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diretto da Romano Luperini

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Poesia e scuola. Qualche fotogramma

Non credo di essere in grado, oggi, di proporre un discorso compiuto e analitico sull’argomento che è stato proposto. O, più esattamente: non credo di averne voglia; e penso che la mia riluttanza stia nel fatto che ogni discorso troppo compiuto su un simile argomento finisce per ricadere in quel genere di ragionamenti un po’ stantii che spesso si fanno, animati da ottimi sentimenti e intendimenti, sulla scuola e sulla didattica dell’italiano. Con il risultato che uno incomincia ad ascoltare o a leggere, e quasi subito avverte un vago senso di fastidio e di asfissia. Si può fare poesia a scuola? Evidentemente sì, e del resto, come ha osservato una volta Edoardo Sanguineti, la scuola è forse l’ultimo luogo in cui la poesia sopravvive e si tramanda: la poesia del passato (immaginiamo che non esistesse la scuola: chi leggerebbe ancora, per dire del più immenso autore, Dante?) e anche quella del presente. La questione allora sarà: come leggere la poesia, cioè come innescare un rapporto vero tra il testo e il giovane lettore? Ebbene, io non credo che a questo interrogativo si possa dare una risposta tecnica o didattica; non credo che i metodi di analisi o i piani di lezione siano il cuore del problema, e non credo che l’eventuale difficoltà degli studenti (che è poi quella degli adulti, i quali hanno con la poesia un rapporto anche più tiepido e sporadico) dipenda da un difetto di strumentazione o da una carenza metodologica. I metodi d’indagine e le tecniche analitiche sono cose necessarie, si capisce; ma prima deve scattare una scintilla, prodursi un piccolo o grande corto circuito, rivelarsi un orizzonte. Dopo, solo dopo, ci si mette in cammino come esploratori.

Allora, invece di un discorso, proporrò alcune immagini, o meglio alcuni fotogrammi ritagliati dalla pellicola troppo lunga e imperfetta della mia esperienza di insegnante.

  1. Valentina era una studentessa del primo anno di liceo che andava male in tutte le materie. Era composta, attenta, ordinata: ma andava male. Probabilmente studiava o provava a studiare a casa; ma otteneva comunque pessimi risultati, e dava l’impressione di non capire il senso di ciò che studiava. Ma soprattutto: era triste. Era tristissima: aveva la faccia come chiusa, la bocca piegata all’ingiù, lo sguardo perso. Se le chiedevo come stava mi diceva: “bene, grazie” e sembrava dire il contrario. Se le chiedevo di spiegarmi come mai le cose andavano male mi diceva che non lo sapeva, e che comunque lei stava bene. E invece non stava affatto bene; io pensavo che fosse al liceo non per sua scelta, ma per obbligo familiare; ma neppure su questo punto riuscivo a convincere Valentina a dirmi qualcosa. Taceva, aveva la faccia triste, e andava sempre peggio.
    Poi un giorno ho proposto un esercizio non molto originale. Avevo probabilmente cominciato a spiegare qualche aspetto del linguaggio poetico: cos`è un verso, come si contano le sillabe, cos’è un sonetto; e poi avevo chiesto agli studenti di provare a scrivere un sonetto. Che sarebbe stato imperfetto, si capisce, ma loro non dovevano preoccuparsi; anche zoppicanti, i loro endecasillabi li avrebbero aiutati a capire qualcosa del linguaggio ritmato. Intanto che loro ci provavano, io giravo a vedere cosa scrivevano. E Valentina aveva cominciato così:

    Io sono
    come
    una foglia

    Magari Valentina aveva letto qualcosa di Ungaretti, chissà; ma di certo io devo aver pensato che anche in questo caso Valentina non aveva capito molto delle mie spiegazioni, se invece di un verso più o meno endecasillabo proponeva versicoli. Tuttavia, un po’ per inerzia un po’ per curiosità, non le ho detto nulla, e l’ho solo incoraggiata a continuare. Dopo dieci minuti, aveva scritto:

    Io sono
    come
    una foglia
    gialla
    che tutti
    calpestano

    Allora le ho chiesto, molto colpito, se quello che stava scrivendo fosse un’invenzione fantastica oppure… Non ho finito la frase; lei mi ha guardato, ha scosso la testa, e ha cominciato a piangere. Ha pianto disperatamente per qualche minuto, in silenzio. Poi si è scusata, e ha cominciato a parlare, raccontandomi di sé.
    Ogni tanto la incontro, a distanza di anni; è diventata un’infermiera, gentile, simpatica, molto estroversa; ride sempre, mi saluta tutta contenta. E ogni volta mi chiedo: perché quel giorno è successa quella cosa? Perché finalmente si è messa a parlare e mi ha permesso di aiutarla? Forse doveva capitare; forse è stata una coincidenza. Ma forse, mi dico, il grimaldello è stato quell’esercizio, ossia la ricerca di una parola svincolata dalla quotidiana orizzontalità comunicativa, e affidata invece alla profondità del ritmo, alla solitudine della pagina. Forse, quell’iosono iniziale, e la similitudine successiva, hanno schiuso a Valentina delle porte interiori, conducendola fino alla coscienza di quel che tutti calpestano, che pulsa dolorosamente come un’improvvisa verità rivelata. Se questa ipotesi non è del tutto sbagliata, e non credo che lo sia, il fotogramma di Valentina dice qualcosa di molto importante; dice cosa può essere, cosa deve essere la poesia per il lettore. Del resto: chi sta leggendo queste osservazioni è probabilmente un lettore di poesia. Perché abbiamo cominciato a leggerla? Cosa abbiamo trovato di tanto importante, di tanto bello in quest’arte che a molti sembra ridicola? Io credo: abbiamo trovato, proprio come Valentina, la coscienza di noi stessi, del nostro essere nel mondo. Se così non fosse stato, io non avrei mai, credo, perso tempo con le parole; e la letteratura, che oggi costituisce in larghissima parte la mia vita, sarebbe rimasta in sostanza per me lettera morta o semplice svago.

  2. Nella scuola dove insegno da molti anni, il Liceo di Lugano 1, invitiamo spesso scrittori, e soprattutto poeti, a incontrare gli studenti: a leggere qualche testo, a raccontare se stessi e la loro esperienza, a rispondere alle domande dei ragazzi. Lo facciamo da anni, a noi sembra con notevole successo. Una volta il poeta invitato era Gianni D’Elia, che ha cominciato il suo ragionamento in modo provocatorio. Ha detto che se la scuola si occupasse della cosa davvero importante, più importante di ogni altra, cioè se la scuola perseguisse una educazione sentimentale degli studenti, la poesia sarebbe la materia centrale; ma siccome la scuola sta diventando sempre più tecnica e asservita ai voleri di una società impietosa, la poesia è sempre più emarginata. In buona sostanza, ha concluso, vi hanno rubato la poesia. Molti degli studenti presenti sono stati toccati da queste parole, e dal tono appassionato di Gianni; e uno di loro ha alzato la mano, e ha chiesto: ma noi, cosa possiamo fare? Gianni ha risposto di non avere una risposta assoluta; però, ha aggiunto, ti consiglio di fare come ho fatto io: scegli un libro di poesia, che però deve essere un grande libro. Per me è stato Les fleurs du mal di Baudelaire, ma ce ne sono molti altri; scegline uno, e leggitelo tutto, per conto tuo, d’un fiato, lasciandoti catturare dalla poesia. Poi, vedrai le cose in un altro modo. Io, che stavo accanto a lui e che con lui ero d’accordo, ho aggiunto un sola cosa, che forse un insegnante farebbe bene a non dire: che quel libro, soltanto quello, soltanto una volta nella vita, io suggerivo di rubarlo in una libreria, per dare più importanza alla cosa. Rubare un libro per leggerlo davvero: sarà contro la legge, ma secondo me non è un male. Qualche tempo dopo, una ragazza è entrata in aula e mi ha detto: l’ho fatto. Hai fatto cosa, ho risposto, dal momento che mi ero dimenticato della mia incauta battuta. Come cosa? Ho rubato un libro. Le ho chiesto allora quale: era la grande raccolta di Baudelaire. Però la ragazza ha voluto precisare: che non l’aveva rubato per sé, dal momento che lei la poesia la legge già molto e volentieri. No, aveva rubato quel libro per regalarlo a suo padre, che invece non leggeva poesia. Questo fotogramma dice un’altra cosa, che non starò neanche a esplicitare: se uno la capisce, bene, se no peggio per lui. Ma è una cosa bella, allegra e piena di speranza.

  3. Ogni tanto, se devo parlare di poesia a scuola (al Liceo, ma anche alla scuola media o all’Università) ricorro a un piccolo trucco. Recito, con un pochino di enfasi, i primi due versi dell’Infinito di Leopardi, che di solito tutti conoscono. Li dico adagio, intensificando le armoniche lente dei versi, i suoni nasali e insomma suggerendo l’onda ritmica che li conduce. Poi chiedo: che strumento musicale scegliereste per fare la colonna sonora di questi versi (o anche solo del primo)? In tanti anni, mi sono stati proposti sempre e soltanto due possibili strumenti: o l’oboe, o il violoncello. Bene: ci ragiono un po’ su, cerco di far capire a chi mi ascolta le ragioni e le conseguenze di una simile opzione musicale. E poi annuncio la recitazione di una delle molte traduzione francesi del primo verso, che dal punto di vista linguistico è ineccepibile, e che leggo (imbrogliando un poco) con un tono diverso dal precedente, quasi da rapper:

Sempre caro mi fu quest’ermo colle

Toujours il me fut cher ce coteau solitaire

A questo punto, di solito tutti ridono o sorridono. Perché ridete? chiedo allora; la traduzione non contiene errori, eppure vi fa ridere. E questo dipende dalla cosa più importante e meno facilmente definibile del linguaggio poetico; cioè da quello che possiamo ancora chiamare ritmo, ma che non è più il ritmo della metrica o delle quantità sillabiche. È un ritmo di profondità (la réthorique profonde di cui parlava Baudelaire), che imprime alle parole di una poesia un accento unico, e nel contempo sempre diverso per ogni lettore e per ogni lettura (ad alta voce o mentale). Il ritmo emotivo, la risonanza interiore che ogni elemento del testo (lessico, sintassi, metro, prosodia, ecc. ecc.) contribuisce a creare è come la corrente di un grande fiume, che sembra immobile all’occhio eppure scorre con forza; è come il vento, che non vediamo ma sentiamo. E questo appunto è il carattere più significativo della poesia; se uno studente ride di fronte al verso francese così giusto e così sbagliato, vuol dire che ha capito ciò che più conta; e si tratta ora di illuminare questa intuizione, di renderla cosciente. Come ho detto, di solito quasi tutti ridono: mi pare un buon segno anche questo. E dopo, ma solo dopo, si può anche parlare di metrica.

Non vorrei infatti, con questi tre fotogrammi, aver dato l’impressione di sottovalutare o addirittura di disprezzare lo studio tecnico del linguaggio poetico; non è affatto così. Come per suonare uno strumento si deve acquisire, spesso in modo faticoso, una tecnica, così per leggere e capire la poesia bisogna conoscere bene o abbastanza bene alcune caratteristiche di quest’arte, e questo richiede lavoro, studio, esercitazione. Ma, soprattutto: curiosità. Il punto è qui, mi pare: uno studente curioso ha tutte le capacità per capire quasi ogni cosa; ma se non scatta la scintilla della curiosità, cugina della necessità e dello stupore, l’apprendimento diventa faticoso.
In ogni modo, per le questioni tecniche non dirò nulla di particolare; se non che due libri, tra la pletora di materiali scolastici esistenti, mi hanno in questi anni davvero colpito positivamente. Il primo è di Gian Mario Villalta, Il respiro e lo sguardo. Un racconto della poesia italiana contemporanea (Rizzoli 2005); non l’ho mai adottato a scuola, per due ragioni: perché ad un certo momento era difficile trovarlo (non so adesso come vanno le cose), e inoltre perché, occupandosi appunto di poesia contemporanea, mi sembrava difficile farlo acquistare agli studenti (tanto più che Villalta in questo libro parla anche di me, e la cosa mi avrebbe messo in imbarazzo); però l’ho letto bene io, e ho scoperto che il percorso dell’autore è parallelo al mio. Un giorno un mio amico che fa il farmacista mi ha chiesto se potevo suggerirgli un libro per capire la poesia, e gli ho passato questo. Ce l’ha ancora lui, quindi ne sto parlando a memoria. Però anche questa cosa: un farmacista che vuole capire la poesia, mette un po’ di allegria, o no? Il secondo libro è un saggio scritto da Roberto Galaverni, che oggi è se non sbaglio introvabile. Si intitola Il poeta è un cavaliere Jedi e immagino che un titolo del genere avrà fatto arricciare molti illustri nasi accademici. A me già il titolo invece è parso notevole; un libro così posso consigliarlo anche a uno studente; tanto più che dopo il titolo Galaverni parla di cose molto importanti e molto giuste, riferendosi alla grande poesia europea del XX secolo.

Ho scritto queste osservazioni nell’arco di qualche settimana; e in mezzo, proprio questa mattina, sono stato invitato in una scuola media a Chiasso, e dialogare con una settantina di studenti di III, cioè di 14 o 15 anni. Erano, si vedeva, ben preparati, avevano letto e discusso qualche poesia con i loro insegnanti; in ogni modo, sono rimasti lì due ore, ad ascoltarmi e ad interrogarmi. Dei tre fotogrammi che ho qui riassunto, ho usato il primo e il terzo, tralasciando invece il secondo; e aggiungendo altre cose che dovrei ancora rielaborare, più o meno sulla stessa lunghezza d’onda. Mi è parso un incontro molto riuscito, e spero che possa spingere questi ragazzi a leggere qualcosa per conto loro, e a chiedere agli insegnanti nuovi autori da leggere. A pranzo, un collega mi ha parlato di certi esercizi un po’ giocosi eppure serissimi fatti appunto con gli studenti a partire dalle parole; una ragazza, mi ha detto, che forse non era di solito bravissima in italiano, ha capito così bene il gioco sul linguaggio che un giorno è entrata in classe sorridendo, e ha detto: “buongiorno professore, oggi sono proprio contenta. Io soleggio!”. Questo non è proprio un fotogramma; ma è un buon modo per terminare, almeno provvisoriamente, con una nota di speranza.  

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