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La nostra responsabilità verso il futuro. Su La scuola impossibile di Giulio Ferroni

In un tempo nel quale la complessità dei saperi sembra poter essere dominata solo da intere équipe, Giulio Ferroni è lo studioso che, due decenni fa, ha affrontato l’impresa di scrivere con le sole proprie forze una storia della letteratura italiana.

Con lo stesso solitario ardimento Ferroni si addentra in un tema forse meno vasto, ma non meno complicato, la scuola (per la seconda volta: l’aveva già fatto nel 1997 con La scuola sospesa), scrivendo un piccolo libro in cui «si parla di troppe cose», ma perché «riflettere sulla scuola […] equivale a pensare al destino del proprio paese, dell’umanità, del mondo; […] è qualcosa di tremendamente globale, che chiama in causa il senso e il valore della vita, le ragioni stesse del nostro essere al mondo, la cura dei propri figli e di tutto ciò che si ama».

Lo studioso sembra voler offrire la propria persona, la propria stessa ricerca solitaria, come concreto simbolo dell’ambizione eterna della cultura umanistica: essere la casa di un senso unitario, saper accogliere molti materiali affluenti, per sintetizzarli nella meditazione di un solo uomo, tenacemente aspirando alla totalità.

Nel libro si incontrano riflessioni sulla didattica, sulla formazione degli insegnanti, sulla politica scolastica, sui mutamenti culturali e sociali in corso (prima fra tutte la “rivoluzione informatica”), accompagnate da sparsi cenni autobiografici e notazioni quasi etnologiche (la vita scolastica verificata sulla precisa osservazione degli studenti che attraversano la città di prima mattina, l’immondizia abbandonata a Palermo come metafora dell’incuria civica e del degrado democratico): un discorso intessuto di riflessioni generali e dettagli particolari, di morali universali tratte dal racconto di fatti puntuali, recentissimi (sono costanti le citazioni dai giornali di ieri e dell’altro ieri, con un aggiornamento che si arresta solo con l’andata in stampa del libro).

Questo umanesimo di Ferroni è consapevolmente (ma non rassegnatamente) postumo. Come sappiamo da Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, è questa la postura interpretativa tipica di questo studioso. Qui, parlando di scuola, l’umanesimo viene usato come ultima resistenza, necessario (quanto più liquidato) contravveleno al presente e ad alcune sue cecità: l’astratta fungibilità di parole, cose, persino uomini, dentro un sistema che a tutto deve dare la sua razionale e non disfunzionale collocazione; lo schiacciamento delle prospettive di vita sul presente, la pura immanenza della nostra modernità. La scuola – una scuola intesa come luogo di cultura e d’intellettualità – dovrebbe opporre a tutto questo un’inesausta fiducia nella centralità delle discipline, affrontate nella loro concretezza e alterità.

Ferroni insiste molto sul primo di questi due aspetti: dalla letteratura, dalla storia, dalla geografia, ma anche dalle scienze (scienze e umanesimo non sono in opposizione, ricorda lo studioso: la scienza nasce dalla libertà di coscienza e dalla ricerca della verità, cioè dall’idea di dignità dell’uomo del Rinascimento), non si dovrebbero estrarre qualità astratte come le competenze (pertinente a questo riguardo il richiamo alle «Otto competenze chiave» proposte dall’Europa: competenze a metà strada tra la formalizzazione dell’ovvio e quella del general-generico); piuttosto, il loro studio dovrebbe essere uno scavo in profondità, nel corpo denso di ciascuna di esse, un corpo che è disposto nello spazio e nel tempo, i due fondamentali apriori di ogni conoscenza umana. Questo carattere di solida concretezza rende le discipline ardue, richiede una necessaria, lenta, paziente applicazione alla loro «alterità e resistenza (omologa, del resto, alla resistenza della realtà)».

Se nella Buona scuola è scritto che l’Italia avrebbe bisogno di docenti «che non insegnino solo un sapere codificato (più facile da trasmettere e valutare), ma modi di pensare (creatività, pensiero critico, problem solving, decision making, capacità di apprendere) e abilità per la vita e per lo sviluppo professionale nelle democrazie moderne» [cit. nel testo], Ferroni osserva che si tratta di «cose variamente importanti, queste (a parte la loro vernice di efficienza manageriale), ma che non mi pare proprio si possano acquistare attraverso corsi di pedagogia e di didattica e che possono soltanto scaturire dall’interno delle specifiche discipline, dall’esercizio vivo del loro studio: proprio arti, scienze, filosofia, nel loro adeguato approfondimento, nella loro pratica matura e critica, e non certo astratte elucubrazioni pedagogico/didattiche, possono svolgere dal loro seno, entro la propria stessa struttura, orizzonti problematici, aperture creative, abilità collaborative, ….».

Non è perciò un caso che Ferroni si intrattenga a lungo sulla “scuola 2.0”, una scuola, secondo il critico, ludica e plasmabile, che elimina la fatica dell’apprendimento e, per una fraintesa centralità del discente, enfatizza l’immediata prestazione, la scomponibilità e ricomponibilità del sapere (ricordando molto, in queste osservazioni, il noto pamphlet di Lucio Russo, La cultura componibile). Ferroni, pur riconoscendo l’utilità della connessione Internet a scuola e delle possibilità di accesso alle informazioni che la Rete mette a disposizione, è fermo nel dire che la didattica non può essere integralmente dedotta dalle nuove tecnologie.

Verrebbe da dire che Ferroni conosce forse poco le nuove tecnologie, o le ha osservate solo da fuori, da uomo di un’altra epoca, e che perciò, nonostante tutta la cauta disponibilità verso di esse, in fondo ne dà un’interpretazione riduttiva, come se tecnologia informatica significasse ipso facto videogioco (insistente la metafora dello studio come gioco disimpegnato garantito dai nuovi «gadget» e «apparecchi»). Verrebbe da dirlo, se non fosse che effettivamente non si contano ormai più, su giornali, social network, bocche di politici e di chiunque si senta autorizzato a discettare di scuola, le occorrenze entusiasticamente eccitate delle possibilità rivoluzionarie garantite dalle TIC alla didattica: abolizione dei vincoli spazio-temporali; abbattimento delle mura scolastiche, vera e propria prigione che separerebbe la scuola dal dinamico mondo intorno; ristrutturazione rivoluzionaria dei saperi che dematerializza confini e spessori (quella “resistenzialità” della realtà di cui parlava Heidegger); superamento definitivo degli ostacoli a un programmazione formativa individualizzata (sto citando a caso da un estratto riportato nel libro, che Ferroni trae dal sito ministeriale dell’Agenzia per l’Italia digitale).

Contro quest’enfasi rivoluzionaria, La scuola impossibile (Salerno Editrice, 2015, p. 123) predica un moderato buon senso, che per essere lontano dalla sovreccitazione non è però meno attivo e propositivo. Lungi dal difendere pratiche ingessate, ritualizzate e formulari nella didattica, Ferroni spende parole condivisibili sul sano approccio ai testi che lo studio della letteratura dovrebbe insegnare: «per una educazione alla parola non astratta, ma in atto, resta determinante il confronto con i temi e le situazioni delle letterature, con le dirette pratiche di lettura di opere relativamente complesse […]. Lettura di qualità, capace di mettere in gioco i sentimenti e l’interesse di vita dei ragazzi [e] base spontanea della formazione linguistica: lettura come esperienza diretta, non vincolata dall’ossessione dell’analisi e della scomposizione».

Oltre alla lettura, sul versante più propriamente attivo della didattica, Ferroni ricorda la centralità, anche psicologica, di due atti fondanti la conoscenza: la narrazione e l’argomentazione. Gli insegnanti dovrebbero fornirne agli studenti degli esempi alti, a partire dai quali essi possano esercitare la propria capacità di narrare e argomentare, curando la ricchezza della lingua, la capacità di usarla con chiarezza, proprietà, misura logica: lingua e parola intese come cardine dello scambio umano, «necessari fondamenti della democrazia», dotate di «forza di contatto e di scambio».

La scuola dovrebbe restare, insiste Ferroni, un presidio di cultura e democrazia – del nesso necessario tra di esse –, preservando quel tanto di alterità e resistenza al presente che consentono di osservarlo da una condizione di partecipazione estraniata, di interesse accorato ma non ciecamente sottomesso all’istante: questo lieve sfasamento rispetto al proprio presente può garantire una più completa aderenza ad esso – la scuola è un luogo di impegno civile, di azioni concrete, dentro la classe e nel territorio circostante – e la possibilità di covare un pensiero alternativo e utopico – la scuola è un luogo aperto a ciò che ha da venire. Ma, osserva Ferroni, «tutti cercano la scuola del futuro e credono di trovarla in una visione del futuro che è però solo il riflesso dell’immagine del presente: non il presente reale, ma quello sognato nei passati decenni della grande espansione delle società occidentali».

Ma il mondo di oggi non è quello immaginato allora; eppure la nostra visione del futuro sembra soffrire di inerzia:

cadute le utopie e le illusioni del Novecento, sembra che il mondo occidentale sia capace di proiettarsi solo verso un futuro che cancelli la crisi di inizio secolo e rimetta in marcia l’economia, con il sostegno di ulteriori novità tecnologiche, con un cauto controllo dell’immigrazione dal terzo mondo, con la neutralizzazione delle sempre più inquietanti minacce fondamentaliste: muovendoci tutti verso un irenico multiculturalismo e verso una generale espansione di diritti tra loro non conflittuali. Questa è una prospettiva implicita nella politica e nell’opinione pubblica di tutti gli schieramenti: implicita e automatica, soggiacente ad una sorta di “pensiero unico” non problematico, a cui rispondono iniziative e provvedimenti politici che mirano all’effetto mediatico e al consenso immediato (e in questo pensiero unico paradossalmente si inquadrano anche tutte le rabbie e i risentimenti, gli stessi umori dell'”antipolitica”, le tensioni anarchiche e sedicenti rivoluzionarie).

La storia, invece, non è finita, perché non ne è finita la conflittualità: sotto il velo del racconto edulcorato del nostro presente si nascondono le lacerazioni di sempre. La scuola di cui parlano le Otto competenze è una scuola pacificata e neutralizzata, il cui compito sembra essere quello, irenico, di fornire un giusto numero di conoscenze e capacità per essere cittadini e lavoratori felici: forse però al prezzo di operare una vera e propria “rimozione del trauma”.

La scuola, sembra dirci Ferroni, è il luogo dove si può continuare a elaborare quel trauma; non per contemplarlo come si contempla il proprio ombelico, ma per garantire alle future generazioni una comprensione del mondo all’altezza del difficile compito che spetta a ciascun uomo e donna: agire in esso.

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