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diretto da Romano Luperini

Pavese nell’oceano di Walt (passando per Spoon River): I mari del Sud

Pubblichiamo un estratto dalla Introduzione di A. Sichera a Cesare Pavese, L’opera poetica. Testi editi, inediti, traduzioni (Oscar Moderni Baobab Mondadori, 2021). Il volume, curato da Antonio Sichera e Antonio Di Silvestro con la collaborazione di L.P. Barbarino, M. Grasso, M.C. Trovato, E. Vitale, C. D’Agata e dotato di un ricchissimo apparato filologico, ricostruisce l’itinerario poetico di Pavese, dall’apprendistato, costituito da letture, traduzioni, rielaborazioni di classici, alla conquista di una voce lirica personale, debitrice a Whitman e Lee Masters, ma dotata di una cifra originale, realistica e mitica insieme. Si ringraziano la casa editrice e l’autore per la gentile concessione.

Nei primi mesi del 1930 Pavese prepara la tesi di laurea, intitolata Interpretazione della poesia di Walt Whitman. La tesi viene repentinamente respinta dal professore di letteratura inglese, Federico Olivero, trovando accoglienza, grazie ai buoni uffici di Leone Ginzburg, presso il titolare della cattedra di letteratura francese, Ferdinando Neri, che la porta in seduta di laurea il 20 giugno, giorno in cui Pavese diventa dottore in lettere con il voto di 108/110. Ma non sono questi eventi esterni ad essere importanti per noi. A fare la differenza, a diventare evento – nel senso proprio di qualcosa di nuovo che ti raggiunge dal passato – sono stati per Cesare quei mesi di studio e di immersione totale, di lavoro «diurno e notturno» sulle Foglie d’erba. In quei lunghi giorni, curvo sulle Leaves,Pavese trasforma l’antica ammirazione per Walt in un’esperienza di ascolto, protesa verso una parola potente, inedita, spiazzante. Dopo gli anni della tradizione antica e di quella romantica, equilibrati e multiformi, e gli anni della decadenza, dello squilibrio lirico e interiore, oltre che dell’incontro con una conturbante modernità urbana, Pavese trova nella poesia di Walt il segreto di un’armonia profonda dentro la disarmonia e la contraddizione, considerate parti della vita stessa. È da qui che comincia a diventare un poeta, trovando dentro di sé un verbo e un ritmo, battendo una via nuova.

La via che Whitman indica al giovane Pavese è la via del racconto. Di una poesia come un racconto. Ma in verità non era il solo a proporgliela in quegli stessi mesi. In questo fatidico 1930, tra gennaio e febbraio, Pavese era riuscito ad ottenere finalmente una copia in lingua originale della Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters, un altro libro della nuova, grande letteratura americana da cui si sentiva intimamente colpito (e la corrispondenza con Anthony Chiuminatto, l’amico musicista suo consigliere linguistico e procacciatore di libri americani, è lì a dimostrarlo: «There in America you have poets like flies in summer […] a lot of other poets whose existence is entirely unsuspected here in Europe»). Per Pavese, Lee Masters è infatti uno dei «Midwestern geniuses» americani, e non per nulla a febbraio del 1931 proporrà ad Arrigo Cajumi, direttore de «La Cultura», un articolo intitolato Il villaggio americano,che nella sua versione finale sarà dedicato integralmente a Spoon River,con il corredo della traduzione di undici testi dell’Anthology. Anche negli epitaffi del brillante avvocato del Kansas, simili a una moderna Antologia Palatina,Pavese trova in verità una spinta fondamentale a fondere, in poesia, lirica e narrazione; a non esitare a dar vita poetica a dei veri e propri personaggi, protagonisti di una storia che i versi poi racconteranno, in maniera distesa e folgorante insieme. Si tratta, dal lato di Lee Masters, dei personaggi di un villaggio molto simile ai paesi di Cesare, una comunità in cui tutti si conoscono, le vite si intrecciano, gli elementi primari della socialità sono il vino, le carte, le donne, gli amori (e i tradimenti); un villaggio da cui magari un giorno qualcuno come Dora Williams può partire andando in giro per il mondo, ma al quale si resta legati per sempre come a un luogo sorgivo, dove la vita e la morte si dispiegano, dove si può disperare dell’esistenza, preferendo non nascere pur di sfuggire all’Ananke del ciclo vitale (è la storia di Elizabeth Childers), ma ci si può anche uccidere per amore, come fa Pauline Barret, involontaria eroina di un sommesso e quotidiano sublime.

In quei mesi decisivi, insomma, l’Anthology affianca idealmente le Leaves nella proposta di una poesia nuova eppure antichissima, se padre delle origini le era stato in fondo – e sia Lee Masters che Whitman ce l’avevano ben chiaro – il vate cieco cantore di Troia.Per Pavese l’idea del racconto avrà in quel momento una funzione terapeutica. Raccontare è infatti la prassi opposta rispetto al gemito, al lamento, al ripiegamento su sé stessi. Chi racconta non è centrato sui palpiti del proprio cuore ma su una storia di cui vuol far partecipi altri. Raccontare significa restituire ad altri un pezzo del mondo, configurarlo secondo un senso possibile. Perché il racconto inizia e finisce, non sopporta la sospensione, non accetta l’irrisolto. Esige in qualche modo rappresentazione e compimento. Ed è un fatto di comunità, un atto originariamente sottratto alle spire della letteratura. La sua natura è quella stessa della vita. Solo secondariamente la scrittura solitaria può assumere il racconto e modularlo secondo i propri canoni, in quanto l’accadimento del raccontare la precede e non può esserne succube.

In un tale contesto, la lezione di Whitman agisce da propellente, fornendo altresì un orizzonte ideale, un background totale, offrendo una cultura e un verso alla nuova stagione dell’apprendista ormai in procinto di farsi poeta. Ma che cosa trovava Pavese in Whitman di così rivoluzionario? Walt non era di certo il poeta primitivo che voleva sembrare. La lezione culturale e poetica del vecchio Occidente la conosceva bene. Né gli passava per la testa di tirarsi indietro davanti ad una modernità sempre più pervasiva. Solo che l’Ottocento americano, pensato e vissuto dal punto di vista del poeta delle Leaves,non conosceva la cesura del Romanticismo. Nella vecchia Europa, diventare moderni, in obbedienza all’atto di nascita firmato dai giovani di «Athenaeum» (la rivoluzionaria rivista berlinese dei fratelli Schlegel, attiva tra il 1798 e il 1800), significava tornare ai Greci, mettere fine dopo più di mille anni a quell’impasto tra logos greco e logos giudaico-cristiano su cui si era fondato fino ad allora l’Occidente. Solo i Greci erano ormai, all’alba del moderno in Europa, «Abgrund und Anfang»: fondamento e principio. Si dava inizio così alla modernità su una cesura. E su una scommessa. Che si potesse abbandonare l’orizzonte vitale in cui l’essere e il divino coincidevano, uscire da un Eden in cui la vita e la morte erano tutelate e custodite da un dio, per fronteggiare la caducità del tempo e la pressione del suo finire grazie alla potenza della poesia, installata come sentinella sulla frontiera del nulla (anche Shelley dimorava ovviamente su quel confine). Ecco, il punto era proprio questo: Walt Whitman era moderno, ma la modernità non la pensava così. Nei frammenti dei Prose Works tradotti da Pavese – che qui pubblichiamo per la prima volta – la sua prospettiva è molto chiara: «Perché torreggiano nel ricordo, sopra tutte le nazioni della terra, due terre particolari, minime in se stesse, eppure indicibilmente gigantesche, belle, pilonari? Giuda immortale vive, e la Grecia immortale vive». Questa convinzione del bardo americano comportava un atteggiamento molto diverso davanti all’esistenza, nei riguardi della vita.

Un esempio forse può aiutarci. Nel Porto Sepolto, libro inaugurale della lirica contemporanea in Europa, il poeta si trova a vegliare il corpo morto del compagno caduto. Ne viene fuori una lirica tragica e mirabile: «Un’intera nottata/ buttato vicino/ a un compagno/ massacrato/ con la sua bocca/ digrignata/ volta al plenilunio/ con la congestione/ delle sue mani/ penetrata/ nel mio silenzio/ ho scritto/ lettere piene d’amore// Non sono mai stato/ tanto/attaccato alla vita». La potenza dell’angoscia e la salvezza della poesia coesistono qui in una perfetta sintonia: siamo fuori dal giardino di Eden, la morte è ormai un evento orrido, ma la scrittura poetica la combatte e la affronta. Anche il soldato Whitman, durante la guerra americana, si trova a passare la notte accanto al corpo del compagno morto, ma la sua – in Vigil Strange I Kept on the Field One Night – è «Vigil of silence, love and death». Walt sceglie lui di sdraiarsi accanto al corpo del suo «comrade» e «sun», per passare «sweet hours, immortal and mystic hours»: dolci ore di cura dell’altro, di custodia e venerazione della sua carne, di gratitudine per la sua esistenza. Qui la morte non è una potenza contraria alla vita, bensì una fine naturale, piena di sentimento ma scevra di mestizia. Walt canta dimorando in Eden.

Il compito di una poesia che può ricominciare dal giardino delle origini è quello di abbracciare nel canto tutto il tempo, tutto lo spazio; di ospitare ogni uomo, integralmente, nel prato erboso delle Leaves. Senza cesure, senza fratture tra il tempo della vita e il tempo della morte, tra lo spazio dell’individuo e quello del cosmo, tra gli uomini e le donne, tra l’anima e il corpo, tra l’eros e lo spirito, tra la città e la campagna. Si tratta di accogliere la totalità dell’esperienza nel gesto della parola poetica, chiamata ad assolvere il compito affidato all’uomo da Dio, in Genesi: nominare il mondo. Qui infatti, contro Mallarmé, il nome vince sul suono, il significato prevale sul significante. Qui il poeta è l’eroe, il pioniere che non si innalza narcisisticamente sull’ordinaria esistenza né si isola in una sofferta diversità, ma annuncia la realtà (e non l’attesa) di un mondo integro e riconciliato: «Niente è mai veramente perduto o può essere perduto. Nessuna nascita, forma, identità, nessun oggetto del mondo» (Continuities).

Cesare respira e assorbe questo modello di poesia in quei mesi del 1930 in cui si lancia a capofitto nel mare delle Leaves in vista della tesi (senza mai dimenticare Spoon River). Il frutto di questa full immersion saranno I mari del Sud, la poesia collocata indelebilmente ‘in principio’ nella storia della scrittura di Pavese: «Camminiamo una sera sul fianco di un colle,/ in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo/ mio cugino è un gigante vestito di bianco/ che si muove pacato, abbronzato nel volto,/ taciturno. Tacere è la nostra virtù». La storia da cui tutto comincia è quella di un uomo diverso, un grande, un gigante nel fisico e nello spirito («gigante» è parola di Whitman) che una sera conduce in silenzio sulla vetta di un colle il ragazzo-poeta, in un’ascesa iniziatica che molto ha a che fare con la salita di Francesco (Petrarca) sul Ventoux, con il viaggio del pellegrino della Commedia (la salita non per nulla è anche «un’erta»), ma ancor più originariamente con la salita dell’uomo di Dio sul Sinai per ricevere le dieci parole di Yahweh.

Anche l’uomo gigante ha una rivelazione da annunciare a colui che lo ascolta intento e quasi ossequioso: bisogna partire, lasciare la terra e l’origine, lasciare le Langhe, affrontare il mondo, soffrirlo e goderlo e alla fine tornare, per potersi riappropriare in modo pieno e nuovo delle radici antiche: «e poi, quando si torna, come me, a quarant’anni,/ si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono». Per vent’anni (come il mozzo di Twenty Years di Whitman) il cugino ha viaggiato, ha fatto la guerra, ha solcato i mari del Sud, ha cacciato balene, ha avuto donne e compagni. Ora è per lui il tempo del nostos, in cui fissare le colline con lo sguardo dei villani e parlare lentamente, come se non fosse in verità un poliglotta, usando per scelta il dialetto dei contadini. Perché solamente chi parte può tornare, e tornando può ricomporre l’Eden: il viaggio nel mondo, nella modernità urbana, nella vita avventurosa non è il principio della perdizione ma la condizione della salvezza. Il sapere dunque salva: siamo agli antipodi dei Malavoglia.

Il cugino ragazzo, il poeta, ascolta e accoglie la rivelazione, e dal verbo scolpito del gigante vestito di bianco viene rimandato prepotentemente al proprio passato. Il passato recente: quello di un ragazzo che è arrivato in città e vive ora tra i lampioni beffardi un senso di angoscia e di inquietudine. Il passato remoto: il tempo dei suoi giochi di bambino, delle sue avventure di ragazzo tra lotte e arrembaggi, un tempo felice, ormai perduto eppure ora riportato in vita dal cugino gigante: «Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,/ quanto tempo è trascorso. E dall’ultima volta/ che sono sceso a bagnarmi in un punto mortale/ e ho inseguito un compagno di giochi su un albero […] quanta vita è trascorsa». Perché il ragazzo non può scordare di essere stato un infante e di aver ascoltato la storia del parente partito per i paesi lontani dalle donne che lo hanno portato in grembo: «Se n’andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne/ e lo dissero morto. Sentii poi parlarne/ da donne, come in favola, talvolta». Non può scordare che a suo padre già morto era arrivata una cartolina con gli auguri di buona vendemmia e solo lui aveva riconosciuto il sigillo del cugino in quel quadratino di carta spedito dai mari del Sud. E l’aveva staccato. E se l’era tenuto come un amuleto, come il segno di un legame, dell’avvento di un padre nello spirito che solo ora ritornava e gli indicava la via. La «forza che gli ha reso quest’uomo», che glielo ha restituito è, profondamente, la forza stessa del mito, di quelle storie come fiabe nelle quali solo lui ha creduto strenuamente, quasi consentendo il ritorno. È stata dunque la potenza del racconto a creare e a custodire il legame, a fornirgli un esempio di libertà, di silenzio, di indipendenza dal corpo della donna, di solitudine beatifica, di contemplazione e di azione, nel quale ora si specchia e al quale anela. Un esempio di integrazione e di rinvenimento di sé che rappresenta il contrario dell’effusione, fondato com’è sulla misura di una interiorizzazione profonda, di una reticenza mirata, di una «indicibilità di tutte le cose vissute», non per nulla già affermata dal Song più famoso di Whitman: «Ma quando gli dico/ ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora/ nelle isole più belle della terra,/ al ricordo sorride e risponde che il sole/ si levava che il giorno era vecchio per loro».

Nasce così il Pavese poeta, dalla nuova ermeneutica di un soggetto specchiatosi nell’America di Lee Masters e di Whitman. Per questo, dal 1930 in poi, il suo primo libro si costruirà sull’epurazione feroce e determinata delle parole chiave della preistoria decadente, come a rendere nuovamente vergine lo spazio semantico dei testi. Nel Lavorare stanca del 1936 non avranno più diritto di cittadinanza né l’«anima», né la «sofferenza» e men che meno il «dolore». L’eclissi totale del «desiderio» porterà con sé l’erosione del «tedio» e della «febbre». Com’è logico, l’«urlo» sparirà. Vi resterà significativamente solo la «gioia», ma una gioia mai reattiva e risentita. Una gioia infantile di gustare il mondo.

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