Equo canone. Ovvero del canone letterario a scuola/5 Tre domande a Duccio Tongiorgi
A cura di Luisa Mirone
Rispetto all’insegnamento della letteratura italiana, le Linee guida nazionali per gli istituti tecnici e professionali e le Indicazioni nazionali per i Licei, pur nella diversificazione dei curricula, sono a tutt’oggi storicamente orientate. Dentro questo percorso storicoletterario, vengono privilegiati, talvolta in modo rigorosamente prescrittivo, alcuni autori, tradizionalmente presenti nel canone, rispetto ai quali, nei tempi contingentati dell’insegnamento scolastico, le aperture al Novecento o all’estremo contemporaneo assumono i connotati sfumati di suggerimenti o sollecitazioni. I docenti e le docenti di letteratura italiana si trovano pertanto oggi nelle stesse difficoltà di coloro che ebbero insegnanti quand’erano fra i banchi; né è bastata a risolverle (semmai le ha amplificate) la “riforma” che ha imposto l’anticipazione della trattazione della cosiddetta letteratura delle origini al secondo anno del biennio. Abbiamo chiesto pertanto a studiosi e studiose vicini e vicine al mondo della scuola di rispondere a tre domande-chiave per provare a ridefinire non tanto i confini, quanto i parametri del canone scolastico. Pubblicheremo periodicamente le loro risposte. Sono già uscite quelle di Silvia Tatti, di Riccardo Castellana, di Giancarlo Alfano e Massimiliano Tortora.
D1: Ha scritto Cesare Segre (Critica e critici, Torino, 2012): «la filologia è proprio lo sforzo di capire; e la continuità geografica e storica ci fornisce strumenti abbastanza efficienti per seguire gli sviluppi del modo di significare ed esprimersi delle manifestazioni artistiche».
Ritiene che la storia della letteratura sia ancora oggi, a scuola, uno strumento valido per l’approccio ai testi, uno strumento ancora capace di coniugare insieme appartenenza e scarto, contiguità e distanza, identità e alterità?
R1. Questa domanda mi catapulta di forza, mi perdonerete questa nota personale, ai tempi del mio Liceo, negli anni Ottanta. Un Liceo “sperimentale”, a Pisa: uno dei pochi, credo, a cui il Ministero avesse allora concesso deroghe sui programmi e sull’organizzazione didattica. La sperimentazione era stata promossa da alcuni ottimi docenti di materie scientifiche e, per la parte umanistica, soprattutto da alcune italianiste di grande finezza e intelligenza, che ricordo con gratitudine e nostalgia (tra queste Laura Carotti Goggi, ben nota, credo, a chi legge questo blog, e la “mia professoressa”, Bruna Cordati Martinelli). Non avevamo un manuale, avevamo sul banco solo i testi da analizzare, in genere letti integralmente (era un nostro vanto, uno dei tanti). Non si studiava la “storia” della letteratura, perché era incompatibile con il metodo che la scuola aveva abbracciato: “induttivo”, dicevamo con orgoglio. Mi è capitato di scrivere, ricordando Bruna Cordati, come il prezzo di questa didattica partecipativa, rispettosa dei tempi lenti imposti da un’esegesi del testo conquistata per gradi dal gruppo classe, fosse stato proprio quello di sgretolare il canone e di rinunciare alla didattica della storia letteraria. Petrarca, Tasso, Parini, Foscolo, assieme a tante altre auctoritates inamovibili nei programmi ministeriali, furono sacrificati sull’altare dell’apprendimento di un metodo. Contava che sapessimo esercitare “lo spirito critico”, essere allenati al dubbio, alla discussione. Ho un ricordo piacevolissimo di quella stagione, ma penso anche alla fatica universitaria per recuperare le tante assenze, le molte letture mai fatte. Non sono in grado, lo dico francamente, di proporre un bilancio complessivo di quella esperienza, che andrebbe fatto considerando le vicende professionali (non oso dire anche “umane”) di almeno una decina di coorti studentesche. Potrebbe essere un esercizio utile.
Insomma, la domanda che mi è stata posta non mi sorprende, si tratta di temi sui quali ci interroghiamo, e talvolta ci “avvitiamo” da molti anni, senza che nessun modello forte sia riuscito nel frattempo ad imporsi. Anche io, peraltro, temo di avere più dubbi che certezze. Provo in ogni caso a non sfuggire del tutto alla domanda: credo, innanzitutto, che ci si debba intendere sul significato di “storia letteraria” e sui modi in cui la possiamo concepire come pratica didattica. C’è un nodo che a me non pare negoziabile. Non sono cioè capace neanche di pensare ad un’opera letteraria senza la storia; e dunque tanto meno di “spiegarla” in aula avulsa dal suo contesto storico. Si tratta di una affermazione ovvia: non ovunque, ahimè, ma in questa sede certamente. Possiamo evitare di ricordare ai nostri studenti che Manzoni comincia a scrivere il suo romanzo nell’aprile del 1821, nel pieno del fallimento dei moti milanesi, e mentre i suoi compagni sono in fuga? E che nello stesso momento comincia a lavorare ad una tragedia incentrata sulla figura di Spartaco, a cui continua a lavorare parallelamente alla elaborazione del romanzo? Don Abbondio, lo sappiamo tutti, incontra i bravi appena in tempo perché il racconto prenda respiro, e la splendida notte degli imbrogli condizioni il destino di Renzo, che dovrà imparare a “non mettersi ne’ tumulti” e “a non predicare in piazza”. Solo quando si comprende davvero l’urgenza drammatica di una scrittura concepita in prima istanza come esigenza – non mi preoccupa il peso della parola – “politica” quel romanzo straordinario non rischia più di apparire agli occhi dei ragazzi come una melensa e inutile storiella impolverata, della quale si salvano (puntualmente antologizzati) qualche medaglione di profonda umanità e di ironica rappresentazione delle debolezze e delle virtù umane. Possiamo leggere e interpretare i Promessi sposi al di là di un progetto formativo che intendeva proporre – di fronte alle scorciatoie imboccate anche da alcuni che gli erano davvero vicini – la strada lunga dell’educazione “popolare”? Ma naturalmente il discorso ha valore generale: che senso ha spiegare il Giorno senza un saldo riferimento al clima delle riforme teresiane che investono anche la Lombardia asburgica? Che senso ha leggere la giornata delle beffe delle donne del Decameron senza richiamare il contesto della crisi causata dalla peste che ha sconvolto i vincoli del patto sociale tanto da costringere ad immaginare nuovi e più corretti equilibri? L’importante è che si affronti in classe la letteratura “nella storia”. Non sono certo, però, che si debba procedere sempre per scalini progressivi, che peraltro portano quasi inevitabilmente a sacrificare lo studio degli ultimi cento anni: perché – lo sappiamo bene – non c’è più tempo… Ma vedo che questo corno del problema ci conduce alla seconda domanda.
D2: Secondo Remo Ceserani «Il nostro compito critico e storiografico prioritario è proprio la ricognizione e la ricostruzione dei sistemi tematici e formali, nella consapevolezza che è proprio nella diversa costituzione di quei sistemi che l’immaginario rivela la sua capacità di raccordo con i movimenti profondi della società, le sue strutture economico-sociali, materiali, culturali, linguistici» (Guida breve allo studio della letteratura, Bari-Roma, 2003).
Esaurita da tempo la funzione delle narrazioni storicoletterarie sul modello desanctisiano, è possibile, a suo avviso, proporre agli studenti e alle studentesse delle scuole superiori di percorrere la letteratura attraverso itinerari tracciati dai grandi temi e dai generi? E, eventualmente, quali temi indicherebbe?
R2.Appunto: le narrazioni “storico-letterarie sul modello desanctisano”, cioè incardinate su una prospettiva ideologica forte e discriminante non sono (da molto tempo) più riproponibili, e direi che non sono più (da molto tempo) neanche proposte. La ragione vera non è di metodo, ma di sostanza e temo risieda nella difficoltà di indicare un canone che prima di essere autoriale esprima un’idea condivisa di storia “nazionale”.
È un fatto che quel canone si definisce proprio assieme all’idea di nazione, in un percorso che De Sanctis perfeziona e radicalizza, ma che si avvia già in età napoleonica: quando, tanto per fare un esempio, viene data alle stampe la prima “Collezione di classici italiani” concepita esplicitamente come catalogo delle opere inaggirabili di una tradizione su cui si fonda l’identità comune.
Devo dire, anche se so di espormi al rischio di critiche pure ragionevoli, che fatico ad accogliere l’idea che un Paese possa rinunciare ad avere alcune letture comuni; so bene – d’altro canto – che un canone è una costruzione ideologica e che l’identità imposta è spesso quella di chi ha la voce più forte. E tuttavia ammetto di provare piacere quando mi accorgo che un luogo testuale vive ancora una fortuna popolare. Qualche giorno fa ho assistito ad una lettura del canto di Ugolino. L’attore, non un professionista, ma un appassionato cultore amatoriale, si è impastoiato sul punto cruciale (“e se non piangi, di che pianger suoli”) e ne ha violentato il dettato, sollevando il brusio del pubblico (a Pisa, è vero, cioè in partibus infidelium, ma non certo fra accademici paludati) che invece aveva bene in mente la lezione corretta. Del resto, anni fa Segre ci ricordava che espressioni quali “il latinorum”, “la sventurata rispose”, erano divenute proverbiali proprio perché I Promessi sposi erano stati (ed erano tuttavia) una lettura comune a tutti; e che nel saldo positivo di un canone riconosciuto ci sono anche aspetti che riguardano la ricchezza linguistica di un paese: una questione da non sottovalutare.
In sintesi, e per rispondere dunque alla domanda: la critica tematica può essere uno strumento utile, certo, ma ancora una volta è necessario concepire un “itinerario” coerente. Il tema è un grimaldello per comprendere l’opera, le ragioni della sua scrittura, del suo successo o del suo fallimento, quanto succede nel mondo intorno a quel testo. Il treno, cui Ceserani ha dedicato studi pionieristici, è un bellissimo tema, perché (sappiamo bene) la ferrovia ha mutato l’immaginario collettivo, trasformato (violentato?) il paesaggio naturale, contribuito a concepire una nuova estetica della velocità. Come muta, nel tempo, la rappresentazione del treno? Se invece si prendono in considerazione – che so? – i modi del dialogo d’amore in carrozza accostando testi di fine Ottocento ad altri di recente conio, non si fa un buon servizio agli studenti. Anche la critica tematica, del resto, corre il rischio di diventare – perdonatemi – un’occasione di ricerca seriale e meccanica di cui non si comprende la ragione, se non quella, tutta accademica, di affastellare saggi con una certa velocità. E qui mi taccio.
D3: Nel corso di un importante seminario nazionale di formazione (COMPITA, Tivoli, 2015) cui prendevano parte docenti di circa cinquanta scuole secondarie d’Italia, Romano Luperini, invitato, con altri notissimi studiosi, a esprimersi sul canone scolastico, lanciò ai gruppi di lavoro una sfida: individuare dieci autori (e dieci opere) imprescindibili della letteratura italiana che potessero costituire una sorta di canone essenziale ed esemplare. Non si trattava di salvare il salvabile, ma di individuare quali voci – tra quelle già consegnate alla tradizione nazionale – fossero ritenute capaci di dialogare con l’Europa, di rappresentare l’Italia entro una più ampia (e oggi più che mai necessaria) dimensione europea. Fu una prova molto difficile, e non se ne venne a capo.
Le proponiamo la stessa sfida, ampliando la rosa a quindici nomi e motivando le sue scelte.
R3: Mah, un bel problema! La domanda è provocatoria e anche un po’ sadica. Un canone è, per definizione, ciò che rappresenta la base di conoscenze comuni di una comunità: e che – proprio per questo – assume un significativo valore identitario. Dunque possiamo legittimamente supporre che i prescelti siano “gli inaggirabili”, i testi che tutti conoscono, ma che gli esclusi in realtà continuino ad essere studiati: se non da tutti, da molti, o almeno da alcuni. Quindici testi, lo dico francamente, sono un po’ pochi. Mi accorgo che mi sarebbe più facile indicarne solo tre: non avrei dubbi, in questo caso, e segnalerei l’Inferno dantesco, i Promessi sposi e i Canti di Leopardi. Insomma, sto provando a sgravarmi di un peso, prima di provare a rispondere: perché vorrei avere, ma non ho, le idee chiare come Alberto Pisani di fronte alla sua biblioteca (“Chi intoppa è il Boccaccio. Alberto delicatamente il rimove, lo lascia cadere vèr terra. Poi, tira innanzi; e dècima. Finita la strage, ridispone i supèrstiti”). L’unico appiglio che mi viene – oltre al piacere soggettivo che provo nel leggere alcuni testi – è individuare un criterio di “importanza”, compendiando con questo termine la fortuna tra i contemporanei, e il peso che un’opera ha nella tradizione letteraria. Da questo punto di vista l’Inferno di Dante non va giustificato, anche al netto dell’indigestione degli ultimi mesi. E poi agli studenti la Commedia piace sempre tantissimo. Così come salverei senz’altro il Canzoniere e il Decameron, ovviamente letti in forma antologica (ma l’Introduzione alla prima giornata del Decameron, la peste come perdita di un ordine sociale che occorre ricostruire, mi pare andrebbe in ogni caso salvata). L’ironia amara rinascimentale, il paradosso, il mondo dilatato del Furioso, potrebbero portarci poi a leggere qualcosa di Galileo, per esempio Il dialogo sopra i due massimi sistemi, magari pensando ad un confronto anche con l’insegnamento della fisica o delle scienze. Nella prospettiva dell’affermazione dell’“italiano in Europa” (e poi nel mondo) leggerei un libretto di Metastasio (o di Da Ponte). Quindi un passo o due del Giorno, che è un testo difficile ma centrale per capire la stagione dei Lumi e l’età delle riforme che anticipa la rottura rivoluzionaria da cui deriva tanta parte della nostra Europa. Proprio per questo trovo importante lo studio dei Sepolcri: un grande tema appunto europeo, che Foscolo declina in una chiave politica attualizzante. Sui Promessi sposi mi sono già espresso: mi pare semplicemente un’opera inaggirabile. Non spiegare in classe i Canti sarebbe in primo luogo un dispetto fatto agli studenti, che amano Leopardi, come sa ogni insegnante. Oltre ai Malavoglia indicherei un romanzo di D’Annunzio, forse il Piacere, se non altro perché si tratta dello scrittore più letto in Italia per decenni. E qui capisco di aver fallito: mi mancano tre o quattro nomi da spendere, e ho tutto il Novecento davanti. Avevo intuito di essere caduto in un tranello, ma ho provato lo stesso.
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