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diretto da Romano Luperini

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L’ostinazione delle parole. Emanuela Annaloro su “L’uso della vita”/10

Il nuovo romanzo di Luperini, L’uso della vita. 1968, ruota ellitticamente intorno a due fuochi: la politica e il 1968, la vicenda privata e l’amore. Il protagonista è Marcello, un giovane supplente impegnato nel movimento pisano che attraversa il Sessantotto. Marcello è testimone del tatticismo di D’Alema e della vis trascinante e istrionica di Sofri, del fermento nelle università, delle lotte studentesche, dell’esperienza del carcere e dei giudizi lapidari di Fortini; ma è anche protagonista di una lunga contesa col padre e oggetto della tenerezza incondizionata della madre. Marcello è attratto da due donne e da due opposti: da Sandra (la lucidità severa) e da Ilaria (la leggerezza spensierata). Pubblico e privato sono mescolati.

I capitoli sono scanditi cronologicamente e i brani che li compongono, isolati graficamente, somigliano a lasse inframmezzate da spunti riflessivi. I fatti narrati sono spesso chiosati («Erano una cellula, pulsavano di vita propria e insieme di tutta la vita dell’organismo che li conteneva» p. 56), secondo un’attitudine stilistica già presente nei due precedenti romanzi, I salici sono piante acquatiche e soprattutto L’età estrema. Anche i procedimenti narrativi di questo nuovo romanzo appaiono postillati e messi a nudo: «schegge di pensieri e di immagini lo ferivano e subito si disperdevano nella mente p. 24»; «si sentivano trascinati da un flusso che li circondava e li proteggeva» p. 26). Inoltre non si contano passaggi narrativi inessenziali o anche singole frasi che non abbiano una necessità anteriore: i motivi liberi sono rari (i ritratti nella prima parte del libro, i passeri nella seconda) e più che svagare e distrarre dal racconto e dai suoi temi portanti ne riannodano i fili. Il libro ha dunque tratti decisi ed è scandito intorno a nuclei tematico-espressivi compatti. La scelta grafica di isolare i brani risponde a questa istanza ed invita ad una lettura concentrata.

La natura dei personaggi è sviscerata attraverso piccoli dettagli: la piega beffarda della bocca di Sofri, le calze colorate e le gonne corte di Ilaria, gli occhiali difesi nel pestaggio da Marcello, gli occhi «taglienti» del padre. Rivelatori dei rapporti fra i personaggi sono soprattutto i sorrisi, che come in etologia somigliano a smorfie e adombrano pulsioni aggressive. Pure gli ambienti sono ripresi per scorci e resi con tocchi rapidi e incisivi. Si pensi ai ritratti contrapposti di Gramsci e Togliatti nella sezione del PCI o alla stanza vuota e fumosa della riunione a casa di Sofri. I particolari descrittivi sono espressionisticamente isolati, quali sintomi o segnali che rinviano a significati ulteriori. Lo si vede bene nel passo del primo incontro sessuale fallito fra Sandra e Marcello. Il manifesto che campeggia nella piccola stanza di Marcello (il ritratto che presiede alla scena d’amore è già di per sé un elemento perturbante) raffigura una ragazza vietnamita che spinge col fucile un militare americano e prefigura l’inversione dei rapporti di forza fra Sandra e Marcello, condensando in un’immagine la capacità della donna di imprigionare e svuotare la forza maschile del protagonista. Come le altre forme narrative anche i dettagli che compongono i volti dei personaggi e le descrizioni dei luoghi sono sbalzati e messi in rilievo.

Le parole sono centellinate. E se qua le là spiccano i toscanismi, nel dipanarsi del racconto pesano soprattutto i verbi che nella struttura della frase breve surrogano gli aggettivi e assumono valenze connotative (come il motorino che «sgattaiolava», «sfiorava», «friggeva», «zigzagando» e «danzando», o i capelli che «frustavano», «oscuravano», «penetravano» p.54, o la madre, figura naturalmente accogliente, che «riceve» la luce dalla finestra mentre cuce p 135.). Rari sono i connettivi sintattici e rarissime le incidentali. Le costruzioni sintattiche sono per lo più dirette, come colpi fendenti che aprono squarci in un linguaggio altrimenti comune. Nel lessico c’è assai poco del gergo giovanile: non c’è mimetismo linguistico. I termini sono asciutti, precisi, calibrati. Ricorrono brani di esattezza documentaristica (p. 60, p. 81) e passaggi saggistici (i passi in cui compare Fortini come a pp. 51-52, 122). Le parole, misurate una ad una, non vengono lasciate andare: scontano un’interdizione interna. Perché?

Il senso delle cose nell’Uso della vita prima di essere affidato ai lettori è messo in luce con cura meticolosa. In questi atti di cura credo stia la verità del libro ed anche la sua bellezza. Se i dettagli sono messi in rilievo come particolari o sintomi che rimandano a significati ulteriori, se i contenuti di verità sono sviscerati e le parole sono soppesate e trattenute è perché la «corrente» che nel Sessantotto ha unito il destino dei singoli alle sorti di tutti è ormai perduta e non è più possibile alcuna immediatezza. Perduta è la continuità dei destini come perduta è la Rivoluzione: «c’era una corrente nel mondo e lui ne faceva parte» (p. 32). Al suo posto, in luogo di un desiderio o di un rimpianto, si innesca però una tensione ostinata, di cui i frammenti narrativi, le descrizioni, le narrazioni enucleate e i dettagli che compongono il racconto si fanno carico spezzando il flusso della forma-romanzo e la sua naturalezza. Dove prima c’era una continuità delle forme nella vita, adesso c’è una frizione, così come dov’era la felicità del cambiamento infine resiste un’ostinazione implacabile: il lavorio inutile e tenace delle parole. Attraverso di esso la speranza travalica ciò che la nega e se non può affermarsi non può nemmeno morire.

NOTA

Questa recensione verrà pubblicata sul numero 274 della rivista “L’immaginazione”. 

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