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diretto da Romano Luperini

Insegnare il limite: tre lezioni sul mito

Chi insegna alla Scuola Secondaria di Primo Grado sa bene quanto sia complesso sciogliere il nodo didattico-pedagogico, che avviluppa docenti e alunni nel corso del triennio. Sono anni di passaggio, anni in cui non basta sedersi in cattedra per fare la lezione, o almeno non più, perché la lezione viene continuamente interrotta e smontata, fatta a piccoli pezzi. Chi insegna è chiamato di conseguenza a un perenne andirivieni tra ciò che ha preparato (l’ideale) e ciò che avviene effettivamente in classe (il reale): se non vuole fare la fine di Sisifo, quando può il docente deve trovare il modo di distribuire il carico tra tutti gli attori della classe, il cui funzionamento non può prescindere dalla consapevolezza del limite, proprio e degli altri, da parte di tutti.

È un nodo, questo, su cui si deve lavorare fin dal primo anno, quando iniziano a emergere le prime dinamiche, che con il passare del tempo diventeranno veri e propri accordi su cui si costruiranno poi relazioni più o meno stabili – relazioni che sono già strutturate nel caso di alunni che provengono ad esempio da una stessa classe primaria.

Un modo, a mio vedere proficuo, per lavorare su questo aspetto senza affidarsi a inutili sermoni che hanno soltanto l’effetto di allontanare il docente dall’orizzonte dei propri alunni, consiste nell’utilizzare l’epica come serbatoio di storie che possano parlare del loro presente e delle problematiche che vivono  senza i necessari strumenti per affrontarle. Nel corso degli anni ho di conseguenza elaborato un percorso che, partendo da alcuni miti in particolare, mi ha permesso di discutere nelle mie classi della questione del limite – della sua definizione e percezione, del rapporto che alunne ed alunni intrattengono con esso.

Icaro e Dedalo

La prima storia che racconto è quella di un padre e di un figlio che, per fuggire dal labirinto dove erano stati imprigionati da Minosse, si costruiscono un paio di ali con piume e cera. Il mito è piuttosto noto: Dedalo aveva costruito il labirinto su richiesta dello stesso Minosse, che però lo aveva incolpato di aver aiutato Teseo a trovare la via d’uscita e, per questo, aveva deciso di rinchiudercelo dentro con suo figlio Icaro. Visto che la porta d’ingresso e d’uscita è sorvegliata da dei guardiani, Dedalo trova nel cielo la sua via di fuga, come ci viene raccontato da Ovidio nelle sue Metamorfosi: «Se terra e acqua recludono, il cielo è aperto». Dedalo si raccomanda però con il figlio di non allontanarsi da lui, di stargli dietro e, soprattutto, di non volare troppo in alto, perché il calore del sole potrebbe essergli fatale. Purtroppo Icaro, come scrive ancora Ovidio, «si lascia sedurre dal gusto folle del volo, abbandona la guida e, innamorato del cielo, punta più in alto». Il finale è facilmente prevedibile: la cera si squaglia e il ragazzo precipita in mare mentre invoca inutilmente il nome del padre. Si tratta quindi di un mito grazie al quale in aula si può parlare non solo in senso assoluto del rispetto dei limiti – il cui superamento, nel caso specifico, ha come conseguenza un tragico epilogo – ma anche del rapporto tra i giovani (i figli) e gli adulti (i genitori). Per esperienza, se opportunamente guidati, gli alunni in questa fase saranno stimolati a parlare di situazioni in cui hanno superato un limite che era stato loro imposto – e delle conseguenze che questa scelta ha comportato – e di eventuali motivi di scontro con i propri adulti di riferimento. Considerata la difficoltà che riscontrano molti adolescenti e preadolescenti nel parlare dei propri problemi con i genitori, si tratta di un passaggio fondamentale, che riguarda l’instaurazione di un patto di fiducia con l’adulto di riferimento – l’insegnante – che deve ben guardarsi dal giudicare, limitandosi a facilitare il dibattito e a creare lo spazio capace di accogliere  il racconto di ognuno.

Eco e Narciso

Grazie a questa seconda storia, il docente potrà far slittare il dibattito su un altro piano, in cui affrontare il rapporto con gli altri e con se stessi. Qui il limite non è tanto quello di chi deve imparare, la cui funzione è quindi propriamente educativa, ma è piuttosto un limite che definirei etico e politico, che ha a che vedere cioè con la costruzione del sé e con la libertà in un duplice senso: la libertà di essere se stessi (non essendo dunque prigionieri del giudizio altrui) rispettando la libertà degli altri. Spesso si parla di Narciso tralasciando il ruolo di Eco, i cui sentimenti vengono calpestati dall’arroganza del bellissimo ragazzo. La giovane ninfa sarebbe colpevole di essersene invaghita al punto da seguirlo ovunque, fino a rinchiudersi per disperazione in una caverna, dove di lei rimarrà traccia attraverso la flebile voce che in eterno ripete le ultime sillabe. Il tragico destino di Eco è una mirabile chiave d’accesso nel mondo degli adolescenti per parlare di sentimenti non corrisposti e del limite che si è disposti a oltrepassare: ci si rispecchia di più nella fierezza e nell’ingratitudine di Narciso o nell’arrendevolezza della ninfa? Qual è il limite che si è disposti a superare per amore? E dove possiamo posizionare il punto in cui la passione o il disprezzo assumono i contorni della violenza insita nell’insistenza, da una parte a non arrendersi e dall’altra a mortificare? Vista in quest’ottica, la storia di Eco e Narciso può essere ad esempio un valido strumento per affrontare anche la questione della violenza di genere, o comunque dei rapporti di forza che si vengono a creare all’interno delle relazioni in generale. La questione dello specchio e dell’immagine di sé, poi, è il trampolino di lancio ideale per affrontare un’altra tematica delicata come quella del rapporto dei minorenni con i social network, che oggi rappresentano il termometro più attendibile di un malessere diffuso: il voler apparire a tutti i costi condividendo aspetti della propria vita privata – immagini e informazioni – la cui diffusione pubblica potrebbe rivelarsi assai pericolosa. Per quelli che vengono definiti nativi digitali, quella virtuale è infatti diventata la forma di comunicazione privilegiata, tra le cui dinamiche si sentono più al sicuro, senza rendersi conto delle conseguenze “reali” che ciò che postano possono avere sulla vita di tutti i giorni – proprio come Narciso che, rapito dalla propria immagine, non si cura di ciò che il suo atteggiamento comporta per Eco.

Il mito della caverna

Se parliamo di immagini, il percorso non può che terminare sulla celebre storia raccontata da Platone, i cui protagonisti sono degli esseri umani incatenati in una grotta davanti a delle ombre, come degli spettatori che non conoscono il mondo al di fuori di questo prototipo cinematografico.

Quando si parla di limite, infatti, dobbiamo sempre tenere conto anche dell’importanza del punto di vista, che ci insegna come ogni limite possa essere anche un costrutto storico e culturale. Questo è un insegnamento che cerco sempre di dare ai miei studenti, a prescindere dalla disciplina che si trovino ad affrontare: provare a cambiare gli “occhiali” con cui guardano solitamente la realtà, attraversare appunto il limite (in questo caso confine) che circoscrive il loro mondo. La geografia, da sempre la più sminuita tra le materie umanistiche insegnate a scuola, può aiutare molto a far loro capire la questione del punto di vista, perché viaggiare ci costringe spesso a occupare posizioni scomode – quella dello straniero, ad esempio – sperimentando di conseguenza che cosa significhi non avere coordinate (anche se in un mondo mappato dal gps può sembrare un controsenso).

Il mito della caverna può tornare inoltre molto utile per esplorare il limite tra finzione e realtà, in un’età in cui gli alunni danno spesso per scontata la veridicità di quello che vedono sugli schermi – penso soprattutto ai video e ai reel che “scrollano” in continuazione sui telefoni. Gli studenti vivono infatti,  ormai sempre più precocemente, dentro un universo di immagini dall’impronta sempre più realistica, risultato dell’uso di strumenti ormai alla portata di tutti, che danno l’illusione a chi guarda di stare sulla scena, in presa diretta. Non è per niente facile distogliere il loro occhio da quello che è a tutti gli effetti uno spioncino, dietro cui si alimenta la pulsione voyeuristica che li spinge a consumare immagini sempre più “vere”, che non devono fare nemmeno lo sforzo di decodificare. Che cosa può fare quindi la scuola di fronte a questa massiccia immissione di “realtà” senza filtro? Per prima cosa non dovrebbe voltarsi come di fronte allo sguardo della Medusa, ma usare i propri strumenti – integrandoli con dei nuovi, aprendosi ad esempio agli studi sul cinema e sulla visual culture in generale – per aiutare le ragazze e i ragazzi a leggere le immagini, ragionando sulla loro costruzione così come si fa con qualsiasi testo.

Quello che ho sinteticamente illustrato non è che un possibile percorso, una tra le tante tracce da sviluppare lavorando a partire da uno di quelli che ho definito nodi, perseguendo un’idea di scuola che non sia – o quantomeno non soltanto – il mero ripetersi di programmi che molti testi scolastici continuano a proporre di anno in anno. Nel triennio della secondaria di primo grado, ciò che il docente deve trasmettere non è, a mio parere, una valigia piena zeppa di informazioni, bensì una scatola degli attrezzi utili a saper smontare e analizzare quei contenuti che, altrimenti, rischiano di rimanere liste di parole vuote mandate a memoria. Questo, invece, è ancora troppo spesso il limite che la scuola, in quanto istituzione, sembra non voler superare nonostante la gran mole di documentazione che continuamente produce per stare, apparentemente, al passo coi tempi. Le recenti indicazioni ministeriali riguardanti lo studio della storia dell’Occidente e delle sue radici (a cui aggiungere, tra gli altri, la “riscoperta” del latino e della Bibbia) sembrano invece andare proprio in direzione contraria: quella di un “ritorno al futuro”, come lo ha definito il Ministro stesso, che suona tanto come un mondo delimitato da ingombranti steccati ideologici. Il passato, quello ad esempio dei miti a cui ho qui brevemente accennato, più che rivolgersi a un fantomatico futuro può invece parlare al presente di chi vive in un’età in cui quella temporale è una dimensione ancora incerta, che necessita di limiti – non barriere – che siano d’aiuto per dare una forma alla confusione che gli studenti provano e che sentono spesso intorno a loro, negli stessi adulti che dovrebbero invece guidarli.

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