tremendi di omicidio e di violenza, ma anche fiction nelle quali il crimine è raccontato nei minimi dettagli, svelando trucchi e indugiando in particolari raccapriccianti. E’ saltato il pudore della morte, ma non in funzione dell’informazione, bensì in chiave meramente voyeuristica. Non si parla del femminicidio per tentare di capire e per informare, ma per la morbosa volontà di guardare dentro le vite degli altri, con la certezza che quello che è capitato a Sandra, Maria, Maura, Stefania, Rosetta, Cristina (solo alcuni dei nomi delle donne vittime dei propri uomini nel 2012) sia altro da noi. Senza invece avere la sensibilità e l’acutezza di registrare che quello che è successo a loro è successo a noi. Il fatto che il racconto di quelle morti sia sguaiato e urlato non è un fenomeno altro rispetto alla violenza stessa (che è sguaiata e urlata, oscena e terribile, orribile, agghiacciante). Ne è anzi una parte significativa.

Se infatti si confrontano le storie delle donne uccise con quelle dei loro carnefici (sono collezionate da un secondo sito www.inquantodonna.it) si rimane sbalorditi da quanto strida l’apparente normalità di queste persone rispetto all’evidente efferatezza che sono riusciti a mettere in scena. Scrive Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera il 19 gennaio 2013: “È un pugno allo stomaco il mucchio selvaggio di foto di mariti, fidanzati, conviventi, padri che hanno ammazzato la loro donna. Di bacheche zeppe di madri, figlie, fidanzate, amanti assassinate ne avevamo viste tante, in questi mesi. Ma mai una tale carrellata di assassini. Facce banali. Facce normali. Facce serene. Facce spesso rassicuranti. E proprio per questo, messe tutte insieme, terribili”. “Uccide la moglie a colpi di pietra e ne inscena il suicidio”, “Massacra a coltellate la moglie di fronte alla figlia quattordicenne”, “Fa sequestrare la fidanzata e la uccide con 80 coltellate, di cui 20 al cuore”, e via di seguito, a dimostrazione che la realtà supera sempre l’immaginazione del grande e del piccolo schermo.

Dall’Italia del femminicidio al mondo della violenza di genere

Quando si passa dal particolare (la coppia, la famiglia) al totale (la società, gli Stati) si entra nel mondo delle violenze di massa e di Stato, come gli stupri etnici per esempio.

Se si guarda ai dati internazionali si vede come la violenza di genere sia un problema diffuso in tutto il mondo, con intensità diverse. Si potrebbe pensare che esistono differenze sostanziali fra il Nord e il Sud del mondo da questo punto di vista e invece non è così. Certo, a cambiare è l’intensità del dato. Si deve considerare che nel Sud del mondo i principali problemi per le donne sono ancora dovuti a fattori legati alla fame, alla povertà, alla cultura. Per molte donne è ancora difficile accedere all’istruzione e alle cure mediche, uscire dal potere del padre famiglia, ma non sono le civiltà più arretrate ad avere il record di violenze e omicidi. L’Italia, come la Spagna, come abbiamo visto, non sono da meno. A cambiare è l’intensità della violenza. Ma ovunque, da nord a sud, da est a ovest, dai paesi ricchi a quelli poveri le donne e i bambini (per non parlare delle bambine) subiscono ancora minacce, violenze, vessazioni. La violenza di genere e il femminicidio sono ancora diffusissimi.

Quello che salta subito all’occhio, analizzando i dati Onu, è che ci sono paesi dove la violenza di genere e il femminicidio hanno un’incidenza a doppia cifra, come alcuni paesi africani, parte del Latino America, l’Afghanistan, naturalmente. Ma il punto è che tutti i dati, anche quelli dei paesi Europei, risalgano al triennio 2003-2006. non ce ne sono di più di più recenti. Inoltre il fenomeno è difficilmente misurabile sia qui che altrove. Ciò che emerge è che l’intensità della violenza contro le donne è maggiore in quei paesi dove la violenza in genere (non solo di genere) è il modo quotidiano di approcciarsi alla vita. Se si analizzano anche altri fattori, come l’educazione, la povertà, la fame, ci si rende conto di come la violenza contro le donne sia un problema legato anche alla difficoltà di accesso all’istruzione, alla fame e alla povertà, ma anche al tema della salute. Le donne (e le bambine) in alcune zone del mondo faticano ad accedere alle cure mediche e all’istruzione. L’Onu considera come violenza contro le donne sia quella sessuale, che quella fisica e psicologica, ma prende in esame anche altri tipi di violenza, che sono sia fisici che psicologici e sessuali, come l’avere rapporti sessuali forzati (fra cui ci sono l’induzione e lo sfruttamento alla prostituzione, ma anche per esempio i matrimoni combinati a cui in certi Paesi, come alcune regioni dell’India e del Pakistan le donne sono ancora soggette, soprattutto quando sono ancora minorenni) e gli abusi durante la gravidanza. Una differenza quindi fra aree del mondo è ravvisabile. Ma è differenza di intensità. Il dato più agghiacciante è infatti quello della percentuale delle donne che nel corso della loro vita hanno subito una violenza (una qualsiasi) in quanto donne. E questo dato è simile in tutto il mondo. cambia anche qui l’intensità. E’ più alto ovviamente nel Medio Oriente, in alcuni paesi Africani, nel Latino America, ma le donne non possono dirsi sicure in nessun posto al mondo.

Il punto su cui l’Onu si sta battendo, con campagne ad hoc e risoluzioni (anche molto importanti) è che solo l’equità di genere (con la conseguente fine della violenza di genere e del femminicidio) può portare a benefici globali e perché non anche alla crescita e alla pace. Tende a questo la risoluzione 1325, che pone la donna per la prima volta al centro del sistema. La donna è agente attivo per creare la pace e per garantire la pace soprattutto in quei paesi dove la pace ancora non è scoppiata e nei quali, guarda caso, le violenze, tutte le violenze, comprese quelle di genere, sono all’ordine del giorno. Occorre cambiare l’agenda del mondo e porre le donne dentro a questa nuova agenda, non come le vittime, ma come le protagoniste di un futuro nel quale femminicidio e violenza di genere, come si come la violenza in genere lascino il posto all’equità di genere, allo sviluppo e alla pace per tutti.

Una nuova cultura del femminile

Per fare questo occorre, con responsabilità, creare una nuova cultura del femminile. Campagne come “Un miliardo di persone danzano contro la violenza sulle donne” sono fondamentali, perché uniscono il globo con la danza aprendo gli occhi a tutti su un problema che, anche in Paesi come l’Italia, sono ancora sotto traccia. E non perché non se ne parli abbastanza, ma perché a cambiare deve essere la cultura. Tante volte si è detto che i maschi sono figli delle femmine. Il che è ovvio. Ma allora occorre lavorare proprio su questo. Sul rimuovere una volta per tutte l’invidia del grembo, ma anche sul rafforzare una nuova cultura del femminile. Partendo proprio dal marcatore della differenza più forte (e mettendolo in luce, parlandone, rimuovendone anche la paura e l’invidia da parte maschile), il grembo. Femminile significa accoglienza (dentro il proprio corpo), significa sfamare, crescere, accudire, dare alla luce, curare, con tenerezza e amore. Per costruire una nuova cultura del femminile occorre ripartire da qui, ma anche farlo fra donne (e con gli uomini). Occorre cioè ripristinare una genealogia al femminile. Solo in questo modo il mito della giovane donna vergine sottratta alla madre e portata via dall’uomo nero che la violenta e le toglie la voce negandone il nome e il volto si interrompere una volta per tutte. Le comunità al femminile che accolgono le donne che sono vittime di violenza dentro le mura domestiche sono un nuovo inizio per molte di loro. Occorre che questo modello di cooperazione e di sorellanza si espanda nella società e che tenda assieme anche gli uomini, inserendoli in un nuovo flusso di relazioni, nel quale le differenze di genere vengano rispettate per raggiungere un’equità di genere che è fondamentale. Occorre ripartire dal linguaggio, dal quotidiano, dal grembo, dal materno, dal giusto, solo in questo modo il tempo della differenza diventerà quello dell’uguaglianza. E in questo tempo la violenza di genere e il femminicidio non troveranno più alcuna collocazione.

In sintesi

1. La donna non deve avere voce, non deve esistere.

2. La donna è colpevole, perché seduttrice (Come era vestita quella sera?)

3. La donna è a responsabilità limitata (non deve uscire da sola la sera, non deve assumere potere, deve rimanere sotto la potestà del maschio dominatore) con le due conseguenze più lampanti: della violenza di genere, del femminicidio.

4. Le donne che vengono uccise in quanto donne subiscono oltre alla violenza, anche la violazione del proprio corpo, che   viene trafitto, sporcato, marchiato dalle botte, umiliato.

5. L’uomo usa violenza alle donne e le uccide in quanto donne per l’invidia del grembo?

6. Le donne sono state lasciate sole dallo Stato, dal Governo, dalla società.

7. Quando si allarga lo sguardo dal particolare al globale, allora la mattanza diventa violenza di Stato, violenza di massa.

8. Occorre ridare potere alle donne, tramite una nuova cultura del femminile e quindi della non violenza.  

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