
Costruire miti per non capire il presente
Su queste pagine, abbiamo spesso parlato della mitologia tecnocratica che governa l’immaginario attuale dell’istruzione. Qui vorrei invece soffermarmi a riflettere sulla posizione opposta e complementare, la lode del buon tempo passato, a suon di “i ragazzi non studiano più”, “una volta i professori erano preparati”, “se prendevi un brutto voto poi a casa prendevi il resto, altro che avvocato!”.bbe
Quella di chi loda un generico passato è una postura mentale economica. In ogni campo, la laudatio temporis acti cancella ambiguità e dubbi, in nome di una granitica certezza, morale o culturale, dislocata in anni che furono. In genere, insegna Orazio, il laudator è animato da una nostalgia sua personale; il rimpianto della giovinezza. Direbbe Freud, la paura di morire.
Un simile atteggiamento gode oggi di grande popolarità. Il dibattito pubblico sull’istituzione scolastica e sull’educazione ne è quindi spesso preda, nel gioco di opposte polarizzazioni cui si espone chiunque tenti un confronto fra la scuola di ieri e di oggi, e un ragionamento sulla sua sfaccettata trasformazione.
Entro i ristretti limiti della mia esperienza, in queste righe vorrei provare a sottrarmi con onestà a questo riflesso condizionato per restituire alla scuola quel che le spetta – in termini di lode e di critica – in alcuni dei diversi presenti che ci ho vissuto.
Il pendolo impazzito della storia
Il percorso da una scuola in cui una maestra elementare (la mia) poteva tranquillamente menare i bambini deridendoli perché erano meridionali a quella in cui studenti e genitori, singoli o in gruppo, menano chi insegna è necessariamente ricco di contraddizioni. Battute a parte, alla scuola di me bambino e ragazzino si riconosceva a prescindere un potere indiscusso e un ruolo scoperto di selezione classista, prossimo al darwinismo sociale: che molto spesso si traduceva in autoritarismo.
Osservata da questa prospettiva, non c’è dubbio che la situazione odierna sia migliore. In particolare, la legge sulla trasparenza degli atti pubblici, introdotta nel 1990, ha assicurato responsabilità, diritti e consapevolezza, un tempo dimensioni inaccessibili. Per dire, la mia disastrosa maturità del 1981 (12 persone bocciate su 60 candidati) fu considerata “normale”, e nessuno di noi avrebbe comunque avuto il diritto di conoscere le motivazioni in base alle quali le docenti e i docenti della commissione (feroci e iniqui, sia agli occhi del ragazzo che ero che a quelli dell’insegnante che sono) assunsero decisioni che a noi parvero inconcepibili. Del resto, la stessa condizione di assoluta impunità era riconosciuta a chiunque insegnasse: forse a volte esisteva uno stigma sociale, ma non aveva in sé la forza della legge.
Anche l’approdo all’istituzione era chiaramente orientato a una selezione dura: esisteva già allora l’orientamento, sebbene nel percorso costituisse una dimensione quasi implicita, non un carrozzone come quello di oggi. Il “mio” scientifico, che oggi ha 11 sezioni, allora ne aveva 3, e non certo per ragioni legate alla demografia. La “migliore” era la sezione A, la “peggiore” la mia cara sezione C. Erano “migliore” e “peggiore” in virtù di due caratteristiche assolutamente oggettive: la presenza di un numero elevato, o al contrario basso, di docenti di ruolo (il precariato era grande anche allora, sebbene non tragico quanto oggi); e la conseguente continuità o discontinuità didattica. Non che di per sé queste fossero sempre condizioni sufficienti a decretare una cattiva istruzione, ma certamente la favorivano. Peraltro, per una classe piena di curiosità come la nostra, gli incontri con docenti precari e a volte improvvisati si presentavano anche come opportunità di crescita: la norma, infatti, era quasi sempre il nozionismo puro e semplice; l’eccezione era l’anticonformismo e l’originalità nell’insegnamento. Si trattava rigorosamente di una scuola dei contenuti, cui solo qualche volta l’apertura mentale e la personalità di chi insegnava conferiva umanità e spessore culturale. Del resto, chiunque abbia frequentato l’università negli anni Ottanta per poi insegnare sa bene che non esisteva la minima preparazione pedagogica e metodologica: si insegnava in virtù delle conoscenze acquisite. Punto. Diventati insegnanti in questo modo, nulla vietava che la passione personale e la curiosità facessero di un trasmettitore un comunicatore e un educatore; ma non era indispensabile né richiesto. Per molti aspetti, anche in quest’ambito l’oscillazione del pendolo della storia è stata amplissima, se è vero come è vero che la formazione di chi insegna è oggi dominata da temi e esperienze che poco o nulla hanno a che fare con quel che si insegnerà; e che, in uno spazio occupato in parte significativa dalle università telematiche, si può arrivare a insegnare senza aver vissuto alcuna reale esperienza di laboratori in presenza, formati tramite schermo e esperti di poco oltre a Padlet e Kahoot.
Peraltro, nell’ambito della relazione fra docente e studenti si assisteva spesso a paradossi il cui ricordo mi aiuta, di fronte alle esagerazioni del metodologismo contemporaneo. Ad esempio, non ho mai lavorato più inutilmente che con un docente di Storia, sedicente rivoluzionario, che affermava candidamente che Filosofia era una materia inferiore e la faceva spiegare a noi, a gruppi: esempio profetico di classe rovesciata. Né, al contrario, ho mai assistito a lezioni più coinvolgenti di quelle con la mia prof di letteratura, quasi esclusivamente frontali, dette e recitate in modo sublime.
Chi ha mangiato il tempo della scuola?
Trasparenza, partecipazione e diritti, ad esempio, sono oggi oggetto di frequenti strumentalizzazioni e forzature. La ricerca di un cavillo e di un errore formale inquinano le relazioni fra i soggetti coinvolti nel percorso formativo, e a farne le spese sono spesso proprio le persone in buona fede, magari preparate e colte ma non impeccabili nella compilazione dell’infinita onnipresente burocrazia; addirittura, è spesso proprio la paura del ricorso per motivi di forma a orientare decisioni e scelte un tempo – con tutti gli eccessi sottolineati in precedenza – determinate da competenza professionale e etica personale. La professione docente, su questo c’è poco da discutere, è stata avvilita da decenni di campagne di svalutazione degli statali fannulloni, con i famosi tre mesi di ferie e le poche ore di lavoro. Effetti non meno profondi producono quotidianamente le semplificazioni sulla nostra professionalità, tese da una parte a svilire il valore delle conoscenze (un tempo centrali se non esclusive, oggi secondarie se non residuali); dall’altra a fare di chi insegna un tuttologo, un acrobata in precario equilibrio fra didattica, psicologia, pedagogia. La figura, per intenderci, che i futuristi entusiasti definiscono “coreografo” dell’insegnamento.
Questa realtà conduce dritto dritto alla laudatio, In una scuola votata ai “come” e priva di dubbi sui “perché”, si fa presto a diventare un Seneca inconsapevole. Ancor più quando la grancassa dei media esalta le magnifiche sorti e progressive, per bocca di tanti Giulio Verne a bordo dell’astronave dell’intelligenza artificiale.
Buone ragioni per assumere quest’atteggiamento nascono anche dal sentimento del tempo che si trascorre a scuola, e per la scuola. Il presente ne determina spesso l’erosione, la sua continua invasione (pensiamo soltanto alla degenerazione della comunicazione, causata dalla moltiplicazione di gruppi, indirizzi, account e password) fino al legittimo dubbio spesso angosciante sul futuro, che si dovrebbe chiamare pensione. Il passato remoto è invece l’epoca in cui potevi andare in pensione a 40 anni, evenienza possibile fino al 1995, e in genere i tempi della scuola erano del tutto differenti. Al di là di qualsiasi intenzione o valore statistico, le parole che sento pronunciare più di frequente in riferimento all’esperienza del tempo vissuto a scuola e per la scuola, sono saturazione, parcellizzazione e improduttività. Non poche colleghe e colleghi arrivano ad affermare che il tempo scorre con un ritmo familiare soltanto una volta chiusa la porta della classe, come se si entrasse in un mondo diverso; mentre fuori dall’aula governano logiche di frenesia, asservimento alla burocrazia, autoreferenzialità, non di rado insopportabili. Non è difficile individuare momenti e cesure determinanti, in questo cambiamento. Almeno due di esse meritano una citazione esplicita: la prima è la legge 103/ 2008 (la cosiddetta “Legge Gelmini”) che riconducendo a 18 ore tutte le cattedre si traduce nella più grande campagna di licenziamenti di lavoratori nella storia repubblicana, producendo effetti disastrosi nel rapporto fra insegnanti e studenti e peggiorando in misura sensibile la qualità del sistema pubblico di istruzione; la seconda è il PNSD (Piano Nazionale Scuola Digitale), inserito nella cosiddetta “Buona scuola” (legge 107/ 2015), che stabilizza la dipendenza dell’istruzione italiana dai dettami tecnocratici europei, rafforzando la presenza e il controllo esercitato dalle tecnologie, nella gestione e nelle procedure di ogni singola azione legata all’insegnamento. Una dipendenza che la pandemia, l’esperienza della didattica a distanza e l’acritico (ingenuo?) entusiasmo con il quale tante persone che insegnano accolgono le novità tecnologiche alla moda sembrano aver reso irreversibile.
Il muro e lo specchio
Infine, il tema del rapporto fra la scuola, intesa come universo a sé stante, e il mondo che la circonda costituisce un terreno di esplorazione intellettuale ricchissimo. In questa sede, penso possa rivestire un’importanza particolare, perché si tratta di una prospettiva molto più larga e articolata delle altre cui ho fatto riferimento. Per questo, fornisce qualcosa di più che informazioni e dati spesso contraddittori; addirittura, può dare indicazioni per una lettura complessiva di quel che sta accadendo alla scuola e alle persone che ne fanno parte.
Senza coltivare l’ambizione di restituirne la complessità, mi è sufficiente immaginarmi nel decennio per il quale, se attivassi la lettura nostalgica del passato, dovrei provare affezione e rimpianto: i “mitici” (parola chiave in questo processo logico) anni Settanta. Ma i primi riferimenti significativi che mi tornano in mente non descrivono affatto un’istituzione da rimpiangere, un luogo di giustizia e di crescita per tutte le persone; al contrario, parlano di una scuola feroce soprattutto con i più deboli, incline all’autoritarismo più duro, tesa a creare conformismo e obbedienza. Sono gli argomenti di molti testi di diversa natura che caratterizzano l’ultima epoca di una cultura popolare davvero vicina a un sentire popolare, come ha scritto Goffredo Fofi in “Zone grigie”. In Italia, ad esempio, sono i temi cui diede grande diffusione lo sceneggiato televisivo “Diario di un maestro” (1972) o la canzone di protesta, di cui è efficace esempio “Baradel” di Enzo Maolucci (1976). Oppure, per citare prodotti popolari di fama mondiale, caratterizzati da una forte valenza di critica sociale, canzoni come “School” (Supertramp, 1974) o opere come “The wall” (Pink Floyd, 1979). Vi si parla della necessità di liberare l’istituzione dalla sua vocazione classista e autoritaria, tesa a riprodurre e giustificare l’ordine esistente e le gerarchie di potere. Le motivazioni di questi discorsi sono lontanissime dai luoghi comuni e dalle semplificazioni ideologiche, e appaiono indirizzate a realizzare valori etici di rispetto, libertà di scelta, e una soggettività intesa non come arbitraria affermazione di sé ma come diritto a un’uguaglianza sostanziale fra persone che nascono e vivono in condizioni estremamente differenti e ambiscono a emanciparsi dalla loro sottomissione o inferiorità.
Osservate con la lente del presente (che allora, occorre ricordarselo bene, era una promessa di futuro), queste motivazioni sono ancora valide, e ancora fondate le ambizioni di liberazione che le sostengono. Se mai, convivono oggi due estremi che a tante e tanti di noi non sembrano conciliabili: da una parte, la sentita esigenza di inclusione, democrazia, condivisione che animava il dibattito pubblico sulla scuola degli anni Sessanta e Settanta non è per niente sopita, pur avendo raggiunto notevoli risultati negli scorsi decenni; dall’altra, quest’esigenza è sotto il pesante attacco di un lavoro politico e culturale (quello del neoliberismo trionfante) che trasforma l’inclusione in individualismo, la democrazia in forma vuota, la condivisione in conformismo. Da questa contraddizione stridente nasce il senso di smarrimento così diffuso nella scuola presente, e la ricerca di luoghi reali e simbolici in cui difendere un’identità costituzionale e etica che a tanti appare misconosciuta. Ne deriva una scuola alla disperata ricerca di identità reali, non mitologiche, come le persone che ci lavorano.
In questa prospettiva di analisi, è possibile indicare alcuni possibili snodi storici e culturali che rendano ragione non di un cambiamento semplice e univoco (dal meglio al peggio o viceversa), bensì di un percorso confuso e ambiguo nei suoi aspetti esteriori ma profondamente coerente nella sua dinamica profonda.
Il primo è certamente il trionfo del capitalismo e del mercato, nel puro stile Margaret Thatcher, attraverso la negazione della società e l’affermazione dell’individualismo: un fenomeno che in Italia si può osservare in modo nitido nel passaggio della produzione televisiva da una logica di servizio pubblico a quella di un medium commerciale. Il secondo è la scomposta reazione della sinistra sociale, ugualitaria e del lavoro, convertitasi a forme di liberismo economico spinto e al mito del profitto: anche in questo caso, con il conseguente abbandono di una visione di servizio pubblico a favore di una logica aziendalistica (che ha già prodotto effetti catastrofici nell’ambito della sanità pubblica, e promette di ottenerli anche nell’istruzione, nel passaggio in corso fra la cosiddetta “autonomia scolastica” e l’asservimento della scuola ad un’idea di lavoro e produzione puramente mercantile).
Di fronte all’eventualità che la scuola diventi vettore di uguaglianza e democrazia reale, credo si possa dire che il potere politico e economico ha imparato la lezione: sconfitto nello scontro di classe degli anni Sessanta e Settanta, costretto a concedere spazi di libertà e partecipazione, agisce per riprenderseli in forme diverse, per svuotarli dall’interno. Vale, qui, ciò che scrive Bruno Betthelheim sulla società dei consumi in “Il cuore vigile”, ragionando sulla sua esperienza nei campi di lavoro nazisti: il consumismo è un nuovo totalitarismo, che ottiene con la dolcezza e la pervasività della pubblicità quello che i nazisti ottenevano con la violenza.
Nella scuola accade la stessa cosa: il potere non si protegge più con un muro che separa due parti della società, ma con il narcisismo, l’individualismo e la competizione, pubblicizzate come l’unico modo di essere nel mondo moderno e civile. Per questo, l’istituzione scolastica porta in sé segni contrastanti: le dinamiche di democratizzazione e l’ampliamento del diritto di accedere ad essa e di prendervi parte attiva si accompagnano a crescenti manifestazioni di intolleranza reciproca fra i soggetti che vi partecipano e di isolamento di ciascuno di essi; il senso di precarietà aumenta in tutte le sue componenti, e soprattutto nel progressivo impoverimento dei salari di docenti e lavoratori della scuola, da una parte, e dall’altra da una pervasiva debolezza psicologica delle persone giovani, sapientemente coltivata dalla cultura del trauma e della sofferenza psicologica; si allargano dunque i conflitti interni alla comunità educativa, mentre al muro che un tempo divideva scuola e mondo si sostituisce, spesso in modo subdolo, un processo di rispecchiamento di logiche e dinamiche esterne ad essa, interessate e mosse da un’idea di crescita che ha a che fare con l’economia, piuttosto che con la cultura e l’istruzione.
La buona scuola si vede dai bagni
Leggere questi cambiamenti senza essere semplicistici o faziosi, tenendosi lontano dall’esaltazione di un passato mai esistito come dall’adesione fideistica a un futuro tanto assente quanto pubblicizzato sarebbe già un grande risultato. Confrontarsi sulla scuola che esiste davanti ai nostri occhi renderebbe certamente più difficile il lavoro degli attuali decisori politici, che non sono persone di scuola e non credono alla scuola della Costituzione.
Questo ritorno al presente dovrebbe partire, credo, dalla dimensione materiale della vita delle comunità scolastiche. Dalla constatazione della condizione miserevole dello stipendio di chi lavora a scuola, a cominciare dalla scelta di pagare poco o nulla chi insegna nei primi gradi dell’istruzione, dove si costruiscono le basi per qualsiasi sapere autentico e radicato. Dalla condizione spesso vergognosa degli edifici scolastici, con il paradosso – mai abbastanza rimarcato – di luoghi abitati dai totem tecnologici del futuro in cui le persone non hanno spazi per sé e fanno i loro bisogni in cessi sporchi e malfunzionanti. Dalla scelta di mantenere una quota rilevantissima di precariato: persone spesso costrette spesso a lasciare la loro casa per lavorare, cui lo Stato per mesi non paga lo stipendio. Dalle guerre fra i poveri sul mercato della formazione, ormai largamente dominato da soggetti privati cui lo Stato riconosce diritti e privilegi; persone che dopo aver pagato per anni le tasse universitarie pagano per frequentare corsi che forse ci saranno e forse no, e chissà quando e come.
Di fronte a questa realtà materiale, certe discussioni sul passato e sul futuro si mostrano per quel che sono: un tentativo di far credere che sia possibile costruire una scuola libera e democratica senza prima aver cambiato il mondo che, ieri come oggi, la vuole schiava e classista in una società di sfruttati inebetiti dalla pubblicità.
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Caporedattore
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Editore
G.B. Palumbo Editore
lascio un commento perché ho sempre amato e amo ancora( pur essendo in pensione da circa vent’anni)la scuola,direi in modo totale e oggi più che mai la considero unico presidio contro la barbarie che sempre più sembra invaderci. Il panorama scolastico offre luci e ombre: luci vivissime, ombre troppo soprattutto grigio conforme. Proposta : rilettura approfondita di Maria Montessori per migliorare una scuola che sia veramente una “Comunità Educante”
Sono ormai tredici anni che sono in pensione e guardo al passato con occhi, orecchie e bocca non prendendo atto di un presente che oltre a non piacermi lo considero un frutto avvelenato da forze politiche che hanno ingannato e turlupinato il popolo italiano. Per me SCUOLA è POLITICA e un buon insegnante dovrebbe battersi per ripristinare in questo paese la DEMOCRAZIA asservita ad una oligarchia fatta di finti economisti, psicologi e chiacchieroni di ogni genere che masticando un po’ di inglese pensano di aver conquistato il mondo. Resto del parere che un insegnante di scuola per studenti dai sedici anni in poi deve principalmente amare la sua materia deve pretendere la libertà di insegnamento come enunciato dagli art.33 e 34 della COSTITUZIONE e insegnare oggi avendo un abbonamento con un valido studio legale perché molte delle iniziative dei DS sono fuorilegge.