
Perché leggere Le mosche d’oro di Anna Banti
Fatti gli ultimi conti, rimanevano a Libero Marcocci milleduecento franchi giusti, quasi il doppio di lire italiane. L’affitto scaduto da mesi lo aveva pagato, aveva anche restituito a Michel la sua parte per il lontano pranzo di Capodanno, con Gegette e Denise. Debiti, insomma, non ne lasciava, questo era l’importante e il biglietto lo aveva fatto sino a Firenze: per gli imprevisti dell’arrivo il denaro doveva bastare. Così, quando suonarono le sei e mezzo a St. Germain e lui avrebbe dovuto, come previsto, uscire con Madame Labbé e prendere il metro, si affacciò al corridoio e le diede una voce: «Ne vouz pressez pas, nous prendrons un taxi». La donna, già pronta e che s’affannava a infilare nella valigia certi pannicelli lavati e asciugati in fretta, lo guardò sorpresa. «Ma sì» la rassicurò Libero «così non avremo l’impiccio del bagaglio e il bambino starà più quieto.» Il bambino, Dante Marcocci, suo figlio naturale, se ne stava in quel momento, buono buono, disteso sul divano letto e pareva seguire le mosse del padre con quei suoi occhi di smalto azzurro, la copia di quelli di Denise.
Anna Banti, Le mosche d’oro[1], Mondadori, Milano 2024, p.7.
La vicenda
Libero proviene dall’appennino toscano, da una famiglia contadina che però, con grandi sacrifici, gli ha consentito studi umanistici. Profondamente segnato dall’esperienza della Resistenza, terminata la guerra si trasferisce a Parigi, dove completa la sua formazione di pittore e conosce Denise, una bellissima ragazza altoborghese. Vivono per qualche tempo, nella capitale francese, una tormentata relazione bohémien, da cui nasce un figlio, Dante, che la madre rifiuta di accudire. Rimasto solo col bambino, Libero decide di rientrare in Toscana, affidandolo alle cure della famiglia d’origine; ma, insofferente e irrisolto, stenta a fare il padre e a trovare una collocazione in quel nucleo, in quel partito comunista e in quella Italia in cui non si riconosce più. Denise, invece, ricca e desiderosa di riprendere un’esistenza di agi e garanzie sociali, torna a casa dalla madre. La donna tuttavia, vedova e determinata a rifarsi una vita lontana dai vincoli domestici e familiari, non intende occuparsi di lei e, assicuratole il denaro per consentirle un generico quanto futile reinserimento nel bel mondo, venduta perfino la casa di famiglia, letteralmente la abbandona, tra grandi alberghi e lussuose case di cura, alla sua ricerca disperata di attenzioni, a una serie di incontri fortuiti e mortificanti, a un destino penoso di solitudine e di degrado di sé.
Noi leggevamo
Nel 1963 (lo ricorda anche Beatrice Manetti nella Postfazione al romanzo, p.426), Rossana Ombres chiese ad Anna Banti, intervistandola, quale fosse il suo libro che la critica avesse maggiormente apprezzato. Banti rispose di non saperlo. Nessuna esitazione, invece, nel riconoscere quello che avesse venduto di più: «Le mosche d’oro»- rispose – «ma non per colpa mia». Il romanzo era uscito nel 1963, dopo una gestazione durata cinque anni; e il mercato libraio all’epoca era dominato da concorrenti importanti: La ragazza di Bube di Cassola (1960) e Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani (1962). Che Le mosche d’oro, pur non raggiungendo neppure lontanamente quelle tirature, fosse comunque riuscito a imporsi nelle vendite è un dato non trascurabile e forse riconducibile alle «parole d’ordine dell’epoca: marxismo, freudismo, alienazione» (Manetti), ma anche a quelli che Luperini e Corlito, nel loro recentissimo saggio a due voci, chiamano «i prodromi del Sessantotto» (Le cause e i prodromi del Sessantotto inIl Sessantotto e noi, Carocci 2025, pp. 21-32): la trasformazione delle università, concepite per la formazione delle élite e divenute invece centri di affluenza di migliaia di giovani dalle provenienze più varie (Libero è, ante litteram, uno di quei giovani); la crisi della famiglia tradizionale (inesistente quella di Denise, stanca e sfaldata quella di Libero); la ribellione delle donne al potere maschile (qui ancora incerta e declinata nei termini di una difficile emancipazione anche sessuale). Ma, se queste erano (e andrebbero verificate) le ragioni per cui il Noi degli anni Sessanta leggeva questa storia di Banti (Noi credevamo, il romanzo forse più fortunato della scrittrice, uscirà nel 1967), perché leggerla oggi, perché ipotizzare di proporla anche a un pubblico di lettori e lettrici giovani?
Perché si avvale di una struttura binaria
Il racconto è costruito su due rette parallele; che in un punto (alla fine) si incontrano. Il riferimento geometrico non è qui usato solo per esemplificare, ma per restituire l’ossatura reale, si vorrebbe dire intima, profonda della narrazione. Dopo la separazione, infatti, Libero e Denise non si incontrano e non si cercano, troppo impegnati a dimenticarsi e a cercare se stessi. Sono gli occhi «di smalto azzurro», i lineamenti delicati di Dantino a ricordare a Libero Denise. Sono gli amplessi desiderati o deludenti a ricordare a Denise Libero. O almeno: così sembra, prima di giungere al finale. Banti alterna i capitoli, dedicandone uno a lui, uno a lei, fino alla conclusione, quando i due, del tutto casualmente, si incontrano dopo anni, a Venezia. Prima di quel momento, la voce narrante si occupa separatamente di ciascuno e per ciascuno sceglie un registro diverso. I capitoli di Libero sono scanditi da una sintassi ampia, piana, che sembra volersi distendere sul paesaggio rurale cui il protagonista fa ritorno, come un qualsiasi figliol prodigo. La si direbbe quasi “naturalista”, se non fosse costantemente attraversata da sciami di tensione, scatti nervosi, scarti semantici: la campagna che intende raccontare non è più quella verghiana di Gesualdo Motta e nemmeno quella in cui Tozzi fa muovere, Con gli occhi chiusi, Pietro Rosi, figlio di un uomo restato contadino benché avesse presto mutato mestiere. È una campagna prossima alla città e Libero si muove tra l’una e l’altra facendo la spola. Nervoso, appunto. Irrisolto. Scontento. Spiantato.
A passo misurato, da montagnolo, Libero saliva la stradina rapida e stretta fra due muri rustici che conduceva al podere dove il padre era mezzadro. Erano anni che non vedeva la sua famiglia, l’aveva lasciata in una diruta casa dell’appennino, fra pascoli e boschi, isolata, e l’ultima notizia importante che ne aveva era questa: del trasferimento alle porte della città. Lui non si era curato di appurare le cause del trasloco che del resto il fratello maggiore, scrivendogli, non gli aveva spiegato: ma era stato appunto il pensiero di avere i suoi sistemati pressappoco in città a suggerirgli di rimpatriare. Il podere era piccolo, gli avevano detto, ma il padre era ancora robusto e poteva lavorarlo da solo, così il fratello si era impiegato in una tipografia e le sorelle un po’ lo aiutavano in campagna un po’ imparavano un mestiere. Non dovevano dunque passarsela male, come in montagna, e avrebbero potuto ospitarlo, almeno sul principio, dandogli il tempo di trovarsi un’occupazione. Senza contare la faccenda del bambino che presso la madre e le sorelle sarebbe custodito convenientemente. Un punto nero era dover spiegare la sua presenza, giustificare il proprio comportamento, chiedere, oltreché aiuto, comprensione. (p.44)
I capitoli di Denise presentano una sintassi ondivaga, sincopata, sfuggente; sulla quale l’indiretto libero s’innesta come una mala pianta e ogni «sì» diretto ed esplicito di Denise suona come quello di Gertrude. La ragazza, appena rientrata a casa, si è ammalata e la malattia ha offerto a lei e alla madre la medicina paradossale alla vergogna sociale e ai loro rapporti fragili:
Curioso espediente del caso, questa malattia, che per due settimane aveva abolito in lei ogni pensiero, ogni ricordo. (…) Forse era già l’autunno? Ma non lo chiedeva e non chiedeva neppure l’ora, adesso, era troppo piacevole rimanere così, nell’incertezza della giornate e della stagione.
Poi, a poco a poco, i ricordi tornarono, ma senza peso, come l’eco di un racconto ascoltato e ripetuto in tempi lontani. La sfida alle convenienze borghesi, il vangelo delle libertà sessuali, l’amante e il figlio abbandonati, il progettato viaggio esotico: fatti incredibili, favole… (…) Più volte durante la giornata madame Ravier sedeva in camera della figlia (…) chiacchierando volubilmente di soggetti futili, la moda del prossimo inverno, gli ultimi films, i capricci del tempo: ma senza mai toccare argomenti più impegnativi. Si tratteneva una mezzoretta, poi mandandole un bacio sulla punta delle dita si congedava con frasi vaghe: «devo andare… il notaio mi aspetta… ho una riunione alla Croce Rossa… ma sì, chérie, non te lo ricordi che sono stata infermiera durante la guerra?». «Sì» faceva Denise cogli occhi fissi sul volto della madre, leggermente dipinto, sotto i capelli d’oro pallido: una bella donna, ancora. Un broncio puerile le increspava le labbra bianche mentre la suora [che l’assiste a domicilio, ndR] cercava accortamente di rasserenarla. Povera maman, era stata così agitata durante la malattia, non aveva dormito, aveva chiamato tre specialisti celebri (…). Ma dove aveva preso Denise quell’orribile microbo? Il tifo è così raro, in Francia. Forse durante il soggiorno in Italia?
In Italia? Denise capì che la madre doveva aver inventato quel viaggio per coprire, con amici e conoscenti, la sua fuga da casa. (…) Era la verità, dopo tutto: non era stata la sua avventura con Libero uno strapazzoso, arido viaggio nel sud? (pp.80-82)
Nei capitoli alterni, il racconto – che procede speculare nel tempo, oppositivo nello spazio –, lo stile – che sceglie movenze sintattiche tra loro in frizione ma parole ugualmente inquiete e taglienti – sembrano inseguire, braccare i due protagonisti e l’umanità varia che gli si muove intorno, senza lasciare scampo in nessuna direzione; senza lasciare loro alcuna possibilità di sviluppo prospettico, come nell’ultima, concitata scena del romanzo:
Libero non aveva mai visto una donna svenuta e non credeva agli svenimenti: la giudicò morta e balzò in piedi, atterrito, chiamandola per nome, scuotendola. (…) Aveva voglia di scappare e le gambe gli si rifiutavano: chiunque in quel momento gli avesse chiesto cosa faceva nella stanza perché ci fosse venuto, non avrebbe saputo rispondere. In realtà si sentiva colpevole come se davvero avesse ucciso Denise. Ma lei riaprì gli occhi e lo fissò in silenzio: il suo sguardo era adulto, triste e quieto. «Effetto dei barbiturici (…) ne prendo sempre di più per dormire e una volta ne ho presi tanti che stavo per andarmene: fu Maurice [un medico, fra gli amanti di Denise, ndR] che mi salvò, il m’aimat, celui là, ma poi mi portò in clinica fra i matti, da allora non mi sono più riavuta (…) È tutto un pasticcio, mon vieux, amare, essere amati, far l’amore, non farlo, il corpo, l’anima. Ci capisci qualcosa? (…) Siamo sbagliati e c’inganniamo a vicenda (…) io non ti ho mai amato (…) ti prenderei come una medicina (…), ti pianterei un’altra volta (…) T’invidio, per te qualunque donna va bene e magari mi hai davvero guarito, proverò con altri, io pago». Ebbe un sorriso altero, orribilmente sarcastico. «Io pago sempre, e ho pagato anche te, volevi un figlio no? E io te l’ho regalato» (…) Così la faccia esangue fu per Libero una immonda bianca vescica che stillava turpi gocce di corruzione (…): un rustico moralista offeso cancellò in lui ogni discriminazione intellettuale, ogni traccia di pietà. (…) Allora Denise vide rinascere la faccia che detestava, tesa in una troce impassibilità: dovette rendersene conto perché con un gemito si coprì gli occhi. (…) Ma nel corridoio Libero si appoggiò alla parete e si accorse di singhiozzare. Adesso era sicuro di avere amato, di amare Denise: e che questo amore era l’unica cosa importante della sua vita di povero diavolo innamorato senza speranza delle cose che non potrà mai avere, non saprà mai usare, se mai gli toccassero, per l’oscura maledizione di una fame ambiziosa. (pp.421-423)
La struttura, insomma, è di per sé portatrice non solo di uno sguardo doppio e doppiamente critico, ma simulacro di quelle ambiguità e di quelle ambivalenze culturali e sociali che, trascurate o addirittura ignorate fino alla rimozione, di fatto hanno prodotto buona parte delle angustie, delle miserie morali e materiali in cui abbiamo finito per trovarci invischiati in questo nostro presente cinicamente abbandonato dalla prospettiva; da ogni prospettiva che non sia economica.
Perché pone la questione di genere in una cornice di senso inusitata
Ci siamo consentiti le lunghe citazioni precedenti perché ci sostengono nella individuazione di (almeno) altri due “perché”.
Che nei romanzi delle scrittrici della generazione di Banti la relazione uomo-donna, coniugale in particolare, sia spesso centrale non dovrebbe sorprendere più nessuno: gli studi di genere, anche in ambito letterario, hanno ampiamente dimostrato come quella relazione polarizzante diventi spesso chiave di lettura dei rapporti di forza in generale, delle sperequazioni sociali, delle dinamiche tormentate di desiderio, accettazione, respingimento dell’altro-da-sé; e del resto, se davvero servissero conferme, basterebbe leggere senza riserve anche solo alcuni di quei romanzi rappresentativi (si pensi, ad esempio, a Menzogna e sortilegio o a Quaderno proibito). Liquidare dunque quella struttura binaria come strumento di rappresentazione ora del maschile ora del femminile ci sembra francamente una ingenuità; come lo sarebbe ricondurre l’interesse di Banti per il tema dell’emancipazione femminile (così vistoso in Artemisia) alla sua (notissima; e pertanto ci consentiamo di ometterla) vicenda biografica di “studiosa moglie di uno studioso”. Indubbiamente ne Le mosche d’oro c’è un elemento che infrange una convenzione narrativa vecchia di secoli: la vicenda di seduzione e abbandono non riguarda una donna, ma un uomo; e a dover gestire il “frutto della colpa” non è lei ma lui. Non serve tuttavia un lettore particolarmente attento per osservare che – di fatto – a scontare socialmente la colpa non è lui ma lei. Libero affida il bambino alle cure della madre, delle sorelle e (soprattutto) della (amata, docile, mite, intelligente) cognata (che non ha figli; mentre una delle sorelle ne ha una e anche questa nata da una relazione “scandalosa”) e, salvo il tentativo in extremis, maldestro e velleitario, di riappropriarsi della educazione del bambino, lo lascia a vivere in campagna, preferendo per sé la città e preservando la sua libertà di movimento. Denise invece è costantemente preoccupata di celare, anche sul corpo, i segni della gravidanza; e sua madre lo è anche più di lei: «Sei una donna, hai un passato che non ricorderemo, gli sbagli insegnano a vivere, l’importante è sapersene liberare e tu te ne sei liberata bene» (p.93). Ma non è tutto. La questione di genere rimanda qui a una cornice di senso ancora più ampia, in cui, come si evince dalla ultima citazione estesa, le relazioni (non solo quelle uomo-donna) si collocano entro dinamiche economiche di sapore squisitamente verghiano che la Guerra, nonostante le tragiche fratture di cui si è resa artefice, non è evidentemente riuscita a disinnescare; anzi. Quando si parla di dinamiche economiche non si intende semplicemente la registrazione di una vistosa disparità fra i due protagonisti, con annesse considerazioni moralistiche su quanto i soldi facciano o non facciano la felicità («il denaro è importante, serve anche ad essere felici (…) qualche volta», p.93: è la chiosa immancabile della ineffabile Simone Ravier, madre di Denise). La ricchezza di Denise, spropositata, sperperata e inidonea a risarcirla della povertà affettiva e spirituale della sua esistenza, non è funzionale a farne l’eroina negativa della vicenda, il catalizzatore del biasimo; al contrario, il suo cinismo («ho pagato anche te») innesca l’unico momento-verità, l’unico momento di autoconsapevolezza di Libero, per il resto ostinatamente cieco sui limiti delle sue scelte e di sé (esemplari le pagine della visita alla Casa del Popolo fondata dall’antico compagno partigiano, pp.201-212): nonostante la superiorità intellettuale e morale che ha sempre ostentato nei confronti della giovane amante (e non solo nei suoi), facendosi vanto della sua provenienza modesta e forte delle sue generiche istanze esistenzialiste, ha amato (così pensa) Denise per ciò che avrebbe potuto rappresentare per lui: la conquista, il possesso di quelle cose che diversamente sa che non possiederà mai, «innamorato senza speranza delle cose che non potrà mai avere, non saprà mai usare, se mai gli toccassero, per l’oscura maledizione di una fame ambiziosa».
Perché rivela il nesso tra dimensione etica e dimensione psichica
In altre e più semplici parole, Libero non è migliore di Denise perché è povero e perché si porta a casa il bambino anziché affidarlo al brefotrofio, come tanti altri orfanelli della letteratura. E Libero non è Geppetto. Nei confronti del bambino ha sentimenti confusi, cui non è estranea la rivalsa sulla compagna che li ha abbandonati; tornando in Italia trova nella ricerca di una sistemazione per il figlio il pretesto per non dover ammettere il fallimento sul piano intellettuale, lo scacco umano, politico e professionale e, quando infine porta a vivere con sé «il Dantino» – recalcitrante e ostile – è nella aspettativa di un risarcimento, di un investimento piccoloborghese sulla istruzione del figlio e nella pretesa superiorità della sua formazione rispetto alla cultura contadina dei familiari, cui però è debitore per l’accoglienza del bambino. Alla casa dei suoi si sente estraneo quanto ‘Ntoni alla casa del nespolo quasi cent’anni prima, e senza le sue scriminanti; ma lo sorprendiamo spesso in pensieri e atteggiamenti che oggi non esiteremmo a definire patriarcali e maschilisti.
D’altra parte, l’abbandono del figlio da parte di Denise, se fosse a tutti noto, probabilmente andrebbe incontro alla condanna sociale forse anche più dell’averlo concepito fuori da un matrimonio. Per quell’abbandono, la voce narrante non cerca una vera e propria giustificazione nella relazione anaffettiva della giovane con la madre, ma di quella relazione traccia comunque con acume e spregiudicatezza la fisionomia, attraversando i pensieri reciproci di entrambe: di Simone (cui è dedicata una lunga e importante digressione, pp.91-124) e di Denise:
Quella pelle di seta, quei capelli fini evocavano l’immagine di Denise bambinetta e le proprie sensazioni di giovane madre. Ma le parole (…) la ricollocarono nella posizione di difesa in cui si manteneva da quando la figlia, convalescente, chiedeva continuamente di lei, la voleva accanto: un controllo, quasi il ricatto della giovinezza sfrenata alla maturità declinante (“se vuoi che non mi perda devi rinunziare a te stessa, pensare solo a me”). (p.94)
Si può parlare di relazione malata? O si tratta semplicemente di una istanza ancestrale, quasi primitiva di autoconservazione? È in questo nodo che Banti sembra individuare l’origine di una progressiva perdita della dimensione etica come bisogno, come necessità interiore. Senza indulgere in psicologismi, salda solidamente l’istanza morale con una condizione premorale, interamente psichica: con la tutela primigenia e primaria del sé.
[1] «Sollecitata da Pietro Cimatti sul significato del titolo, Banti rimanda a un “proverbio toscano che non si può ripeter tutto, ma insomma, vuol dire che, ronza ronza, il moscon d’oro alla fine cade e s’impegola nel brago”» (dalla Postfazione di B. Manetti, p.432).
Articoli correlati
No related posts.
-
L’interpretazione e noi
-
Nel labirinto: Italo Calvino filosofo
-
Su le Lettere “inutili” di Bianciardi
-
“Egregio Dottor Levi/Caro Signor Riedt …. Caro Primo/Caro Heinz”. Sul carteggio tra Primo Levi e Heinz Riedt
-
Il Pirandello di Santo Mazzarino: un ‘greco di Sicilia’ interessato alle vicende della politica
-
-
La scrittura e noi
-
La libertà non negoziabile della scrittura: quattro domande ad Andrea Bajani
-
La scrittura come un coltello: la lama per incidere nella realtà
-
Perché leggere “I giorni veri. Diario della Resistenza” di Giovanna Zangrandi
-
Perché leggere Le mosche d’oro di Anna Banti
-
-
La scuola e noi
-
«Sentinella, quanto resta della notte?».[1] Sulla militarizzazione delle scuole italiane
-
Nel Grando…
-
Intrecci tra letteratura e vita: una proposta didattica intorno alle lettere su Clizia-Irma Brandeis
-
Insegnare il limite: tre lezioni sul mito
-
-
Il presente e noi
-
Intervista a Aidan Chambers (1934-2025)
-
Individuo e Persona nelle Nuove indicazioni Nazionali
-
Morto un Papa…
-
Se tre punti vi sembran pochi
-
Commenti recenti
- Martina su «Vi spiego la questione palestinese»: un’insegnante e due libriUn tantino di parte. Forse era meglio non ascoltare l’insegnante di letteratura e fermarsi al…
- Gianluca su Su Adolescence/2. Per una recensione di AdolescenceUna vera schifezza. Era tempo che non guardavo una serie così piatta, piena di dialoghi…
- Nadia Molinari su Alla fine della scala il Nulla. Alcune riflessioni su “Luisa e il silenzio” di Claudio PiersantiLuisa sono io, mi sono riconosciuta in pieno nella protagonista, un racconto realistico di una…
- Sonia Badino su Individuo e Persona nelle Nuove indicazioni NazionaliLettura illuminante e coinvolgente, conferma del ricordo che conservo delle sue lezioni
- Alice su Individuo e Persona nelle Nuove indicazioni NazionaliArticolo super interessante! Scritto con cura e rigore argomentativo.
Colophon
Direttore
Romano Luperini
Redazione
Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Lascia un commento