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diretto da Romano Luperini

Nel corpo vivente della storia. Sul Luzi di Daniele Piccini

Dentro una generazione forte

Un volume dedicato a Mario Luzi da una casa editrice d’alto profilo negli studi letterari come Salerno ha il valore di un atto di canonizzazione. La collana «Sestante», in cui compare questo Luzi di Daniele Piccini (2020, p. 386), è costituita da monografie sui maggiori autori della tradizione italiana, dalle origini al Novecento: ma tra i poeti post-montaliani, con l’eccezione del sempre esorbitante Pasolini, ad oggi Luzi è l’unico ad aver meritato questa particolare elezione.

Al centro del volume troviamo due estesi capitoli, uno sulla «Vicenda umana e letteraria», l’altro sull’opera in versi, dall’esordio de La barca, 1935, al postumo Lasciami, non trattenermi, 2009 («La poesia: dal viaggio alla metamorfosi»). Seguono tre capitoli più brevi sulle parallele (e fondamentali) esperienze di scrittura teatrale, di prosa creativa, di prosa saggistica. Non scontato è il capitolo di apertura, «Una generazione poetica: i nati negli anni Dieci», nel quale la figura di Luzi è collocata non solo entro l’ermetismo fiorentino, ma anche nel più ampio contesto di quella «terza generazione» che annovera Sereni, Caproni, Fortini, Bertolucci (Pasolini e Zanzotto, pur nati all’inizio degli anni Venti, vengono comunque assimilati alla medesima leva da Piccini). Si tratta, scrive l’autore, di «una generazione forte […], caratterizzata da notevole vitalità e longevità» (p. 9): alcuni dei suoi membri compongono una vera e propria «costellazione amicale», un vivo intreccio di rapporti che va oltre la mera colleganza; per Luzi è certamente il caso della relazione con Bertolucci, Caproni, Sereni.

Quali acquisizioni critiche, ormai stabilizzate, possiamo segnare a credito del poeta nato a Castello, frazione di Sesto fiorentino, nel 1914, e morto a Firenze nel 2005, sulla scorta di questo affresco complessivo di Piccini?

Dall’ermetismo al mondo

A quasi un secolo di distanza dalla primitiva, perfetta, identificazione di Luzi con il profilo di campione dell’ermetismo, appare ormai chiaro che una poesia che ha attraversato tre quarti del Novecento non può esser ridotta a incarnazione estrema ed epigonica del simbolismo decadentista, come venne giudicata negli anni Cinquanta da un durissimo Fortini (che avrebbe poi maturato un ben più complesso rapporto con l’opera di Luzi).

Lo stesso poeta, a partire dall’antologia della poesia simbolista europea da lui curata e prefata (L’idea simbolista, 1959), si è impegnato in una verifica storica del senso, e dei limiti, di quell’esperienza. La tentazione all’autosufficienza della parola dalla realtà, che culmina nella metafisica poetica mallarmeana, è un passaggio obbligato della poesia moderna; ma la «fissità orfica» (la definizione è di Luzi, ne L’inferno e il limbo, 1949, uno dei saggi più importanti per comprenderne la poetica) di un soggetto che ha abolito il mondo fuori di sé e che ha fatto della propria interiorità il mondo stesso, è un vicolo cieco, se non propriamente un naufragio.

Oltre ad essere l’esito della poesia europea post-romantica, questa è stata anche la strada percorsa da buona parte della tradizione poetica italiana, che discende dall’impeccabile e in sé conchiusa armonia petrarchesca, la cui introflessione in interiore hominis ha – osservava Luzi – negato al mondo il ruolo di vivo polo dialettico nel rapporto con l’anima dei poeti.

Indubbiamente anche la poesia di Luzi, nella sua fase ermetica, è monologica, iperletteraria e araldica, fondata su di un «estremismo espressivo esasperato» che si avvita in un «delirio di immobilità» (Piccini); ma parliamo, in fin dei conti, di una sola raccolta, Avvento notturno (1940), e in parte del canzoniere d’amore Quaderno gotico (1947). Già in Un brindisi, scritta durante la terribile prova della Seconda guerra mondiale e pubblicata nel 1946, il levigato manto dell’autosufficienza simbolista mostra le prime crepe e rivela il sottostante tumulto. Scriverà qualche anno dopo, lapidariamente, Luzi, «dentro la prigionia di sé ch’è il vero inferno» (La fortezza, in Dal fondo delle campagne, 1965, ma composto tra il ‘56 e il ‘60), frase che va intesa come confessione di una colpa,  quella di chi si dimostra incapace, o non ancora capace, di una fraternità con gli altri nelle prove del mondo e nel dolore. Pochi versi dopo, infatti, la madre morta, per Luzi sempre simbolo di vita cristiana, rampogna: «metti a prova la tua forza / e la tua tolleranza dell’umano»; a cui il poeta: «quel che mi chiedi non è poco. / Ma se questo è il prezzo / per una conoscenza compiuta / e per una espiazione più profonda / pagherò quel che è dovuto». Luzi s’impegnerà sempre più vivamente in una «adesione profonda a un ordine di cose che non si ripiega sul singolo, individuale lamento» (Piccini, p. 179).

Storia e negativo

A strappare Luzi dal monologismo è un evento storico, che impone il mondo nella propria brutale evidenza: la violenza della guerra. Se ne era accorto Andrea Zanzotto, che parlava di un «trauma che spezza nettamente l’opera di questo poeta» (Aure e disincanti nel Novecento letterario). Confrontando la postura di Luzi a quella della pietra di paragone Montale, Zanzotto osservava come nel pessimismo del ligure la bufera della guerra «non poteva […] dare origine a un trauma», trattandosi della semplice esplicitazione di una premessa implicita: la conferma di una già avvenuta, irrimediabile, disintegrazione del mondo e della civiltà. Per Luzi il trauma è invece propriamente tale, poiché investe un desiderio positivo di vita, una prospettiva esistenziale che proprio per questo era «meno difesa»: la poesia rara ed eletta, in cui egli aveva avuto perfetta fede, si è rivelata una chimera inconsistente e impotente. Il sistema negativo di Montale è perfezionato all’origine e le occorrenze storiche non fanno che confermarlo; al contrario Luzi è costretto a ripartire da una tabula rasa, dapprima andando alla ricerca, nel deserto, dei frutti di una possibile rinascita (Primizie del deserto, 1952), quindi rendendo giustizia alla insindacabile verità delle vicende umane (Onore del vero, 1957). Con quest’ultima raccolta si chiude la prima fase dell’itinerario luziano, la quale, secondo la sistemazione dell’opera da parte dello stesso Luzi, ha come titolo complessivo «Il giusto della vita», dove «giusto» vale sia nel senso di giustizia che di giustezza, ovvero aderenza alla realtà. Quello di superare la poetica del negativo montaliana «è uno dei passaggi stretti che la poesia di Luzi deve imboccare per darsi un futuro» (Piccini, p. 181).

Sarà lo stesso Luzi a chiarire e chiarirsi teoreticamente la propria posizione storica, leggendola come un tentativo alternativo alla linea (anti-)moderna che da Leopardi conduce alla «filosofia delusiva» del primo Novecento, «che escludeva, in un giudizio già formulato, quindi in un pregiudizio, ulteriori prove. […] La partita, in un certo senso, fra l’uomo e il mondo era già stata giocata e […] perduta». Al contrario, Luzi intendeva «evitare la definizione, il giudizio dato in anticipo, la formulazione preliminare» (Il genio discreto della poesia, in Vero e verso, 2002). «Il punto non è dunque per il poeta negare il male, la sofferenza individuale, ma revocare in dubbio la diagnosi leopardiana sul “male nell’ordine”» (Piccini, p. 250). La compresenza, nel tutto, di bene e male, di vita e morte, di gioia e sofferenza, la trasmutabilità dell’un polo nell’altro, è prova del carattere radicalmente metamorfico della realtà: metamorfosi che un orecchio finissimo deve cercare di captare senza certezze precostituite, né di poetica né di ideologia.

Storia, magma, santa nullità

Nella raccolta che rappresenta una vera svolta nell’opera di Luzi, Nel magma (1963), l’apertura al mondo si scontra con una realtà storica che è ancora opaca e sorda e assomiglia a un sospeso purgatorio, come è evidente nella poesia più emblematica del libro, Presso il Bisenzio, un breve poemetto in cui un personaggio, che porta il nome di battesimo del poeta, confronta il «puntare alto, di là dalle apparenze», il «presente eterno» della poesia, alla richiesta di un giovane partigiano di lottare nel qui ed ora di «gesti in cui si sfrena la moltitudine / morsa dalla tarantola della vita». La poesia si apre alla prosa del mondo e alle altrui voci; assistiamo a una transizione «dal discorso monologico a quello dialogico, dalla monodia alla polifonia»: «colui che dice “io” non è più il centro unico di giudizio e di affermazione, di conoscenza e di proposizione del vero» (Piccini, p. 185). Non a caso, in quegli stessi anni, matura la conversione dal modello petrarchesco a quello dantesco, esplicitamente rivendicata nei saggi di critica e poetica: il ruolo del poeta come personaggio fra altri, la narrazione della varietà del mondo, la tendenza a una humilitas che recupera un’attitudine precedente all’orgoglio individualistico moderno, sono altrettanti indizi di un «dantismo ormai profondo, conoscitivo, non solo stilistico o citatorio» (p. 186).

Se però all’altezza di Nel magma il confronto con il mondo ha ancora il carattere della dualità e del diverbio, nelle raccolte dei decenni successivi (tutte altissime: segnalo solo Per il battesimo dei nostri frammenti, 1985, e Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, 1994), Luzi arriverà a bruciare «ogni residua scoria di individualità in opposizione all’altro» (p. 257). La sua poesia restituisce ormai «esperienze frammentarie fatte da un “io” sempre più universale e archetipico e la loro ontologia unitaria» (p. 219), oppure si mette all’inseguimento di un «fluttuare-oscillare delle strutture del pensiero umano, al di là della stessa dialettica interpersonale», fino alla volontà di dare voce a «un pensiero della specie» (p. 201), «agli attanti puri del cosmo (o a categorie sovra-personali, come la muliebrità): le acque dei fiumi, la pernice, le rondini, la trota, ma anche le creature umane» (p. 222).

L’ultima raccolta pubblicata in vita dall’autore, Dottrina dell’estremo principiante (2004), fin dal titolo rivela il rovesciamento completo verificatosi nell’itinerario poetico dell’autore: dall’idea di poeta mallarmeano per mezzo del quale la natura scrive un Libro assoluto, a quella di poeta che resta tramite dell’altro da sé, ma in un’attitudine francescana che richiede la progressiva cancellazione di ogni pronuncia troppo individuale, in direzione di una «santa nullità», «minima fino all’estrema povertà» (p. 261).

Storia e natura

L’indistinzione tra io e natura di Luzi non va comunque confusa con un annullamento mistico o semplicemente “innamorato”, in virtù di una tensione conoscitiva che resta di alta fattura intellettuale, nonché legata a una radicale immanenza. Luzi non abolisce affatto la storia, come osservava Zanzotto: «la parusia si sposta in una prospettiva infinita, non è mai, per paradosso, nel presente». La poesia resta una dizione umana, non un messaggio soteriologico.

Pure, anche considerando ciò, il cattolicesimo, lo spiritualismo, il teleologismo (desunto da Teilhard de Chardin) espongono, naturalmente, l’opera di Luzi all’obiezione materialista: sublimazione della storia in una cupola metafisica, abolizione del progresso e del conflitto in una fissità eterna, identificazione irenica di storia e natura.

In verità la riflessione sulla storia e sul suo figlio legittimo, il potere, in Luzi è tanto presente da fare sistema: direi, più che nello sparso occhieggiare nelle raccolte poetiche (la sezione Muore ignominiosamente la repubblica di Al fuoco della controversia, 1978; la poesia dedicata al ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, Acciambellato in quella sconcia stiva, in Per il battesimo dei nostri frammenti), nella produzione teatrale, da Ipazia (1973) al testo dedicato alla morte di don Pino Puglisi (Il fiore del dolore, 2003).

Non stupisce che sia stato Franco Fortini – per il quale Luzi rappresentava «l’avversario ideale e continuo», letto e ammirato ma sempre contestato – a formulare questa obiezione materialista nel modo più limpido, in particolare nell’introduzione alla raccolta di saggi luziani Discorso naturale (1980): nella poesia di Luzi è presupposta una «storia, ma naturale» e un’«identità di biologico e psichico», che «d’un solo tratto superi il dualismo (“medievale”) di natura e fede e anche quello (“moderno”) di natura e storia e salvi, sempre più minacciata, l’integrità» dell’umano. A scapitare era «il momento della produzione umana del mondo, della violenza che l’uomo fa alla natura e a se stesso per riprodurre se stesso e che si chiama lavoro, resistenza del materiale». Il dualista, perché marxista, Fortini, non poteva perdonare all’avversario la sua reductio della storia a natura, organismo cosmico in perenne «metamorfosi» (parola chiave del sistema luziano).

Queste identificazioni condannate da Fortini sono corollari dell’idea di «naturalezza del poeta», posta da Luzi «in dialettica se non proprio in polemica con la cultura moderna e con il dibattito contemporaneo» (Piccini, p. 311). Nella «naturalezza», il poeta cerca una via di ricomposizione a quella scissione della modernità che la linea Leopardi-Montale aveva considerato pessimisticamente insanabile: «il dramma ideologico del romanticismo [e della modernità] era fondato su un equivoco: l’identità tra materia e natura e quindi l’opposizione così tra spirito e materia come tra arte e natura» (Naturalezza del poeta: altro saggio capitale de L’inferno e il limbo). Luzi muove alla modernità la stessa obiezione di Leopardi, anche se non vi si rassegna: l’identificazione della natura con una res extensa inerte produce una scissione tra soggetto e realtà che chiude l’uomo entro una dimensione di intellettualismo e razionalismo, ed enfatizza nell’arte la dimensione soggettiva e mentale, che può arrivare, come si è visto, all’arbitrio simbolista di abolire il mondo stesso. Al contrario, Luzi intende «ristabilire una sorta di unanimità dov’era invece distinzione e discordia» (Sulla poesia: Sais e i suoi discepoli, in Vero e verso).

Questo radicale e insanabile conflitto, lungi dall’essere un documento storico ormai inattuale del Novecento, è invece un problema ancora aperto: quella di Luzi e quella di Fortini sono due proposte capaci di andare alla radice delle contraddizioni che la modernità ha innescato due secoli fa, che non sono ancora state risolte e che investono anche il fare poesia. Come l’eccellente bilancio complessivo di Piccini mostra, la speculativa, altissima, instancabile ricerca di Luzi, inizialmente difensiva nel suo carattere oratorio e cifrato, si sprofonda poi nel cuore dei problemi contemporanei: la sua reazione a quella che gli appariva la parabola discendente dell’intellettualismo moderno e dell’arte è, credo, ancora assai feconda di proposte.

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