Il limite e il merito del 1968. Angelo Guglielmi su “L’uso della vita”/1
Caro Luperini,
Ho letto con gran gusto il tuo romanzo sessantottesco che ricostruisce vicende esaltanti che tutti noi, in ruoli diversi, abbiamo patito o goduto. Ma voglio dirti subito che ha un limite: quello di essersi attenuto, come tu esplicitamente ci fai sapere, al modello manzoniano del romanzo storico.
Il romanzo storico è a mio modo oggi irripetibile perché l’alternarsi di “fatti verificabili storicamente…a altri (quelli relativi alla vita privata dei personaggi) che invece sono frutto della fantasia” – come tu hai scritto – produce scompensi disturbanti, appartenendo a due livelli inconciliabili di azioni mentali.
La fantasia non è più realistica, ha perduto la credibilità del fatto accaduto e costringe lo scrittore a riparare in modelli narrativi consunti come la madre che agucchia serena davanti alla finestra e non fa mancare al figlio che ama la crostata di mele (o lo scaldino per i piedi nei giorni di freddo) o come la donna desiderata che tutta intelligenza e impegno civile diventa castrante per il compagno.
La fantasia con la crisi dell’idea di verità (un dato, nonostante Maurizio Ferraris, non rimuovibile) non è più competitiva con la realtà e rischia risultati artificiosi.
Non così la realtà storica proprio perché storica cioè appartenente alle cose accadute. Certo non basta che una cosa accada per essere reale ma non vi è dubbio che (quella cosa) é accaduta e se porta il segno dell’evento (e dunque conserva il linguaggio con cui è accaduta) allora può essere trasferita in scrittura mantenendo la sua credibilità.
Il merito del romanzo, che è grande, è di presentarsi come una cronaca e cioè di riferire dello straordinario sessantotto pisano (a Pisa) – quel entusiasmante incontro tra studenti e operai insieme impegnati nello sperimentare un nuovo uso della vita – rimettendone in scena con i loro veri nomi e cognomi i personaggi protagonisti (Adriano Sofri, Pietrostefani, Fortini, D’Alema, Giammario, Marcello, Ottavio, Sandra, Carla, Ilaria ecc..) e riportandone i documentatti pensieri ruoli e azioni, dalle occupazioni delle scuole e poi, a un certo punto, della stazione ferroviaria,alle manifestazioni che paralizzavano la città, alla risposta violenta della celere e dei carabinieri, agli scontri in difesa dei compagni arrestati, ai picchetti di fronte ai cancelli della Piaggio di Pontedera e delle altre fabbriche del circondario, all’esperienza del carcere, alle iniziative di disturbo davanti alla Bussola la notte di capodanno, e soprattutto ai dibattiti teorici (davvero inattesi) all’interno della Università o nelle case di questo o quel compagno, in cui si elaboravano e sostenevamo, sempre in nome della liberazione dal lavoro diviso e dal conformismo gerarchico, tesi e convincimenti diversi addirittura opposti tra chi riteneva che per il successo dell’azione era necessario programmazione e strategia e chi era a favore di sfruttare le opportunità del momento (senza prendere tempo), e prevedeva già la necessità del rovesciamento violento.
E’ per un lettore di oggi ancora trascinante (e illuminante per la comprensione di quegli anni) assistere alla protesta circospetta di D’Alema, all’irruenza oratoria di Sofri (e la sua famosa sentenza: “il problema non è porsi alla teste delle masse, ma essere la testa delle masse”), e il comportamento perlomeno riservato di Fortini che, sfidato a sporcarsi le mani, rispondeva (irato) che l’intellettuale impegnato a ipotizzare la possibilità dell’ “uomo nuovo” deve raccogliere la ricerca nell’ambito dello sue competenze di studioso più che nei picchetti davanti alle fabbriche.
Straordinario poi nel romanzo è la tonalità impressa al racconto di quel ’68 a Pisa (un episodio dei tanti in cui si manifestò il movimento in ogni parte del mondo) che, ancora oggi percepito come momento cupo e di distruzione anche per gli sviluppi che ne sarebbero seguiti, qui viene tenuto al riparo da ogni giudizio conclusivo e presentato come il teatro di una acquisita “leggerezza” che solo la sofferenza di alzarsi la mattina alle cinque per sorvegliare gli ingressi delle fabbriche in sciopero poteva garantire. E chissà (è il tuo sospetto) che non stia proprio in questa leggerezza “l’uso formale della vita” di cui tu riferisci in epigrafe e andava dicendo Fortini.
_________
NOTA
Questo articolo di Angelo Guglielmi è uscito sull’Unità del 12 Febbrario 2013.
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Editore
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romanzo storico come allegoria
Solo un appunto veloce: non condivido l’interpretazione di Guglielmi, che mi sembra gravata dalla durata residuale di un’ottica neoavanguardista, viziata da uno sperimentalismo pregiudiziale. Che impedisce al recensore di centrare il bersaglio. L’uso della vita è un ‘romanzo storico’ inevitabilmente attraversato, e produttivamente decostruito, da una profonda sedimentazione modernista. Le vicende personali del protagonista –tutt’altro che convenzionali: proiezioni, invece, di una condizione individuale emblematica- si integrano a quelle ‘pubbliche’ del Sessantotto pisano come l’altra faccia, o il cuore, la soggettività in cerca di forma – in cerca della vita, della sua intensità ‘predicabile’ – che, intersecandole, ne sviluppa e completa la conoscenza, ne risemantizza la cronaca, la riconverte in storia proprio attraverso la mediazione soggettiva di una Bildung nella quale era in gioco, appunto, come nella grande storia che la involgeva, il rapporto tra la vita e le forme. La vicenda individuale di Marcello – il conflitto col padre, il carcere, l’esperienza dell’eros, i turbamenti del vissuto – rovescia, nel rigore realistico dello stile, il paradigma dell’Erlebnis: non riconvoca, come Guglielmi sbrigativamente afferma, vieti modelli narrativi, ma tematizza quelli di fatto immanenti alla formazione della soggettività nel tempo storico raccontato – interrogato narrativamente – nel romanzo. Il percorso di Marcello verso l’uso formale della vita si attesta come l’altera facies di quello dei protagonisti storici evocati e affabulati. Anche per questo, o almeno per questo, mi sembra che il romanzo storico di Luperini non possa che essere letto –insieme ai due che lo hanno preceduto- come un romanzo allegorico, nel quale uno snodo epocale della storia intellettuale e politica del Novecento viene rappresentato, e problematizzato alle radici, entro un realismo dalla focalizzazione prospettica doppia e complementare, il realismo modernista che riconfigura il romanzo storico nelle procedure espressive di una malinconica e strenua allegoria.