Questa è la civiltà. Una sera in una scuola serale
In una battuta durante la campagna elettorale del febbraio 2013, Silvio Berlusconi si rivolse a Santoro, per offenderlo, chiedendogli se avesse frequentato le scuole serali. Come in tutte le battute del più rappresentativo uomo politico italiano dell’ultimo secolo, anche questa sprigiona una visione del mondo al tempo stesso volgare e antidemocratica. E capace di alimentare volgarità e disprezzo delle masse, anche nelle masse stesse.
La battuta viene ricordata dal professor Vincenzo Romeo, che insegna in una serale di Palermo, introducendomi a parlare ai suoi studenti, quasi di sorpresa, condotto lì il 22 marzo da un invito estemporaneo che per istinto non avrei rifiutato neppure senza l’eco fastidiosa di quella battuta.
Il professore ha concluso la sua presentazione fulminea e a questo punto tocca a me, che devo parlare di che cosa sia, o forse di che cosa possa essere, l’esperienza della letteratura. Mentre prendo fiato non mi è chiaro se abbia senso, in quel momento, confessare che cosa sia per me tale esperienza; o azzardare che cosa io immagini possa essere per la piccola folla attenta e guardinga che mi fissa; o magari che cosa sia stata per l’umanità (ma quale?) o, addirittura, che cosa potrebbe diventare (ma quando?). Di fatto la situazione è più forte di questa esitazione, e inizio a parlare di ciò che significa per me in quel momento quella esperienza: stare in una grande stanza poco illuminata, di sera, con un pubblico di età variabile (nessun ragazzo, alcuni non più neppure giovani, molti volti assonnati), con l’angoscia e la fiducia di un’occasione unica.
Questa è la civiltà. Questo incontro in cui un gruppo di umani si riunisce per costruire un senso, e uno di loro più vecchio o portatore di un sapere ulteriore condivide la sua esperienza con gli altri, cerca di farla arrivare fin lì, per metterla in salvo. Questo incontro fra lontani che misurano la propria distanza nella posizione dei corpi, nella gestualità diversamente codificata, nei sistemi di valore asimmetrici; e che mostra la possibilità di un’intesa, che costruisce un patto. Sarebbe un libero patto, ove fossimo liberi; è un patto che allude alla libertà, è forse una forma del futuro.
Abbiamo qui le nostre vite, la vostra e la mia, ciascuna diversa e speciale, trascinata e libera. E di fronte a noi, nei libri sparsi sui banchi, altre vite, ora ridotte in forma di parole: intoccabili e limpide come un insetto imprigionato nell’ambra. Vite che possono restare mute eternamente, ciascuna con il suo segreto di dolore o di felicità; o che un gesto può illuminare, se spalanchiamo a una pagina e ci mettiamo a leggere. Quella voce che sentiamo dentro di noi viene da lontano: non è la nostra voce ma la voce di un altro. Non è veramente neppure la voce di un altro ma l’incontro fra la sua e la nostra. L’immagine che leggendo andiamo formando dentro di noi, e che prima di leggere non c’era, non corrisponde a un fantasma tornato a vivere per quel breve tempo; e non corrisponde però neppure ai nostri pensieri prima che quell’immagine andasse prendendo forma. È una costruzione nuova, quale si produce ad ogni incontro, e che va a occupare uno spazio nuovo nel nostro mondo interiore. Noi abiteremo quello spazio anche dopo aver chiuso il libro, anche quando la lettura sarà compiuta: potremo tornarci e strapparne un ricordo – un’immagine, un verso, un aggettivo, un’emozione –, divenuto nostro. Forse è questa l’esperienza della letteratura.
Come ogni incontro, ce ne saranno di rivelatori e di insignificanti. A volte la voce dell’altro ci apparirà troppo forte, al punto da sovrastare la nostra; o troppo debole, al punto da non poterci raggiungere. Ma altre volte l’incontro produrrà un’intesa, cioè la costruzione di un patto, anche in questo caso: un’immagine della civiltà.
Abbiamo qualche dovere verso questi incontri, come in ogni occasione sociale; e il più importante sarà comunque quello di prestare ascolto, di tenderci verso la comprensione della voce di coloro che non sono più altro che voce e che prefigurano il nostro destino caduco. Come possiamo non metterci in ascolto, e lasciare per sempre muti quei lontani, così possiamo ascoltarli distratti o sopraffatti da un nostro bisogno immediato: cercare la nostra nella loro voce. Solamente un’etica della comunicazione potrà permetterci l’ascolto: non nell’illusione che le voci lontane risorgano quali furono in se stesse e nel loro tempo, ma sperando di farle risuonare nella nostra voce in questo presente; non come scheletri invitati a una danza macabra, ma come corpi vivi, i nostri, riempiti di un’esperienza della distanza e dell’alterità.
Abbiamo tuttavia molti diritti. Il diritto, intanto, di scegliere, di non seguire un ordine, una gradualità, un processo storico o formale. Il diritto di puntare dove l’incontro si annunci più promettente, o anche semplicemente possibile. Abbiamo il diritto di strappare una pagina e di portarla con noi, di mangiarla con il calore della nostra fame di oggi, facendola entrare nel nostro sangue. Il rigo di un romanzo, il verso di una poesia possiamo rubarcelo per noi, scagliarlo dentro l’orizzonte della nostra vita e lasciargliela sconvolgere. In nessun altro modo l’altro, così lontano sempre, può davvero risorgere ed essere preservato dal nulla che già lo ha rapito. In nessun altro modo possiamo essere veramente vivi se non permettendo all’altro, alla sua voce potente, di dirci chi siamo.
L’esperienza della letteratura è allora forse quella forma enigmatica dell’altro che si è costruita in noi, e che, reciprocamente, noi abbiamo portato dentro il suo mondo; è questa immagine nuova che mette le nostre impronte in un canto di Dante e appanna del nostro fiato l’infinito silenzio di Leopardi. In quel foglio strappato scopriamo messa in salvo una possibilità dell’umano – l’incontro l’intesa il patto – che salva anche noi.
Noi siamo la civiltà. Perché i vostri sguardi mettono in salvo la mia eredità, e mi consegnano la loro; perché i vostri interventi e le vostre domande gettano un ponte di senso sul quale noi oggi e altri domani potremo passare, trascinati e liberi.
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Nuove catacombe
Caro Pietro,
forse è ancora vero: bisogna ridiscendere in certe catacombe da tutti dimenticate o disprezzate per cogliere un “umano” sporco, assonnato, sospettoso, tartassato a morte, ma ancora resistente.
Mi hai fatto pensare al populismo russo e a certe riunioni che facevamo nei sottoscala freddi di un bar di periferia attorno al ’68-’69, quando cercammo di spiegare il “Manifesto del partito comunista” di Marx, non ancora da noi ben digerito, ad operai di piccole fabbriche e studenti delle superiori, aggregati in un “Gruppo operai-studenti”.
Ma attenzione alla retorica e alla nostalgia.
Ciao
Ennio
L’insegnamento come pratica della civiltà
…e tra le pagine di letteratura che d’ora in poi voglio “strappare e portare con me” c’è anche questo articolo di Pietro Cataldi, che ha il pregio di una testimonianza autenticamente civile e insieme di un’esperienza umana che dà senso alla vita e al lavoro (l’una e l’altro, perché inseparabili). Ed è una pagina di letteratura perché all’attacco “narrativo” segue un andamento “lirico” che emoziona e sorprende. E’ lo stesso prof. Cataldi che scrive il commento a Montale e al primo canto dell’Inferno? Quello studioso severo che si cimenta con gli oggetti letterari più ardui e non fa sconti ad alcun lettore?
Certo, è lui, e ci ricorda che ogni più rigoroso lavoro di filologia ed ermeneutica non ha alcun senso destinato a permanere e si disperde nell’algore dello specialismo, se non è innervato dalla passione di un incontro umano e dalla voglia di interrogare i testi per la costruzione di un senso critico diffuso, strumento e garanzia della vera libertà. Grazie, Pietro. Nei prossimi giorni dovrò affrontare una lezione di TFA (…) e lo farò con la scorta di questa tua “pagina strappata” di letteratura.
Letteratura e dimensione collettiva
Queste righe così dense e così suggestive interrogano il senso profondo del nostro lavoro. Mentre le leggevo mi venivano in mente molte cose. Forse la più importante (la più comunicabile) è questa. L’incontro con le pagine più grandi della letteratura sembrerebbe l’esperienza più privata, di più insondabile natura che si possa immaginare. E’ il nostro essere, la nostra interiorità, il nostro vissuto che precipita nell’opera letteraria -lucida scaglia di memoria e di scrittura strappata per sempre all’oscurità. E tuttavia: sarebbe stata la stessa cosa se questo intervento di Pietro si fosse tenuto in un esclusivo college inglese, o americano (o italiano)? Io credo proprio di no. Credo che la “situazione”, il contesto, siano stati determinanti. Che la dimensione pubblica, democratica, orizzontale dell’incontro (tra relatore e pubblico, tra opera letteraria e lettori)abbia attivato la riflessione di chi parlava, abbia impresso un ulteriore significato alla funzione di medium dello studioso rispetto ai suoi uditori, abbia determinato una particolare postura esistenziale, prima ancora che intellettuale. Penso che la cultura umanistica -la letteratura, ma anche la storia, ma anche la filosofia, ma anche (mi voglio rovinare) il latino e il greco antico- ha senso, ed è fattore di civiltà, solo se è cultura diffusa, se è per tutti, se è lievito fecondo di una maturazione collettiva delle coscienze, se qualcun altro raccoglie il testimone. Non ha alcun senso, invece, se serve solo a formare dei (sia pure eccellenti) specialisti, degli esperti di settore, siano essi filologi, o storici, o critici letterari. La retorica dell’”eccellenza” (poli scolastici, universitari, ecc.),ormai insopportabile a tutti i livelli e per tutte le discipline, è esiziale per quelle umanistiche, per loro intrinseca natura latrici di un’esigenza democratica e bisognose di un orizzonte collettivo di significato.
Anna
insegnare letteratura in Inghilterra
Vorrei ringraziare Pietro Cataldi per questo bel post, che trovo convincente e ricco di idee importanti.
Mi convince in pieno la scelta dell’analogia e dell’immagine di apertura. Questo post mi ha fatto vedere la ricchezza racchiusa in una analogia simile che mi era capitato di usare in classe – avevo paragonato i testi letterari a dei fossili.
Mi scuso se mi riferisco per la seconda volta a una esperienza personale, ma vorrei rispondere @ Angela Drago, che manifesta una giusta preoccupazione:
“E tuttavia: sarebbe stata la stessa cosa se questo intervento di Pietro si fosse tenuto in un esclusivo college inglese, o americano (o italiano)?”
In questo periodo mi trovo ad insegnare in Inghilterra: non insegno in un college d’elite, ma in un contesto comunque interamente diverso da quello descritto in questo post. Le assicuro che anche per studenti che vengono da famiglie agiate inglesi l’esperienza di cui si parla in questo post e’ diventata rara. Mi sembra che cercare di trasmettere anche a loro questa esperienza possa avere un senso, sia per loro sia per altri – questa e’ certo solo una speranza, ma e’ la speranza che ripongo nel lavoro che cerco di fare (e anche questo ovviamente non basta).