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Insegnare la letteratura oggi/4. Intervista a Pietro Cataldi

    A cura di Emanuela Annaloro 

    E.A: L’insegnamento della letteratura nelle nostre scuole su cosa poggia realmente? Su di un nucleo condiviso di contenuti e di valori negoziati dal canone della nostra tradizione? Sulle forme di un immaginario condiviso? Sulla ricerca di significati che lo studio letterario sa alimentare? O molto più prosaicamente su abitudini e rituali burocraticamente scanditi?

P.C: Gli interventi che hanno preceduto il mio su questo blog in risposta alle stesse domande hanno ben messo in mostra il valore fondante della negoziazione di un canone, di un sistema di valori condivisi e l’importanza della ricerca comune di un significato. Sono gli elementi decisivi di questo tema, ed evocano quel concetto di “società stretta” nel quale Leopardi individuava una possibilità di cittadinanza non disgregante, non competitiva e non passiva, cioè una difesa possibile dalla barbarie. Concordo con queste risposte, e con le prospettive che le animano; e provo allora a non insistere su questo aspetto, ma a dedicare una riflessione alla parte finale della domanda, quella “prosaica”: alle «abitudini e rituali burocraticamente scanditi».

Non serve dire che la burocratizzazione dell’insegnamento è oggi una forma di delegittimazione subdola della sua funzione formativa; e tuttavia saremmo miopi a non valutare adeguatamente il senso profondo insito nelle «abitudini» e nei «rituali». Come ogni istituzione storica, la scuola è anche questo. Abitudini e rituali costituiscono infatti una forma di mediazione sociale necessaria a rendere possibile il riconoscimento e l’esercizio di una funzione collettiva; fanno parte di un patto: ne costituiscono il sedimentato storico. In essi ogni nuovo individuo dialoga con quelli che lo hanno preceduto e condivide una condizione significativa di esperienza con quelli che stanno intorno a lui. Fanno parte di questo patrimonio di abitudini e di rituali, d’altra parte, la stessa figura dell’insegnante e quella dell’allievo, gli edifici scolastici e la conformazione delle aule. E oggi la stessa forza che per mezzo del disciplinamento (ne parlerò in risposta alla terza domanda) sta delegittimando la funzione assunta dalla scuola negli ultimi due secoli aggredisce anche questo patrimonio di abitudini e di rituali, svuotandolo e ridefinendolo al ribasso. Né si pensi che qualcosa sia al sicuro da questo processo di imbarbarimento avviato nel tardo capitalismo della globalizzazione; neppure la relazione docente-allievo o la conformazione architettonica della classe, che ho appena indicato quali emblemi di un sistema condiviso. Da più parti si attenta a quella relazione, ora ridefinendo il docente quale esperto o tecnico al servizio di un sapere puramente disciplinare, cioè non più quale intellettuale mediatore, ora spostando la relazione su canali che aggirano la presenza e lo scambio, con forme nuove di didattica a distanza, oppure on demand; ora arrivando a ipotizzare uno spazio-classe rivoluzionato, una sorta di open space nel quale ogni studente sia nella sua postazione on line, capace di costruire sul web in modo individualizzato i propri percorsi formativi, coadiuvato da esperti che intervengono solo per favorire l’acquisizione di una completa indipendenza. Sono direzioni nelle quali si stanno facendo ricerche, e formulando ipotesi. E che trascinano con sé, non serve dirlo, l’annullamento o la profonda ridefinizione di altre abitudini e di altri rituali, come il libro di testo, l’interrogazione dialogica, la discussione collettiva, lo studio a casa, la socializzazione scolastica, ecc.

Benché queste ipotesi orwelliane abbiano trovato negli anni del berlusconismo il loro humus culturale (o anticulturale) perfetto, è ora dal “grillismo” che è lecito attendersi le minacce più audaci, travestite da democrazia digitale e alimentate da un antiautoritarismo tutto demagogico; all’insegna, in realtà, di quella profonda ostilità per le forme di mediazione sociale che costituiscono, nella politica e in ogni altro ambito, il risultato storico di una negoziazione e di un patto; in assenza delle quali restano l’orrore della libertà preistorica che restituisce a ogni individuo la condizione di lupus per gli altri e la passività al meccanismo per intero omologato di produzione-consumo.

Anche la scuola e l’insegnamento della letteratura finiranno nella bocca regressiva e barbarica di questo processo, ove non si rivelino in grado di difendere, insieme al valore condiviso e rinegoziato di contenuti e metodi, quello ereditato di abitudini e rituali, cioè le forme storiche della mediazione sociale quale si è definita al loro interno; e sia pure, come è necessario, per ritrasmetterli a loro volta rinnovati e rinegoziati. Ma non disfatti.

    E.A: Per precisare il senso della prima domanda, forse può essere utile introdurne una seconda: a cosa serve la letteratura? Quale può essere la sua funzione oggi?

P.C: Confesso una debolezza: inorridisco tutte le volte che sento ripetere – e sono molte – che la letteratura non serve a niente, e che in questa inutilità sta la sua bellezza. Che sia un modo un po’ snob per rivendicare il privilegio sociale di un lusso o una spregiudicata resa alla logica della efficienza produttiva, la battuta è in ogni caso sbagliata; e legittima lo sprofondamento del capitale simbolico della letteratura, la sua subalternità nei mass media e, sempre più, nei curricoli scolastici. In realtà la letteratura serve, ammesso che questa sia la parola giusta. Certo, serve a imparare a scrivere e a parlare meglio, ad avere un lessico e categorie mentali che diano nutrimento alle nostre capacità argomentative, ecc.: cose oggi rivendicate dalla logica delle “competenze”, a volte con qualche rischio di unilateralità. Si può aggiungere che per mezzo della letteratura veniamo in contatto con quella parte del linguaggio che ne costituisce per così dire l’identità storica profonda, una sorta di autocoscienza metalinguistica. Sappiamo bene che solo la lettura dei classici di una letteratura ci permette di cogliere l’ “anima” di una lingua, e che senza l’«odi et amo» il latino è vuota retorica. In questo senso, frequentare i testi letterari ci consente non solo di usare meglio la nostra lingua ma soprattutto di sapere che lingua parliamo: di diventare locutori attivi e non passivi; di fare della nostra parole uno strumento della nostra identità specifica, nella consapevolezza più piena dell’ampiezza dei registri dati.

C’è però un altro punto almeno che mi sembra utile ricordare, e riguarda il rapporto fra lingua e mente. Come sappiamo, la nostra mente non segue la sola logica aristotelica (i princìpi identità, non contraddizione e terzo escluso), quella che Matte Blanco chiama “asimmetrica”; ma è profondamente abitata da modalità logiche “simmetriche” dalle quali si esprimono classi o insiemi che ammettono il principio di contraddizione. I sogni e le emozioni sono esperienze di questa logica profonda, fatta di reversibilità, di condensazioni, di antitesi non dialettiche. Il nostro “io” vive in equilibrio fra questi due sistemi logici (Matte Blanco parla di una «bi-logica») e la capacità di farli interagire correttamente costituisce una premessa fondamentale del benessere psichico. La letteratura è da sempre un luogo nel quale i due sistemi logici convivono in modo produttivo. Per esempio, una metafora viola i principi elementari della logica aristotelica, con il suo affermare che una cosa è un’altra cosa (cioè che A = non-A); così come una rima crea un equivalenza fra due o più parole che possono non avere né relazioni di senso né essere sintatticamente correlate. Ciò non significa che i testi letterari diventino per questo incomprensibili. Al contrario, essi ci parlano in modo completo, coinvolgendoci a più livelli e permettendoci di mettere in gioco tutte le nostre capacità di decifrazione semantica; regalandoci il piacere, se vogliamo, di questa empatia totale con le nostre risorse mentali (il nome di Kant qui deve essere proprio ricordato). Dare senso a un testo letterario (e il nucleo dello studio della letteratura resta innanzitutto questo) vuol dire esercitare interamente la nostra mente, permettendo un fondamentale esercizio di unità e di armonia; vuol dire, in altri termini, far dialogare sistemi logici e strutture categoriali solitamente sentiti come alternativi. La capacità storica della letteratura di parlare in generale del mondo (cioè della totalità) – cosa importantissima nel tempo della parcellizzazione disciplinare – ha anche queste radici. E rinunciarvi implica il rischio di un divorzio ancora maggiore fra modalità costitutive del nostro pensiero; cioè il rischio di una perdita secca di profondità e di complessità della nostra condizione umana, e di equilibrio e di benessere individuali.

    E.A: Oggi la scuola è sottoposta ad una egemonia culturale performativa, valutativa, economicista. In essa i valori umanistici mediati dalla letteratura appaiono sempre più marginali e residuali. Tale egemonia è talmente forte che anche dal basso, presso gli studenti, vengono a mancare i principi basilari di legittimazione dell’azione di un docente di lettere. L’insegnante di letteratura italiana non mostra come si fa un mestiere, non spiega nulla di utile, parla di un mondo che non c’è più (o non c’è ancora), che senso ha il suo lavoro oggi?

Questa domanda coinvolge molte questioni complesse, e spero di aver creato nella risposta precedente una parte delle premesse per rispondere a questa: un insegnante di letteratura può ancora rispondere a bisogni profondi e altrove impediti, e questa è la sua forza. Ma la loro rimozione è ormai così sistematica che gli sarà comunque difficile farli emergere, non potendo più contare su un mandato sociale condiviso né dunque sulla fiducia preventiva degli studenti. Avrà dalla sua alleati potentissimi, come i versi di Dante o di Leopardi o i racconti carichi di senso di Boccaccio o di Verga; ma dovrà sapersene avvalere, senza perdere la fiducia nella propria disciplina. Avrà anche, dalla sua, l’inquietudine esistenziale degli studenti, e la loro fame di senso e di esperienza intensa: beni da non disperdere.

In particolare vorrei però dedicare una battuta conclusiva alla questione della valutazione, oggi davvero centrale per il destino della formazione e della ricerca nel nostro paese (e naturalmente altrove). Per mezzo della smania valutativa credo stia oggi passando una forma nuova di disciplinamento conformistico, in tutto paragonabile a quello della Controriforma. Si tratta di costringere un universo variegato e nonostante tutto libero come quello della formazione e della ricerca a servire la logica dominante dell’efficienza economica e della finalizzazione produttiva. Disciplinamento vuol dire restrizione allo specialismo disciplinare, contro i principi moderni dell’interdisciplinarità; e vuol dire, soprattutto, subalternità al sapere misurabile (l’unico davvero valutabile con i mezzi impiegati, a partire dalle famigerate prove Invalsi). Questa vague della valutazione oggettiva costringe i docenti a rinunciare alla loro funzione formativa in ciò che ha di più specifico e di più “fine”, per rivolgersi a una triste funzione di trainer del sapere misurabile; sta inoltre producendo orribili superfetazioni burocratiche, capaci di incidere con il loro potere (anche al dunque economico) sulle direzioni della ricerca e sui contenuti e sui metodi dell’insegnamento: una mostruosità che accentua la natura appunto conformistica di questo disciplinamento.

Infine, non credo che la letteratura alluda a un mondo che non c’è ancora (anche se mi piacerebbe crederlo), ma più semplicemente costituisca una possibilità di relazione ricca e intensa tra mente, mondo e linguaggio. Il fatto che a qualcuno sembri poco, e che a qualcuno sembri possibile misurare in modo “positivo” le modalità di questa relazione ci dà la percezione del degradamento in corso. La letteratura non può essere comunque lo strumento per risalirne; sì una delle esperienze attraverso le quali si può registrare, e con intensità, il bisogno di farlo. È naturalmente un augurio: per la letteratura e per cose ancora più importanti.

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