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Equo canone. Ovvero del canone letterario a scuola/2 Tre domande a Riccardo Castellana

(a cura di Luisa Mirone)

Rispetto all’insegnamento della letteratura italiana, le Linee guida nazionali per gli istituti tecnici e professionali e le Indicazioni nazionali per i Licei, pur nella diversificazione dei curricula, sono a tutt’oggi storicamente orientate. Dentro questo percorso storicoletterario, vengono privilegiati, talvolta in modo rigorosamente prescrittivo, alcuni autori, tradizionalmente presenti nel canone, rispetto ai quali, nei tempi contingentati dell’insegnamento scolastico, le aperture al Novecento o all’estremo contemporaneo assumono i connotati sfumati di suggerimenti o sollecitazioni. I docenti e le docenti di letteratura italiana si trovano pertanto oggi nelle stesse difficoltà di coloro che ebbero insegnanti quand’erano fra i banchi; né è bastata a risolverle (semmai le ha amplificate) la “riforma” che ha imposto l’anticipazione della trattazione della cosiddetta letteratura delle origini al secondo anno del biennio. Abbiamo chiesto pertanto a studiosi e studiose vicini e vicine al mondo della scuola di rispondere a tre domande-chiave per provare a ridefinire non tanto i confini, quanto i parametri del canone scolastico. Pubblicheremo a settimane alterne le loro risposte. Sono già uscite quelle di Silvia Tatti.

D1: Ha scritto Cesare Segre (Critica e critici, Torino, 2012): «la filologia è proprio lo sforzo di capire; e la continuità geografica e storica ci fornisce strumenti abbastanza efficienti per seguire gli sviluppi del modo di significare ed esprimersi delle manifestazioni artistiche».

Ritiene che la storia della letteratura sia ancora oggi, a scuola, uno strumento valido per l’approccio ai testi, uno strumento ancora capace di coniugare insieme appartenenza e scarto, contiguità e distanza, identità e alterità?

R1: La storia della letteratura resta ancora oggi, secondo me, un ottimo paradigma conoscitivo e didattico, nella scuola superiore come all’università, ma va in entrambi i casi controbilanciata con un’analisi del testo rigorosa e puntuale, come lo stesso Segre peraltro ha sempre fatto e proposto di fare. Vanno recuperate perciò, in modo intelligente e senza dogmatismi, le categorie del formalismo, della narratologia, e dello strutturalismo: l’obiettivo futuro potrebbe essere quello di una storia delle forme e delle strutture letterarie, ispirata magari a un capolavoro della critica novecentesca come Mimesis di Erich Auerbach, dove le dinamiche di identità e alterità, tradizione e scarto sono ben visibili.

D2: Secondo Remo Ceserani «Il nostro compito critico e storiografico prioritario è proprio la ricognizione e la ricostruzione dei sistemi tematici e formali, nella consapevolezza che è proprio nella diversa costituzione di quei sistemi che l’immaginario rivela la sua capacità di raccordo con i movimenti profondi della società, le sue strutture economico-sociali, materiali, culturali, linguistici» (Guida breve allo studio della letteratura, Bari-Roma, 2003).

Esaurita da tempo la funzione delle narrazioni storicoletterarie sul modello desanctisiano, è possibile, a suo avviso, proporre agli studenti e alle studentesse delle scuole superiori di percorrere la letteratura attraverso itinerari tracciati dai grandi temi e dai generi? E, eventualmente, quali temi indicherebbe?

R2: Qui vedo una divaricazione molto netta tra didattica liceale e universitaria. Nel primo caso, una storia dei temi (e dei generi) letterari è senz’altro efficace, perché stimola i processi di identificazione con i giovani lettori. Il rischio dietro l’angolo, però, è quello dell’attualizzazione selvaggia, la letteratura come pretesto per parlar d’altro, la perdita di aderenza filologica al testo. A livello universitario, quello che almeno io cerco di proporre ai miei allievi è invece un salto di qualità: non parto mai dai temi, ma dalle forme stilistiche e dalle strutture narrativa, e cerco di mostrare attraverso la storia delle forme il legame profondo tra la letteratura e la storia. È più difficile ma anche più appassionante, e un obiettivo ormai maturo che un’équipe di ricercatori e di docenti potrebbe porsi è, come dicevo, quello di realizzare una storia delle forme e delle strutture letterarie: per l’università e successivamente anche per le scuole superiori, perché non bisogna dimenticare che in passato è stata proprio la manualistica universitaria ad offrire indicazioni per quella scolastica (penso per esempio al manuale per generi e problemi curato da Franco Brioschi e Costanzo di Girolamo nel 1993, la cui impostazione è stata ripresa in seguito anche da alcuni fortunati manuali per le scuole superiori).

D3: Nel corso di un importante seminario nazionale di formazione (COMPITA, Tivoli, 2015) cui prendevano parte docenti di circa cinquanta scuole secondarie d’Italia, Romano Luperini, invitato, con altri notissimi studiosi, a esprimersi sul canone scolastico, lanciò ai gruppi di lavoro una sfida: individuare dieci autori (e dieci opere) imprescindibili della letteratura italiana che potessero costituire una sorta di canone essenziale ed esemplare. Non si trattava di salvare il salvabile, ma di individuare quali voci – tra quelle già consegnate alla tradizione nazionale – fossero ritenute capaci di dialogare con l’Europa, di rappresentare l’Italia entro una più ampia (e oggi più che mai necessaria) dimensione europea. Fu una prova molto difficile, e non se ne venne a capo.

Le proponiamo la stessa sfida, ampliando la rosa a quindici nomi e motivando le sue scelte.

R3: Per rispondere partirei da una premessa: il canone della letteratura italiana ormai è stato fissato in via definitiva, soprattutto per i primi secoli, e la mancanza di un dibattito sulla letteratura al di fuori della cerchia ristretta degli specialisti, quale era ancora possibile fino a una trentina d’anni fa, rende improbabili grossi sconvolgimenti o recuperi. I giochi sono fatti, insomma, con un piccolo (molto piccolo) margine di intervento sul Novecento. Per la letteratura italiana antica, non vale neanche la pena di ripetere perché Dante, Petrarca e Boccaccio debbano essere considerati i fondatori della nostra identità culturale. Lo sono e basta. Lo stesso vale per il Rinascimento di Machiavelli e di Ariosto e per Tasso. Per il Barocco invece non indicherei nessun nome, anche se non mi dispiacerebbe se il Cunto de li cunti (in traduzione o con testo a fronte) scalzasse una volta per tutte il virtuosismo vuoto di Marino, mentre per il Settecento è molto meglio, secondo me, far leggere un’intera commedia di Goldoni anziché brani antologici del Giorno di Parini, la cui complessità lessicale e sintattica richiede una preparazione più avanzata (e per gli stessi motivi escluderei, sebbene a malincuore, Alfieri). Anche l’Ottocento, come il Trecento, ha ormai un suo canone ben codificato, al cui centro stanno Manzoni, Leopardi e Verga, mentre non punterei troppo su Foscolo, che mi pare molto meno innovativo e problematico, oltre che più retorico. Leggendo I promessi sposi e il Verga verista un giovane lettore si fa un’idea dello sviluppo del realismo ottocentesco, soprattutto se il docente è capace di insistere sulla specificità delle strutture narrative, per arrivare a capire, poniamo, il monologismo di Manzoni contro la polifonicità di Verga. Di D’Annunzio, poi, è arrivato il momento di sbarazzarci una volta per tutte.

È chiaro che nella didattica liceale occorre dare il massimo spazio al Novecento, ma proprio l’abbondanza di nomi rende il compito particolarmente arduo. Tra i grandi autori del secolo scorso la mia particolare preferenza va a Pirandello, Tozzi, Svevo per la narrativa, e a Montale e Saba per la lirica.  Restano fuori, di nuovo, a malincuore, nomi forse altrettanto importanti (Ungaretti, ma soprattutto Gadda e Calvino), però in fondo penso che il modernismo dei primi tre rappresenti bene il clima di tensione tra avanguardia e tradizione che si respirava in Italia nei primi trent’anni del Novecento, e credo che la loro opera costituisca il presupposto di molti sviluppi della narrativa successiva. (Nel caso di Federigo Tozzi, ammetto di essere un po’ di parte, avendo dedicato a quest’autore vent’anni del mio lavoro di critico, ma posso contare sul giudizio di critici autorevoli come Borgese, Debenedetti, Baldacci e Luperini). Per la poesia, soprattutto Montale resiste ottimamente, checché se ne dica, agli acciacchi del tempo, e certe liriche degli Ossi e delle Occasioni (come peraltro alcuni canti di Leopardi, il primo dei moderni) sono ancora oggi capaci di dare forma alla nostra interiorità più profonda e al nostro atteggiamento complessivo di fronte alla vita: nessun testo meglio dei Mottetti, per esempio, è riuscito a fissare il senso della lontananza e della separazione, l’assedio della modernità alla cittadella dell’io e il sogno impossibile di un ricongiungimento con quanto abbiamo perso per sempre. 

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