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diretto da Romano Luperini

Perché leggere “I giorni veri. Diario della Resistenza” di Giovanna Zangrandi

C*, autunno 1942

[…] Abbiamo parlato a lungo questo pomeriggio attorno ad una tazza di tè con poco zucchero, amaro con amaro, questo ragazzo tanto più giovane di me come se fosse mio padre.

Stranamente si è lasciato andare a parlare di se stesso, della sua adolescenza prima in un ambiente operaio della bassa, capannoni e rotaie. Lui venne sulle Alpi per ragioni di salute, dice che non ci si è trovato male, no, per due anni. “Di passaggio”, senza possibilità di radice (come del resto io da cinque, come altri di noi immigrati dopo vent’anni).

Forse per una frattura di inconfessato dolore – sotto la scorza di menefreghismo e cinismo con la quale ci imbellettiamo – oggi Angelo si è aperto a raccontare di sé, antifascista convinto dall’infanzia, si è buttato a valutare duramente questa guerra che stiamo perdendo, pare: non ci si era mai pensato di poterla perdere sul serio, ma che. Parlare tra noi: definire e emettere sul tavolo qui, tra sbocconcellate fette di nero pane, tutte le incoscienze e le criminalità che stanno succedendo nella nazione e che ci fanno sottoscrivere, così, con insignificanti firme nostre messe in fretta senza guardare cosa avvalliamo. Questa decantata Nazione Imperiale in cresta alla quale viviamo, lei stesa là dietro alle dipinte barriere di montagne, alle rocce che andavamo a scalare, io e anche Angelo, quarti gradi e quinti a rischiar la vita e fare importanti queste cose al posto di altre. […]

Angelo ha stretto le labbra sottili, il suo viso scanzonato e giovane assume un un’espressione amara: “Perché non conta sfottere: di là da quell’altopiano di roccia là in fondo c’è l’Italia e la sua coda; da quelle due cime lì … ti ricordi nei giorni sereni, le nostre domeniche da alpinisti? Si vedeva un gran pezzo d’Europa, mi fai dire parole grosse, ma è così, capiscitelo e non farmi far scuola adesso che ho finito. Finito, mica era il mio mestiere.”

“Nemmeno il mio, è stata solo una trappola per perdere tempo. Sapevo scrivere delle equazioni impossibili e facevo la tesi in chimica atomica, ma andavo in cucina da mia madre a domandarle cosa diavolo fosse la democrazia che usava lei quando era ragazza.”

 “E cosa ti disse?”

“Rise amaro, ci chiamò dei cuccioli montati a fare i lupi, disse delle cose che non mi piacevano. Così andai al cinema per non pensarci, ecco.”  “Ecco fatto l’Impero, porco boia… “Ringhia Angelo. “Ora vado, ciao, chissà se ci rivedremo, sta in gamba, ciao, pensaci.” Ha gridato le ultime parole da in fondo alla scala. (G. Zangrandi, I giorni veri. Diario della Resistenza, con uno scritto di B. Tobagi, Milano, Ponte alle grazie, 2023, pp. 25-27)

Perché pone l’imperativo politico della scelta

Le pagine iniziali del memoir I giorni veri. Diario della Resistenza di Giovanna Zangrandi (1910-1988), intitolate Quasi un prologo, presentano uno dei cuori tematici del libro: quello dell’imperativo politico della scelta di campo, una scelta fatta in piena consapevolezza dall’autrice solo nel cuore del secondo conflitto mondiale. La giovane Anna, nome di battaglia di Giovanna (a sua volta nom de plume di Alma Bevilacqua), infatti, ha attraversato l’adolescenza e la giovinezza nella scuola fascista ed è stata iscritta al GUF per trascinamento e senza convinzione, nonostante l’opposizione della madre, convinta antifascista, che considera la ragazza e i suoi coetanei “cuccioli montati a fare i lupi”.

Il diario di Zangrandi si apre nell’autunno del ’42 quando Angelo G., suo coinquilino a Cortina dove la donna vive da quando ci si è trasferita da Bologna, deve lasciare l’insegnamento e la vita civile perché inviato in Russia. Al termine del loro scambio di opinioni intorno a una tazza di tè amaro la voce del giovane uomo le grida dalle scale di “pensarci”. A cosa dovrebbe pensare, Giovanna? Al contrasto tra quella che, fino ad allora, è stata per entrambi una sorta di fuga sulle Alpi e la vita vera, che reclama la loro presenza attiva, che impone di scegliere: “il seme che ha gettato con il dialogo di oggi è questo germe di dolore che mette filamenti”, conclude a sera la donna ripensando alle parole di Angelo mentre guarda, avvolta in una coperta, la “stupenda conca felice” dove vive (p.31).

Il diario della resistenza di Zangrandi, dopo il breve prologo, tuffa il lettore nell’arco temporale della guerra civile (8 settembre 1943 – 2 maggio 1945) presentando altri momenti nei quali scegliere e schierarsi sarà necessario, ineludibile; è da questa istanza politico-morale che si comprende il senso del titolo. I “giorni veri” sono quelli nei quali Giovanna scopre chi è davvero come cittadina e come donna, sostiene Tobagi nello scritto introduttivo: divengono “veri” i giorni nei quali si è sodali di chi combatte per la liberazione dagli occupanti; sono “giorni veri” quelli nei quali, ad anni di distanza, si torna a raccontare ciò che è stato, senza edulcorare nulla.

Si pensi al momento in cui, appena dopo l’armistizio, l’io narrante, che da insegnante può viaggiare in treno senza dare nell’occhio, decide di diventare staffetta con la complicità dei ferrovieri locali: “ci sarà da vivere –conclude – e bisognerà avere i riflessi pronti, credo” (p. 35). Il primo viaggio importante con questo compito – datato ottobre ’43 – lo fa a Bologna per recuperare del materiale esplosivo che nasconde sul suo stesso corpo, non senza un tocco di autoironia:

Ho cacciato alla svelta dinamite ed inneschi, nitrogelatina nei luoghi più scarni del mio corpo; sono magra, piallata. Ci son venute certe maggiorazioni (provvidenziale un certo reggipetto vuoto che mi ha imprestato la moglie di un ferroviere). (p. 52)

Scegliere – in tempo di guerra e di clandestinità –  implica anche decidere non solo per il proprio destino ma anche per quello altrui; a Ester, cara amica della madre che le raccomanda di non uccidere, Giovanna risponde: “Forse dovremo farlo. Non mi faccia promettere niente” (p.51). Tuttavia decidere tra la vita e la morte altrui non è cosa che si possa fare a cuor leggero. Esemplare l’episodio datato autunno 1944 quando, nel furore della guerra civile, mentre i paesini del Cadore sono messi a ferro e fuoco dai nemici, arrivano in brigata due disertori tedeschi che cercano di raggiungere il vicino confine con l’Austria. Con la rabbia nel cuore per i compagni già persi, per i paesi accerchiati e le popolazioni civili confuse e impaurite, Giovanna rimemora la notte passata con il compagno Severino, nel dubbio se ammazzarli o se far loro salva la vita:

Loro due fissano il fuoco estranei e intorcoliti di freddo, io e Severino ci finiamo quel discorso con gli occhi, parliamo nel nostro dialetto incomprensibile, dice: “Lo faresti tu?”

“Non mi piacerebbe.” […]

Severino crolla su di una zocca, gioca con la nove-corto e mi guarda, ha il dito nell’occhiello del grilletto e la fa ruotare. Provo a dire adagio, quietamente, segnando col mento il sole, il confine: “Guarda là, non si potrebbe scortarli fino là, oltre Comelico, sbatterli verso casa?”

“Ci andresti tu, Anna? Non abbiamo troppi uomini”.

“Sì, ma armata e con un altro, dammi qualcuno, Marcora, che so io.”

“Parli tu, andare…” Severino mi guarda, accenna le mie scarpe legate col filo di ferro per non perdere le suole. “Così ridotta non ce la fai fin là e tornare, proverò io e speriamo che non sia ancora uno sbaglio” (pp. 160-161)

Perché è un diario antiretorico

I giorni veri. Diario della Resistenza esce nel 1963 dopo tre anni di lavorìo svolto su una serie di quaderni, appunti, promemoria cifrati – i cosiddetti Quaderni della Memora –  conservati in una custodia per maschera antigas e rimasti sepolti nell’omonimo anfratto montuoso dove l’autrice li recupera dopo la liberazione. Sono trascorsi quasi vent’anni dalla fine della guerra: la “smania di raccontare”  e il desiderio di celebrare la “tensione morale” di quegli anni (I. Calvino, Prefazione al Sentiero dei nidi di ragno, 1964) sono stati fagocitati dalla ricostruzione e dall’incipiente Boom economico; tuttavia proprio in questo periodo escono alcuni dei libri sulla resistenza che, più di quelli della cosiddetta stagione neorealista, sono destinati a restare in virtù del tono antiretorico: Una questione privata (1963) di Fenoglio  e I piccoli maestri (1964) di Meneghello.

Il diario di Zangrandi, dettato com’è da una peculiare spinta generativa di ordine politico, si inserisce a pieno titolo in questo filone narrativo degli anni Sessanta. La scrittrice sente di dover ribadire l’imprescindibilità dei valori resistenziali da cui è nata la Repubblica proprio quando questi ultimi sono violentemente messi in discussione dalle stesse istituzioni. Preziosa, in questo senso, è la prefazione di Marina Zancan all’edizione del 2012 de I giorni veri; la studiosa insiste come, “sul piano politico, la spinta a riproporre i valori etici della Resistenza le derivi dalla realtà dell’Italia, nel 1960 segnata da forti conflitti sociali e sanguinose repressioni”.

Il diario di Anna è antiretorico: lo stile aspro e sincopato dell’autrice, intessuto di frequenti inversioni, il ricorso a una sintassi essenziale, l’impiego di un lessico montanaro, la stringatezza con cui vengono narrati i momenti più drammatici o le rare occasioni struggenti, la lucida autoanalisi dei propri sentimenti contribuiscono a cucire una narrazione vera, perché priva di ogni sfumatura eroica o celebrativa.

Bastino queste poche righe tratte dalla seconda parte del libro, quando, nel corso del durissimo inverno del ’44, le brigate partigiane vengono sciolte dal CLN; i partigiani e le partigiane sono repentinamente costretti, per conservare le armi, a darsi alla clandestinità nella clandestinità, al contempo braccati dal nemico e privi del sostegno degli Alleati: “È l’ordine del CLN d’accordo con gli alleati, di sciogliere le brigate, nascondere le armi […] Adesso che siamo compromessi e indiziati, dovremmo tornare nei paesi e farci mettere sulle forche”. (p.171)

Passato lo sgomento iniziale, Anna decide di nascondersi in alta montagna sulle Marmarole con altri due compagni, Leo e Lepre, agili e veloci come lei sugli sci:

La Memora è circa a quota duemila, una gran roccia esposta al sole, non grotta, ma arcuata abbastanza per proteggere dalle intemperie e dalle slavine […] C’era già, in questo belvedere-casamatta di Dio, una specie di sfasciato baracchino di rami contesti, lo fecero degli sbandati del 1943, lo riintessiamo di dassa accuratamente, non per il vento, ma per il riverbero del fuoco alla sera, dai posti di guardia tedeschi in fondovalle vedrebbero; impigliato dentro c’è un giovane faggio, Leo ne spunta i rami, lasciando gli stecchi, dice che farà da attaccapanni e da credenza per le gavette. […]

È che in questi primi giorni di sistemazione del nostro “Distaccamento Memora”, la sera, siamo proprio a pezzi dal gran andare, salire e scendere per ghiaccio, foresta e rocciaia, trafficare e lavorare. (pp. 186-187)

Le pagine indimenticabili ambientate sulla Memora (che per ancestralità e durezza ricordano il racconto “La carne dell’orso” di Primo Levi, poi rinominato “Ferro” nel Sistema periodico) sono quelle che permettono a Zangrandi di trasfigurare letterariamente il suo attaccamento asciutto, umile e totale per questi luoghi, già anticipato nelle pagine di Quasi un prologo, quando il cortocircuito tra Natura e Storia – altro tema che percorre tutto il libro – viene acceso dal dialogo con Angelo.

Perché ribadisce l’ambizione delle donne a un trattamento paritario nella guerra di liberazione

Benedetta Tobagi, con La resistenza delle donne ha il merito di aver felicemente valorizzato l’importanza che le donne hanno avuto nel corso della guerra di liberazione. Certo, alcune tra di loro hanno potuto ricoprire un ruolo politico o politico-culturale di rilevo anche nel secondo dopoguerra (si pensi a Tina Merlin, a Rossana Rossanda, a Joyce Lussu, a Tina Anselmi, ad Alba de Céspedes, ad Ada Gobetti, a Bianca Guidetti Serra) ma la maggior parte, a guerra finita, è stata ricacciata nella dimensione domestica. “Zitte e buone” è il capitolo che Tobagi dedica a questo trattamento di tipo patriarcale. Troppo scomoda e ingombrante, chiacchierata e ambigua la loro straripante vitalità, per essere ammessa nella normalità perbenista della ricostruzione.

Del resto anche l’accettazione della loro presenza in banda, due anni prima, non era stata priva di diffidenza e ostilità e I giorni veri lo testimonia pienamente. Infatti le missioni di Giovanna sono apprezzate fintanto che la giovane donna macina chilometri in bicicletta o si sposta in treno e, grazie ai suoi sopralluoghi, funge da basista in paese; da provetta topografa fornisce “i disegnetti in pianta e prospettiva, […] punti, isoipse, coordinate” corredati di istruzioni precise per le azioni di sabotaggio degli uomini:

Ecco qui: tutto spiegato con la mia chiara calligrafia. Purtroppo anche le cose negative: e cioè che il Felizòn è forra strettissima e che, fatti saltare i ponti, tanto strada che ferrovia resterebbero interrotte poco, sarebbe facile buttare una passerella; meglio far crollare i roccioni dove è la galleria (p. 104)

Viceversa, quando si tratterà di accettarla in banda, nonostante sia ricercata dai nazi-fascisti proprio in virtù delle piantine disegnate che la compromettono come partigiana, il comandante della brigata Garbin le fa sapere che le donne non sono presenza gradita. Il passo è datato luglio ’44:

È ovvio che qui, nel paese sulla strada non posso restare; […] un agente di Garbin mi dice che in banda non vogliono donne, si sa, mi dovrò arrangiare. […] Dai ferrovieri viene notizia che gendarmi travestiti sono andati a cercarmi a casa, che c’è mandato di cattura. E in banda non vogliono donne. (pp. 188-119)

Tuttavia in virtù del carattere volitivo e della resistenza fisica, della sua conoscenza di quelle montagne, della lealtà fidatissima, dopo un periodo di clandestinità solitaria in Forcella Piccola (“Nessuno mi manda a chiamare, si sono dunque dimenticati di me?”), la protagonista è riconosciuta a pieno titolo accanto ai compagni, alla macchia.

È un diario prezioso, quello di Zangrandi, perché restituisce il ritratto di una donna di grande coerenza: ogni scelta – a partire da quella di vivere la montagna come atto di libertà emancipativa – è portata fino in fondo, costi quel che costi. Le ragadi profonde alle mani, il sangue mestruale che cola lungo le cosce, l’abitudine al sonno in alta montagna, nel saccopiuma buttato in luoghi di fortuna, la determinazione a “continuare a fare quel che volevano i morti” sono gli elementi portanti de I giorni veri e tornano, inflessibilmente duri, anche ne Il campo rosso. Qui Zangrandi narra, quasi senza soluzione di continuità con il libro precedente, la costruzione del Rifugio Antelao, dove aveva sperato di poter vivere con Severino Rizzardi, detto Tigre, ucciso negli ultimi giorni di guerra:

In un tempo lontano […] voleva amore semplice come le cose della terra, se pensava all’amore credeva di essere un torrente, là dove nessuno ancora fece dighe e l’acqua è gelida, violenta e pulita, ma balenava un attimo quell’idea di torrente o una di un prato o una di carni dure di bambini, cose vive come cuccioli che escano ruzzando dalla tana. […] Ma fa nulla. (G. Zangrandi, Il campo rosso. Cronaca di una estate – 1946, Cai Edizioni, 2024, p. 32)

Vi si legge un altro capitolo, poco noto e ancora una volta antiretorico, delle vicende di questa donna della Resistenza.

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