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Modernismo, avanguardie, antimodernismo

La categoria di modernismo

La categoria critica di “modernismo” è segnata ancora, come si denunciava già trent’anni fa, da vaghezza e ambiguità(1). Ma se da un lato manca della precisione di altri “ismi” a cavallo fra Ottocento e Novecento, dall’altro però ha avuto così grande fortuna nella cultura anglo-americana, e successivamente, sulla sua scorta, nella critica continentale europea, da divenire ormai «inevitabile» (2).

Bisogna notare intanto che il termine viene oggi usato perlopiù in una accezione nuova e autonoma rispetto a quella originaria. Esso risale a Rubén Darìo che lo impiegò per la prima volta alla fine degli anni ottanta dell’Ottocento per indicare il programma letterario promosso da lui stesso e da un gruppo di poeti latinoamericani. In seguito anche ai viaggi di Darìo in Spagna, il movimento si diffuse nella letteratura di questo paese protraendosi sino alla prima guerra mondiale. Ma si tratta di una tendenza profondamente legata alla cultura decadente e al simbolismo francese “fin de siècle” e dunque non assimilabile a quella che noi oggi chiamiamo con lo stesso nome. All’inizio del Novecento il termine si diffuse, soprattutto in Italia, per indicare un fenomeno religioso che intendeva conciliare evoluzionismo e cattolicesimo e che perciò fu condannato come eretico da papa Pio X nel 1907. Infine la critica degli anni trenta chiamò “modernismo” il movimento letterario di avanguardia attivo a Lisbona intorno a Pessoa e alla rivista (effimera, peraltro) «Orpheu» alla metà degli anni dieci e fiorito in Brasile negli anni venti, a partire dalla Settimana d’arte moderna di Sâo Paulo nel febbraio 1922. Come si vede, sono fenomeni diversi fra loro, di natura letteraria o religiosa, che, oltre al nome, peraltro significativo perché allude a un rinnovamento, hanno in comune il dato cronologico: risalgono tutti al periodo a cavallo fra Otto e Novecento o all’inizio del nuovo secolo.

Nella cultura angloamericana il termine “modernismo”, anche se era apparso già negli anni venti, si è affermato soprattutto a partire dagli anni sessanta (3), in riferimento a fenomeni diversi rispetto a quelli appena nominati (solo quello portoghese vi può parzialmente rientrare). All’inizio si è parlato di “modernismo” in relazione al radicale bisogno di svecchiamento e di fondazione del nuovo rappresentato in Gran Bretagna dall’imagismo di Ezra Pound, dal vorticismo e dall’esperienza artistica degli «uomini del 1914»: oltre allo stesso Pound, T.S. Eliot, Joyce e Lewis. A questi quattro sono stati poi aggiunti altri, fra cui soprattutto Virginia Woolf. Successivamente il termine si è diffuso, ha riguardato anche altre letterature in ambito europeo ed extraeuropeo, sino a riguardare, negli studi più recenti, una prospettiva addirittura planetaria(4). Ma tale estensione, provocata anche dall’uso attuale di un’altra categoria periodizzante, postmodernismo, che lo evoca dialetticamente come inevitabile termine di raffronto, non ha giovato alla chiarezza, per cui oggi si parla spesso di modernismo in modo indeterminato e quindi non senza imprecisioni e confusioni.

Anche lasciando per ora da parte la questione del rapporto fra modernità e modernismo o modernismi, e limitandosi all’ambito letterario, si devono constatare una serie di oscillazioni. A volte infatti si usa “modernismo” per indicare un generico contenitore cronologico, anche se marcato da un qualche rinnovamento, che comincerebbe nel secondo Ottocento con il simbolismo e il decadentismo o addirittura col naturalismo e si prolungherebbe poi sino all’inizio degli anni trenta o sino allo scoppio della seconda guerra mondiale; altre volte si identifica invece modernismo e avanguardia facendo coincidere il primo con i gruppi più radicali e oltranzisti (dal futurismo al dadaismo e al surrealismo) del primo quarto del Novecento; infine, altre volte ancora, il termine viene usato per designare indirizzi e singoli autori innovativi del primo Novecento, ma estranei e talora ostili alle avanguardie.

In merito a questo arco di problemi le proposte che seguono vorrebbero avanzare, in modo sintetico e molto schematico, qualche precisazione e proposta.

Modernismo, avanguardie, antimodernismo

Il modernismo non è una scuola né un movimento unitario. Non propone una unica poetica, ma poetiche diverse, talora tra loro alternative come accade nella letteratura inglese, in cui alle soluzioni più radicali dell’avanguardia (imagismo, vorticismo ecc.) e poi dello sperimentalismo di Joyce si oppongono quelle più moderate di Virginia Woolf e del circolo di Bloomsbury (5).

E tuttavia, nonostante questa varietà di poetiche, il modernismo presenta alcune marche caratterizzanti che lo rendono indubbiamente riconoscibile. La cultura a cui si ispira è sostanzialmente unitaria: è la rivoluzione epistemologica prodotta, a cavallo fra i due secoli e all’inizio del nuovo, dalla rapidissima industrializzazione, dalla nuova percezione della condizione umana nel mondo, dalla diffusione del pensiero di Nietzsche, di Bergson e di Freud. Il concetto di tempo e di spazio, le leggi della fisica, l’idea di verità ne escono sconvolti: la rivelazione della relatività da un lato e del mondo dell’inconscio dall’altro, la messa in discussione della certezza dei postulati scientifici, la percezione nuova della velocità delle comunicazioni e della simultaneità delle sensazioni (è l’epoca dell’automobile, dell’aereo, del cinema, del telefono, della radio) mettono in crisi i parametri della visione del mondo predominante nella seconda età dell’Ottocento e del pensiero positivista che vi esercitava una indubbia egemonia. La seconda rivoluzione industriale che si sviluppa fra il 1895 e il 1913, la valorizzazione delle macchine, la introduzione del motore a scoppio e la diffusione dell’elettricità, l’aumento gigantesco della produzione, la formazione di grandi società per azioni, la rapidissima urbanizzazione, la massificazione dell’esistenza, l’esperienza della “guerra totale” fra il 1914 e il 1918 modificano il senso comune e logorano le basi del sistema dei valori e dello stesso individualismo ottocentesco. Siamo in presenza di un rapido cambiamento di paradigma e della nascita di una nuova cultura e persino di una nuova antropologia, che tendono inevitabilmente a sviluppare nuove forme artistiche. Debenedetti mostrerà in modo suggestivo la correlazione fra le nuova teorie dei quanti e del probabilismo scientifico e le trasformazioni che avvengono nella struttura del romanzo e nella figura del personaggio-uomo. E Virginia Woolf , riflettendo sull’effetto sconvolgente delle mostre di pittura postimpressionista, scriverà che intorno al 1910 «la natura umana cambiò »(6). Se l’idea matura di moderno coincide, come vuole Jauss, con la coscienza di una radicale separazione dal passato(7), questo è appunto il momento in cui essa perentoriamente si definisce.

Il modernismo esprime l’affermazione piena del moderno nel campo delle arti, dall’architettura (art nouveau) alla letteratura, dalla pittura (espressionismo, futurismo, cubismo…) alla musica (fra la violenza politonale di Strawinskij e l’atonalità e la dodecafonia di Schömberg). «Make it New!» è l’ingiunzione notissima di Ezra Pound (8). E d’altronde la progressiva affermazione del moderno era già stata segnata dal primato dell’oggi, dall’esigenza di «trouver du nouveau» e di essere «absolument modernes», già enunciata da Baudelaire e da Rimbaud. Ma quanto nella seconda metà dell’Ottocento era coscienza di una élite ora diventa esperienza condivisa di larghe masse. Ciò corrode alle basi qualsiasi possibilità di privilegio aristocratico, ponendo fine all’estetismo decadente “fin de siècle”. L’indifferenza con cui il fante Umberto Saba guarda d’Annunzio in visita alle truppe, vestito fuori ordinanza ed eccentricamente accompagnato da un enorme attendente (9), è il solco che divide non solo due generazioni, ma anche due modi di concepire la vita e la letteratura (ma a questo proposito sarebbe istruttivo anche un confronto fra le poesie di guerra di Rebora e di Ungaretti e le prose dannunziane sullo stesso argomento). La nuova arte nasce insomma “democratica” (in senso, beninteso, non politico, ma, per così dire, sociologico).

La prima frontiera che il modernismo traccia alle proprie spalle è dunque quella contro l’armamentario ideologico dell’estetismo, del simbolismo e del decadentismo europeo. Fare il nuovo significa anzitutto ribellarsi contro la cultura artistica della generazione precedente, ormai avvertita come anacronistica. In sede critica assumere consapevolezza di tale rottura non può che comportare una revisione del concetto di decadentismo di derivazione sia idealistica che marxista molto in uso nella tradizione storiografica italiana, sino alla recente Storia europea della letteratura italiana di Asor Rosa (10). In questa visione storiografica il decadentismo non è un movimento di fine secolo, ma una tendenza che, partendo da Fogazzaro Pascoli e d’Annunzio, e passando poi attraverso Pirandello e Svevo, giungerebbe in pieno Novecento, sino all’ermetismo, a Montale, a Gadda, a Moravia e alla narrativa di analisi fra anni trenta e cinquanta. Credo che sia giunto il momento – e su questo punto mi pare possibile registrare un accordo sempre più vasto – di delimitare i confini del decadentismo, la cui area cronologica coincide in realtà, in Italia, con gli anni che vanno da Il piacere (1889) ad Alcyone (1904), da Myricae (1891) a i Poemi conviviali (1904) e non può allargarsi a opere come Il fu Mattia Pascal o I colloqui, La coscienza di Zeno o Ossi di seppia. Fra l’estetismo dannunziano del «Verso è tutto» e l’elogio sveviano della letteratura come igiene quotidiana o addirittura come clistere c’è una distanza siderale. I tre pilastri ideologici del decadentismo − estetismo, simbolismo, concezione protagonistica della figura del poeta in senso civile e/o profetico-oracolare − sono sostanzialmente estranei all’atmosfera culturale del modernismo. Anche nel Regno Unito, per esempio, fra la stagione di Walter Pater, Charles Swinburne e Oscar Wilde da un lato e quella di Eliot e Joyce dall’altro la rottura è evidente. E per quanto riguarda i limiti cronologici, in Francia, in cui il termine “decadentismo” originariamente si diffuse, si cominciò a parlarne a proposito di un sonetto di Verlaine del 1883 e poi della rivista parigina «Le Décadent» del 1886, mentre il romanzo che ne consacrò la poetica, À rebours di Huysmans è del 1884; ma all’inizio del Novecento, con Apollinaire e le avanguardie, con Gide e con Proust ne siamo già fuori.

Una seconda frontiera è nei confronti del naturalismo, sentito come espressione del positivismo e come manifestazione di una concezione della realtà “borghese”, conformistica, gerarchica, troppo schematica e sostanzialmente aproblematica. Il paradigma della oggettività scientifica si sbriciola. Realtà e verità si soggettivizzano, diventano problematiche. Questa seconda frontiera, anzi, è più facile da tracciare dell’altra giacché inconciliabile con le premesse culturali della nuova tendenza, mentre il decadentismo, con le sue suggestioni intimistiche e psicologiche, poteva offrire anche alcuni interessanti punti di riferimento. Ma è vero poi che anche la narrativa naturalista e realista, con la sua scelta di vedere il mondo dal basso e per la sua stessa pretesa di visione totalizzante, poteva a sua volta costituire un punto di partenza, come mostrano in Italia il debito di Tozzi e Pirandello verso Verga e nella letteratura inglese quello di Joyce verso Flaubert (non solo nei Dubliners ma anche, come ben vide Pound, nell’Ulysses) (11). In Italia la ininterrotta polemica dei poeti crepuscolari, vociani e lacerbiani, ma anche del primo Montale, contro la figura del poeta vate, contro i poeti laureati e le “tre corone” di fine secolo e il nuovo sistema linguistico e tonale da loro inaugurato (assolutamente non scolastico e del tutto estraneo alla cultura greco-latina dei predecessori) esprimono non solo un salto generazionale, ma un orizzonte artistico antitetico rispetto a quello “fin de siècle”.

I caratteri di questa rottura sono stati da subito evidenti, se sin dagli anni trenta e quaranta del Novecento grandi critici come Debenedetti (nei saggi giovanili su Proust e su Svevo) e Auerbach nell’ultimo capitolo di Mimesis li tracciano con indubitabile sicurezza. Da un lato l’opera aperta o opera da farsi, lo sciopero dei personaggi, la fine del personaggio-uomo, il trionfo dei brutti e degli inetti, lo scrivere non per spiegare la realtà, ma perché non si può spiegarla, le epifanie e le intermittenze del cuore, il romanzo come susseguirsi di esplosioni, anzi come esplosione di esplosioni (12). Dall’altro l’importanza che viene ad assumere l’attimo qualunque della vita quotidiana, la nuova centralità del frammentario, del caso, dell’accidente fortuito, la scomparsa delle grandi svolte della storia e dei colpi del destino, il poliprospettivismo, la interiorizzazione dell’ottica narrativa, la ricostruzione della realtà oggettiva attraverso un susseguirsi di impressioni soggettive…(13) Debenedetti e Auerbach, senza parlare ancora di modernismo, ne delineano perfettamente, almeno per quanto riguarda la grande narrativa europea, temi, forme e visione del mondo.

Ma anche nella poesia lo spartiacque col passato è segnato dall’oltrepassamento del simbolismo e dal rifiuto di una sacralità orfica e oracolare ormai avvertita come inattuale e persino regressiva. Il superamento del soggettivismo e del simbolismo verso il correlativo oggettivo è passo decisivo della poetica di Eliot, mentre Yeats raggiunge la maturità lasciando alle spalle l’estetismo romantico e tardosimbolista della sua prima produzione per una poesia che può oscillare fra un realismo persino prosastico e una apertura fantastica alla impersonalità del mito e della «great memory» del mondo. Ma anche in Italia, quando elementi simbolistici rimangono (non solo in Ungaretti, poniamo, ma anche in Marinetti), essi si accompagnano a una democraticità del tutto nuova di tono e di linguaggio (in Ungaretti) o a un furore demistificatorio che mira a colpire al cuore la poesia stessa (in Marinetti). In Montale poi, nella parabola stessa degli Ossi di seppia, il simbolismo coincide con un panismo dannnunziano ormai sentito come improponibile e dunque da “attraversare” e da oltrepassare in forme che tendono già, nelle ultime composizioni del libro, all’allegorismo e alla fermezza classica delle Occasioni.

Si capisce dunque che la categoria di “modernismo” non può essere usata in senso puramente cronologico, come se si trattasse di un generico contenitore privo di identità (14). Piuttosto le va conferito un preciso valore critico periodizzante e caratterizzante. Non copre solo un periodo, ma indica la tendenza principale che lo qualifica, comportando dunque un criterio di inclusione e di esclusione. Da questo punto di vista, a suo confronto altre categorie periodizzanti risultano sfuocate o inadeguate. Non solo, come si è visto, quella di decadentismo, ma anche quella che spesso ne ha preso il posto, con la definizione del primo Novecento come “l’età delle avanguardie”.

L’avanguardia è la variante oltranzista del modernismo. Ne fa parte, nasce dalla stessa cultura, ma non lo qualifica in modo esclusivo. Fra gli autori dell’avanguardia e quanti, pur partecipando dell’atmosfera culturale e dello sperimentalismo modernisti, si dichiarano a essa estranei o ostili si registrano differenze notevoli in ordine almeno a tre punti decisivi: il modo di concepire il lavoro letterario e artistico, l’idea di tempo, il rapporto con la tradizione. Molti scrittori modernisti non ne vogliono sapere di scrivere manifesti, non operano in gruppo, non accettano di considerare l’arte come provocazione e di schierarsi esplicitamente e rumorosamente contro il pubblico borghese, ma lavorano in disparte e talora quasi isolati dal contesto sociale. Inoltre, e soprattutto, come già fece notare Peter Bürger (15), mentre l’avanguardia mette in discussione l’istituzione stessa dell’arte mirando a sabotarla o a dissolverla nel mondo della prassi, le altre tendenze moderniste rimangono al suo interno. Per quanto riguarda il tempo, Compagnon(16) ha mostrato la differenza fra quanti ne hanno una concezione intermittente o seriale e quanti invece ne propongono una genetica o dialettica, fra quanti non credono al progresso e non investono sul futuro e quanti invece pensano di interpretare meglio di altri il senso della storia e di porsi alla testa di questo processo. Mentre poi futuristi, dadaisti e surrealisti mirano a distruggere musei e tradizione per esaltare il presente o per registrare automaticamente gli strati profondi della psiche, una parte considerevole dei modernisti stabilisce un rapporto complesso con alcuni filoni del passato culturale talora recuperati polemicamente. Si pensi, per fare qualche esempio, al saggio sulla tradizione di Eliot e al suo recupero dei poeti metafisici in opposizione a quelli romantici. Ma anche in Italia, mentre i frammentisti vociani rifiutano il flusso narrativo del romanzo o della novella identificandoli come generi di consumo borghese e proponendo una frantumazione narrativa o, al massimo, la formula della autobiografia lirica, Tozzi, Pirandello, Svevo operano invece un rinnovamento dall’interno dei generi letterari tradizionali. E più tardi Montale, rifacendosi a Foscolo e alla lezione dantesca, si cimenterà in un classicismo modernista capace di coniugare nettezza e austerità dello stile e ricorso alla tecnica della rivelazione epifanica, mentre Ungaretti si ricollegherà alla linea Petrarca-Leopardi ibridandola con la lezione non solo di Mallarmé ma dei barocchi (Góngora soprattutto).

Contraddizioni esistono non solo dentro il modernismo, ma fra il modernismo nel suo complesso e chi vi si oppone. L’età del modernismo è dunque anche quella dell’antimodernismo. Alcune tendenze antimoderniste fronteggiano apertamente e polemicamente il modernismo, altre convivono al suo interno, intrecciandosi con esso. Particolarmente nel periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale si sviluppa nelle arti un movimento che si oppone tanto alle innovazioni e allo sperimentalismo formale quanto al cosmopolitismo dei modernisti, proponendo misura, decoro, senso dello stile e soluzioni legate a un classicismo tradizionale o al carattere nazionale di una letteratura ispirata al realismo e alla materia popolare. E’ il rappel à l’ordre nella letteratura francese, ma aspetti di questo tipo si trovano anche in Germania nelle tendenze antiespressioniste presenti nella «Neue Sachlichkeit», o , in Italia, nella difesa dello stile, della misura classica e della prosa d’arte da parte della «Ronda», o successivamente nelle proposte populiste e strapaesane del «Selvaggio». Forse ancora più interessante però è la convivenza nello stesso autore di tendenze moderniste e antimoderniste. E’ il caso di Saba, per cui già Montale parlava di un «classicismo sui generis» o «paradossale» (17). Chi leggesse Storia e cronistoria del «Canzoniere» potrebbe addirittura pensare che Saba vada annoverato tout court nell’antimodernismo per la sua fedeltà alla tradizione e per la sua radicale opposizione non solo alle avanguardie ma all’ermetismo. Come è noto, Sanguineti vedeva in lui, nel suo linguaggio poetico ispirato a un classicismo minore e al romanticismo del melodramma verdiano, un esemplare tipico del conservatorismo antimodernista, salvandone tuttavia le supposte premesse crepuscolari (18). In realtà le cose sono più complesse e il tentativo di fornire col Canzoniere una sorta di romanzo autobiografico e freudiano ha indubbiamente un segno sperimentale e modernista, anche se filtrato da una poetica antimodernista e declinato in forme meno innovative di quelle cui fanno ricorso Montale o Ungaretti.

Modernismo, protomodernismo, neomodernismo

Il modernismo, non essendo una scuola, non ha confini netti. L’area cronologica che ne viene caratterizzata più fortemente copre il quarto di secolo che va dal 1904-1905 al 1930 circa, con epicentro negli anni venti, quando in Gran Bretagna escono The Wast Land di Eliot, Ulysses di Joyce, To the Lighthouse di Woolf, in Italia, La coscienza di Zeno di Svevo e Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello (ma anche Quaderni di Serafino Gubbio operatore e la maggior parte dei racconti, che in questi anni vengono rielaborati e raccolti in Novelle per un anno), in Francia Les faux monnayeurs di Gide e gli ultimi volumi della Recherche proustiana, mentre in lingua tedesca vengono pubblicati Der Prozess e Das Schloss di Kafka e Berlin-Alexanderplatz di Döblin e vengono annunciati i primi due volumi di Der Mann ohne Eigenschaft di Musil che però usciranno solo qualche anno dopo. Ma in realtà il modernismo si prolunga sino alla fine degli anni trenta, sovrapponendosi e talora intrecciandosi a tendenze diverse, anche antimoderniste: Finnegans Wake, l’opera più coraggiosamente sperimentale di Joyce, è del 1939, anno in cui esce, in Italia, il capolavoro poetico del classicismo modernista, Le occasioni di Montale. Lo scoppio della seconda guerra mondiale e la nascita di una letteratura impegnata e neorealista segnano un confine, proponendo una figura diversa di intellettuale, una narrativa spesso ispirata a modelli ottocenteschi e una poesia epica e cronachistica.

Anche da questo sommario elenco si può osservare una diversa presenza di opere narrative e poetiche. Mentre nella narrativa il modernismo fornisce molti dei suoi risultati più nuovi e convincenti negli anni venti, in poesia si afferma immediatamente prima e durante la grande guerra con tendenze avanguardiste o comunque vicine all’avanguardia (si pensi al ruolo di Apollinaire in Francia, di Ungaretti con Allegria di naufragi in Italia, di Trakl e Benn in Germania); invece, negli anni venti e trenta la ventata rinnovatrice viene spesso a patti con quella più tradizionale di matrice classicista e soprattutto simbolista o postsimbolista: in Italia è il caso, come si è visto, di Ungaretti e di Montale, ma soprattutto dell’ermetismo, in cui le pur presenti venature surrealiste sono spesso sopraffatte da un petrarchismo di ritorno. Più in generale, il modernismo nel suo complesso appare diviso in due fasi: mentre la prima va dagli inizi del secolo alla fine della prima guerra mondiale, la seconda copre gli anni venti e trenta. Nella prima prevalgono le tendenze distruttive e avanguardiste, nella seconda sono maggiormente attive quelle ricostruttive. Ebbene, questa nuova situazione sembra giovare soprattutto alla narrativa che può recuperare negli anni venti la propria vocazione al flusso narrativo e alla totalità, dissolta dalle avanguardie a vantaggio del frammento, seppure declinandola ora in strutture narrative radicalmente nuove che possono avvalersi delle precedenti esperienze di rottura.

In diverse situazioni nazionali è possibile anche identificare un’area protomodernista attiva già negli anni novanta dell’Ottocento, ma capace di prolungarsi a volte sin dentro il nuovo secolo. Si tratta di una produzione talora di alto valore, a metà strada fra vecchio e nuovo, fra decadentismo e/o naturalismo da un lato e rottura novecentesca dall’altro, fra senso aristocratico di decadenza e impegno analitico, fra conservazione delle strutture tradizionali e loro rinnovamento dall’interno. Penso in Italia ai primi due romanzi di Svevo, all’Esclusa di Pirandello o a Decadenza di Gualdo, in cui affiorano già le figure e le situazioni della narrativa modernista, ma declinate ancora nelle strutture narrative del romanzo psicologico di fine Ottocento. Nella letteratura in lingua inglese si è parlato giustamente di protomodernismo per James e Conrad (19). Ma la nozione di protomodernismo potrebbe forse risultare utile anche per inquadrare la figura di un grande autore di fine Ottocento, Anton Čechov, in cui la svalutazione della trama, dell’azione e dell’intreccio, la creazione di una letteratura di atmosfere e di stati d’animo, la dissoluzione della parabola narrativa e del valore della conclusione convivono con una rappresentazione in qualche misura ancora realistica di una piccola borghesia frustrata e umiliata.

Accanto a un’area protomodernista va segnalata poi un’area che del modernismo riprende e continua la lezione nella seconda metà del Novecento. Si entra qui nel territorio della tradizione del modernismo che dura sino a oggi e appare anzi particolarmente attiva nel romanzo americano dell’ultimo trentennio. C’è tutto un filone della narrativa statunitense – da American Pastoral di Roth a Flesh and Blood di Cunningham − che sembra voler unire realismo e modernismo nella rappresentazione delle classi sociali e del rapporto fra le generazioni, ispirandosi nel contempo a Balzac e Flaubert e a Virginia Woolf, Faulkner o Proust. Ma si può anche individuare un momento preciso in cui la ripresa del modernismo è stata apertamente teorizzata e praticata da movimenti artistici e da singoli autori. Mi riferisco al periodo che va dalla metà degli anni cinquanta alla metà dei settanta. E’ il momento delle neoavaguardie e, insieme, come all’inizio del secolo, di uno sperimentalismo che in esse spesso non si riconosce o che le contrasta e che tuttavia porta avanti un progetto fortemente innovativo. Abbiamo così, negli Stati Uniti la beat generation; in Italia, le esperienze del Gruppo 63 da un lato e di «Officina» e del «Menabò» dall’altro; in Germania e in Austria la “poesia concreta” e quella elettronica e asemantica, il Gruppo di Vienna e quello di Graz; in Francia il «nouveau roman”, «Tel Quel» e l’Ouvroir de littérature potentielle. E’ anche significativo che questa tendenza, che è possibile definire neomodernismo (19), si sviluppi, come era successo all’inizio del secolo, in coincidenza con una nuova rivoluzione industriale, che segna gli anni del “miracolo economico” e dell’affermazione del cosiddetto neocapitalismo, e con l’insorgere di processi sociali di proletarizzazione e di sovversivismo del ceto intellettuale e con la diffusione di una nuova cultura (in campo letterario, soprattutto dello strutturalismo). In Italia autori come Volponi o Amelia Rosselli, che pure non hanno mai aderito alle neoavanguardie, in tale prospettiva possono acquistare una diversa luce. Ma anche Zanzotto nella Beltà o il Calvino degli anni sessanta reagiscono in modi diversi, ma comunque sperimentalmente innovativi, all’atmosfera culturale dominata dalle neoavanguardie.

In questo periodo, in alcuni paesi, come l’Italia, l’egemonia culturale esercitata dalle avanguardie organizzate produsse conseguenze anche in campo critico e storiografico, annebbiando retrospettivamente i contorni reali del modernismo storico, letto riduttivamente come “età delle avanguardie”. Risale a tale riduzionismo (già è stato accennato) l’interpretazione di Svevo e di Pirandello come autori di avanguardia frontalmente contrapposti a una supposta “barriera del naturalismo” e quella di Debenedetti come critico della avanguardia (laddove è piuttosto il critico del modernismo). Oggi, fuori ormai da tale egemonia, è possibile rileggere la storia letteraria e artistica del primo Novecento in una prospettiva nuova, più aderente ai processi reali e più capace di valorizzare l’ampiezza e la variegata ricchezza di stimoli e di proposte che il modernismo introdusse nella cultura europea.

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NOTE

Questo articolo riproduce la relazione di apertura al convegno sul Modernismo organizzato dalla associazione Sigismondo Malatesta a Sant’Arcangelo di Romagna nei giorni 30 e 31 maggio 2014.

    1) Mi riferisco a M.H. Levenson, A Genealogy of Modernism. A Study of English Literary Doctrine1908-1922, Cambridge University Press, Cambridge 1984, p. VII. Sulla storia del termine si vedano G. Cianci, Modernismo/Modernism, in Modernismo/Modernismi. Dall’avanguardia storica agli anni Trenta e oltre, a cura di G. Cianci, Principato, Milano 1991 e soprattutto, aggiornati sino quasi a oggi, i saggi di L. Somigli, Dagli “uomini del 1914” alla “platenarietà”. Quadri per una storia del concetto di modernismo e di A. Nucifora, Note sul modernismo angloamericano, entrambi in «Allegoria», XXIII, 63, 2011.

    2) L. Somigli, Dagli “uomini del 1914” alla platenarietà, cit., p. 7.

    3)  In genere si considera come punto iniziale del rilancio della categoria di “modernismo” il saggio di H. Levin, What was Modernism?, in Refractions. Essays in Comparative Literature, Oxford University Press, New York 1966 (ma il saggio era già uscito in «Massachussetts Review», August 1960).

    4) Cfr. S. Stanford Friedman, Planetarity: Musing Modernist Studies, in «Modernism/Modernity», XVII, 3, 2010, p. 471-499.

    5) Cfr. G. Cianci, Il modernismo e il primo Novecento, in Storia della letteratura inglese, a cura di P. Bertinetti, vol. II: Dal Romanticismo all’età contemporanea. Le letterature in inglese, Einaudi, Torino 2000, pp. 176-180.

    6) V. Woolf, Mr.Bennet and Mrs Brown, in Collected Essays, Chatto & Windus, London 1966, vol. I, p. 321.

    7) H. R. Jauss, Literarische Tradition und gegenwärtiges Bewusstsein der Modernität, in Lteraturgeschichte als Provocation, Surkamp, Frankfurt am Main 1970, trad. it. Tradizione letteraria e coscienza contemporanea della Modernità, in Storia della letteratura come provocazione, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 37-98.

    8) E. Pound, Make It New, Faber & Faber, London 1934.

    9)U. Saba, Tre ricordi del mondo meraviglioso, in Tutte le prose, a cura di A. Stara, Mondadori, Milano 2001, p. 495.

    10) A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, vol. III: La letteratura della nazione, Einaudi, Torino 2009, pp. 207, 217, 238 e 241 (in cui peraltro l’aggettivo del titolo, «europea», risulta dal contesto alquanto incongruo). Asor Rosa parla di un decadentismo che arriverebbe «in pieno Novecento» e che riguarderebbe Svevo, Pirandello, Tozzi e anche Moravia, Palazzeschi, Savinio, Bontempelli, toccherebbe Gadda e si prolungherebbe addirittura sino ad alcuni aspetti di Calvino. L’uso estensivo della categoria di “decadentismo” risale, in Italia, soprattutto alla critica marxista fra anni cinquanta e inizio settanta, e in particolare a C. Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano (D’Annunzio, Pascoli, Fogazzaro e Pirandello), Feltrinelli, Milano 1960 e a A. Leone de Castris, Il decadentismo italiano. Svevo Pirandello D’Annunzio, De Donato, Bari 1974 (poi Laterza, Roma-Bari 1989).

    11) Sull’asse che congiunge L’éducation sentimentale e Ulysses ho parlato in più riprese in R. Luperini, L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale, Laterza, Roma-Bari 2007, in discussione con F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal «Faust» a «Cent’anni di solitudine», Einaudi, Torino 1994, che mostra il ruolo di Pound nel rapporto Joyce-Flaubert. Ma sulla relazione fra naturalismo e modernismo scrive cose molto acute P. Pellini, In una casa di vetro. Generi e temi del naturalismo europeo, Le Monnier, Firenze 2003, pur attribuendo al naturalismo un valore modernista che mi sembra inaccettabile. Per quanto riguarda la narrativa modernista e il suo rapporto con la tradizione del realismo ottocentesco, cfr. anche G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Il Mulino, Bologna 2011.

    12) Sul rapporto Debenedetti-modernismo cfr. M. Tortora, Debenedetti, Svevo e il modernismo, in Per Romano Luperini, a cura di P. Cataldi, Palumbo, Palermo 2010, pp. 281-302.

    13) Sul rapporto Auerbach-modernismo, cfr. R. Castellana, La teoria letteraria di Erich Auerbach. Una introduzione a «Mimesis», Artemide, Roma 2013, pp. 83-92 (ma di Castellana, cfr. anche Realismo modernista. Un’idea del romanzo italiano(1915-1926), in «Italianistica», XXXIX, 1, gennaio-aprile 2010, pp. 23-44).

    14)A. Compagnon, Les cinq paradoxes de la modernité, Seuil, Paris 1990, trad. it. I cinque paradossi della modernità, Il Mulino, Bologna 1993, p. 70.

    15) P. Bürger, Theorie der Avantgarde, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1974, trad. it. Teoria dell’avanguardia, Bollati Boringhieri, Torino 1990.

    16) A. Compagnon, Les cinq paradoxes de la modernité, Seuil, Paris 1990, trad. it. I cinque paradossi della modernità, Il Mulino, Bologna 1993, p. 70.

    17) E.Montale, Umberto Saba, in Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996, vol. I, p. 118.

    18) E. Sanguineti, Saba e il melodramma, in «L’ombra d’Argo», II, 1985, 5-6, pp. 80-87 e cfr. anche Umberto Saba, in Poesia italiana del Novecento, a cura di E. Sanguineti, Einaudi, Torino 1969, p. 781.

    19) R. Donnarumma, Tracciato del modernismo italiano, in Sul modernismo italiano, a cura di R. Luperini e M. Tortora, Liguori, Napoli 2012, pp. 35-38. Donnarumma parla per la situazione italiana di “secondo modernismo” e più raramente di “neomodernismo” datandolo fra il 1964 e il 1980.

    20) Esemplari in tal senso due libri di uno dei principali teorici e critici della neoavanguardia, R. Barilli, La barriera del naturalismo, Mursia, Milano 1964 e La linea Svevo-Pirandello, Mursia, Milano 1972.

 

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