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diretto da Romano Luperini

Contu 20070109 06

Portare a spasso il canone. (Uno stress test alla Letteratura italiana)

 

 Non tutto il vagare viene per nuocere

In quindici anni di carriera scolastica, dieci da precario, gli ultimi cinque di ruolo, ho dovuto cambiare ogni anno scuola, sede, classi. Se per un verso ciò ha generato la fatica di dovere sempre ripartire da zero, da un altro punto di vista mi ha permesso di fare esperienza di situazioni estremamente diversificate: ho insegnato dagli istituti professionali ai licei, ho conosciuto e apprezzato territori diversi, mi sono confrontato con organizzazioni scolastiche differenti. Tra i vantaggi di questo vagare c’è stato anche quello di sottoporre alla prova della classe tutta la Letteratura italiana dalle origini ai giorni nostri, in contesti eterogenei. Oltre all’ arricchimento personale, ho potuto maturare a riguardo una serie di considerazioni che hanno a che fare con la spendibilità del nostro canone letterario nella Scuola d’oggi.

Una domanda impertinente

Nei primi anni in cui ho fatto l’insegnante sono entrato in aula con un bagaglio di autori e pagine per me imprescindibili, derivanti dalla mia formazione: dei veri e propri punti fermi su cui non avrei ipotizzato la possibilità della messa in discussione. Alla prova della classe ho sperimentato, specie nelle scuole difficili (istituti tecnici e professionali), come tali certezze non lo fossero dal punto di vista della quasi totalità degli studenti. Il fatto è che ogni anno sempre di più mi sono andato accorgendo che gli studenti, se decidono di accettare gli autori (con un se grande come un palazzo), li accettano non in sé ma per sé, senza troppi complimenti. Si potrebbe obbiettare che tale prerogativa ci sia sempre stata e che gli studenti non debbano accettare alcun che, quanto limitarsi a studiare. In realtà mentre in un passato nel quale anche io mi metto la tradizione per quanto indigesta appariva comunque incontestabile, oggi la situazione è evidentemente cambiata. Per gli studenti oggi non esiste alcun autore dovuto, punto. Dirò di più. A un certo punto io stesso mi sono trovato più volte, nel procinto di presentare un’opera o un autore, a intuire con largo anticipo chi o cosa avrebbe funzionato e chi o cosa avrebbe miseramente fallito. E non solo per il livello sempre peggiore degli studenti. La domanda impertinente che a un certo punto mi sono fatto è stata perciò questa: posto che io sappia fare al meglio il mio mestiere (conditio sine qua non) quest’opera o quest’autore falliscono in classe perché «ah, non ci sono più gli studenti di una volta, o tempora, o mores» o forse quest’opera o quest’autore, o tempora o mores – sì vabbé, mostrano irrimediabilmente il fiato corto per l’epoca e per la sensibilità attuale?

Un processo proibito

Al netto di tutte le riserve e per quanto insidiosa, credo sia questa una domanda necessaria e imprescindibile per rideterminare la ragion d’essere della Letteratura nelle nostre aule. Ma oserei di più. Nella libertà del contesto scolastico la prova degli alunni può permettere di violare un tabù inviolabile in sede istituzionale: mettere sotto processo i classici per appurarne l’odierno grado di tenuta a fronte di un parametro di verifica del tutto discutibile ma reale, ovvero quei pessimi lettori che sono oggi gli studenti. Pessimi lettori, ma a conti fatti oggi gli unici lettori di massa, seppure coatti, di quegli autori. Un punto di vista quindi scomodo, anarchico, criticamente scorretto, ma consistente. E come non farci i conti? Come sottovalutarlo tanto più se si è poi chiamati de visu a perorarne la sacralità ogni santa mattina di ogni santo anno scolastico? E allora mi sono detto: ma sì, censiamoli ‘sti autori, secondo il loro punto di vista, il punto di vista degli studenti, facciamogli un tagliando di tenuta per vedere come sono messi, uno stress test per capire se ancora stanno in piedi, manchiamogli allegramente di rispetto ai nostri patres letterari per vedere come se la sanno ancora cavare. Tenendo conto che il metodo adottato è stato appunto quello di registrare senza filtri gli esiti di quindici anni di lavoro sul campo, i risultati potrebbero essere interessanti per quanto ovviamente del tutto soggettivi e opinabili. Provo dunque a elencarli in modo estremamente sintetico, partendo dal basso e seguendo la programmazione canonica del triennio.

Terzo anno

L’amore di lontano dei trovatori regge ancora: i ragazzi del mondo social si identificano nelle pene d’amore vissute nell’assenza. Anche la Chanson de geste può ancora dire la sua, ma bisogna essere bravi per fargliela dire, al netto della poca narratività dei suoi testi: sì, qualcuno storcerà il naso, ma per l’uditorio d’oggi quelle storie sono assolutamente poco avvincenti. Jacopone vince su San Francesco, per linguaggio e scurrilità certo, ma anche per la problematicità dei suoi eccessi: sì, si può fare transitare anche in un professionale o in un tecnico la tensione tra esmesuranza e alta nichiltade, poiché al netto dei perché e dei percome, questa polarità assoluta in qualche modo dialoga con l’inquietudine e la voglia di stare bene di un sedicenne. Il Dolce stil novo regge abbastanza, ma solo perché regge Cavalcanti, di gran lunga più persuasivo nei suoi picchi in alto e in basso rispetto al tiepido Guinizzelli. Ricordo una monografia di un mese su Cavalcanti riuscita contro ogni aspettativa, in cui la biografia e il rapporto con Dante sono stati elementi decisivi, al pari della passionalità tutta laica del nostro. Ovviamente regge la poesia comico-realistica come regge ogni percorso o approfondimento in ogni epoca su qualsiasi tipo di controcultura o cultura del carnevale che si voglia. Con Dante si gioca in casa e con lo stadio pieno. Già il racconto della vita funziona. La Vita nuova regge nei suoi momenti più narrativi, in fondo si tratta pur sempre della vicenda di un ragazzo innamorato e continua a suggestionare nella pur poco ortodossa funzione di prequel della Commedia. La tenzone con Forese Donati non regge, di più: «spacca» mi ha detto un alunno un giorno. La Commedia è vittoria sicura e ovvia in ogni dove e in ogni come, non lo scopro certo io, è esperienza di qualsiasi insegnante che abbia un minimo d’amore per il proprio mestiere. Esempio perfetto di classico, perché a secoli di distanza continua a catturare indistintamente l’attenzione di tutti gli studenti, soprattutto se si ha il coraggio di puntare su un aspetto che ho sperimentato negli anni essere decisivo: la fidelizzazione alla storia, ovvero provare a leggere l’opera senza saltare nulla, per quanto possibile. Questa idea che sembra folle rispetto ai tempi scolastici è in realtà fattibile in una programmazione liceale dove gli ultimi tre anni coincidono con le tre cantiche: se si sacrifica un po’ l’esegesi del testo e si punta di più sullo sviluppo narrativo è possibile arrivare a fine anno con un buon numero di canti letti. La ratio di tale scelta sta nella constatazione sperimentata in classe che gli alunni, come chiunque del resto, tendono ad appassionarsi alle storie se sviluppate nel loro continuum originale. Piccola parentesi. Ho avuto modo di verificare tale evidenza anche con I promessi sposi che possono essere letti con soddisfazione, per quanto sempre più messi nell’angolo, nei primi due anni. Posso testimoniare come, se opportunamente ripulita di qualche digressione storica di troppo e letta settimanalmente e sistematicamente, la storia di Renzo e Lucia possa diventare la carta in più per catturare l’interesse anche dei più recalcitranti. A ciò aggiungo l’ampio spazio che il romanzo fornisce per introdurre a ragion veduta tutte le alchimie narratologiche di cui noi insegnanti sembriamo proprio non riuscire a fare a meno: dalla focalizzazione alla fabula e l’intreccio, dal tempo del racconto al tempo della storia, dal sistema dei personaggi ai registri narrativi, I promessi sposi restano un ottimo laboratorio per fare narratologia e scontare il nostro dazio eterno con lo strutturalismo. Tornando ai promossi e ai bocciati del terzo anno, il Convivio a sorpresa regge, l’introduzione soprattutto, mentre si fatica non poco con il De Monarchia e il De Vulgari Eloquentia, anche se quest’ultimo si rinforza bene in prospettiva diacronica, allargando il discorso alla Storia della lingua italiana con particolare attenzione ai dialetti: è sotto gli occhi dei più attenti il rinnovato interesse dei giovani al dialetto in chiave volgare-grottesca. Petrarca, da sempre bollato come noioso o antiscolastico soprattutto dopo il gigante Dante, regge invece alla grande se introdotto con il Secretum e l’epistolario, per poi sciorinare tutti i sonetti possibili che testimoniano sistematicamente la modernità della sensibilità petrarchesca: del resto il modo occidentale di raccontarsi l’amore per gran parte nasce da quel mezzo prete aretino. Boccaccio regge ma se si supera lo scoglio della lingua (ma ci sono Chiara, Pitzorno e al limite anche Busi al nostro fianco). Se si riesce a ovviare a questa difficoltà oggettiva è poi praticamente impossibile fallire sulle ali della splendida narratività di un numero ingente di novelle a prova di studente. I temi poi sono perfetti: dalla questione femminile all’elogio dell’ingegno, dal comico all’elegiaco, dal sacro al molto profano, la gamma è talmente varia da poter essere adattata con successo a qualsiasi tipo di gruppo classe. Preziosi inoltre sono i contributi trasversali di lettura dell’opera: si pensi a Pasolini, ai recenti Taviani ma anche alle riletture multiformi del boccaccesco in Boccaccio ‘70. Ariosto ahimè regge poco nonostante io ne sia innamorato e non c’è Calvino radiofonico che tenga a venirci in soccorso. Il grado di proliferazione della fantasia ariostesca paradossalmente spiazza le intelligenze paratattiche delle nuove generazioni. Ma l’autore è troppo importante, con un lavoro certosino di collage di ottave significative se ne può venire comunque a capo in modo egregio. Va molto meglio con certi notturni del Tasso: Tancredi e Clorinda su tutti e mai come in questo caso ci sembra di rinverdire l’antichissima polemica.

Quarto anno

Machiavelli funziona per parlare della politica oggi e per guidare in modo astuto e fruttuoso la sacrosanta voglia degli studenti, comunque ancora viva checché se ne dica, di polemizzare sui temi politici e sociali del presente. Guicciardini fa da pendant. Il Barocco crolla, Galileo regge, spicca la conclusione della prima giornata del Dialogo, ma anche tutta la discussione in chiave contemporanea sul metodo scientifico e sulla società della scienza e della tecnica fornisce appigli sicuri. L’Arcadia e posti simili andrebbero tolti dalle mappe scolastiche. Goldoni mostra fiato da vendere anche solo rimanendo alla pura lettura, se poi si riesce ad andare a teatro si vince a occhi chiusi. Foscolo traballa ma la biografia è dalla sua parte, i Sepolcri andrebbero seppelliti, Le grazie non pervenute da tempo immemore. Bene i sonetti più famosi. Ortis campa ancora benaccio, soprattutto se rinvigorito con dosi di Werther. Alfieri ha molte cartucce in canna nella Vita: un vero e proprio bomber come ebbe modo di definirlo uno dei peggiori studenti mai avuti dal sottoscritto. Ma niente come quello che mi azzardo a dire ora: dato degli ultimissimi anni, horribile dictu, Leopardi crolla. Nelle scuole difficili Leopardi crolla. Qualcuno smetterà a questo punto di leggere, ma non posso non registrare come, mio malgrado e malgrado tutti i miei sforzi, ogni anno che passa non ci sia nessun notturno della ginestra, ansia dell’infinito a suon di domande di senso o paesaggio lunare che tenga. Fatta eccezione per qualche sensazione riconoscibilissima da sabato del villaggio, la maggior parte degli studenti maltollera il monolitico pessimismo leopardiano. Dirò di più: se il docente ha il coraggio di far transitare il vero Leopardi e non quello della vulgata scolastica, mantenuto in vita da generazioni di insegnanti pavidi, si troverà a un certo punto a sentirsi quasi in colpa per la cappa d’angoscia esistenziale fatta calare sulla propria classe. Guai se ciò non avvenisse, staremmo in quel caso raccontando un altro autore. Ma chiunque abbia letto e commentato seriamente e per intero La ginestra in classe può capire cosa vada dicendo. Ciò non toglie che Leopardi vada letto e a fondo, Operette morali assolutamente comprese: come negare a un adolescente in ricerca il Dialogo tra Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez? Manzoni invece guarda un po’, si salva. Un po’ per quanto detto sulla opportunità dei primi due anni, un po’ per l’ironia e la leggerezza della prosa, Manzoni si salva e la Storia della colonna infame rimane un tesoro misconosciuto.

Quinto anno 

Verga patisce la difficoltà della lingua ne I Malavoglia, anche se la misura breve delle novelle è di grande aiuto per entrare nei due romanzi maggiori. Per altro ho verificato come il Verismo possa essere superato meglio se invelenito un po’ con qualche iniezione di De Roberto. Da qui in poi inoltre c’è grande abbondanza di materiale multimediale pronto all’uso: da La terra trema a le foto dello stesso Verga si entra il quel segmento finale della Letteratura dove una LIM come si deve o al limite anche un buon proiettore possono dare una mano decisiva. Ottimo Collodi, fresco e troppo poco sfruttato ma portentoso se accoppiato a De Amicis per raccontare la nuova Italia unitaria scolastica. Bene gli scapigliati con Fosca assolutamente sugli scudi. D’Annunzio parte in quinta con la vita ma si affloscia immediatamente sulle opere, fatta eccezione per qualche pagina del Notturno. Ma gli aneddoti e le intuizioni di mister Rapagnetta (provate a svelare il vero cognome, nessuno in classe lo chiamerà più D’Annunzio) sono troppe per farlo sparire: finché esisterà il rito della tesina d’esame, un quarto dei studenti nostrani continuerà a raccontare del vivere inimitabile e di Belén-Eleonora Duse. Pascoli viene bollato senza complimenti dagli studenti come «uno strano» per dirla in modo educato, un secondo dopo il racconto della vita e la lettura de Il gelsomino notturno, per non parlare di Digitale purpurea dove anche gli studenti più svergognati e gretti si rifiutano di capire quello che gli si deve fare capire. Eppure il linguaggio di Pascoli colpisce, eccome se colpisce. Pirandello e Svevo sono indistruttibili: la maschera e l’inetto attecchiscono ogni anno come piante rampicanti anche in assenza totale di acqua. Pascal e Zeno forniscono mille appigli e se il filosofico strappo nel cielo di carta può tranquillamente richiamare la sequenza finale del The Truman Show, Svevo e i suoi tanti padri sembrano lasciare spianata la strada alla lezione inattaccabile. Eppure anche in questo caso la mutazione degli studenti e i tempi che corrono sono sempre sull’uscio a richiamarmi a una lettura del contesto mai conclusa. Provo a chiarire. Nei miei primi anni di insegnamento, parlare della questione del padre nel Novecento, da Kafka alla “montagna troppo grande da scalare” di Venditti era sfondare una porta aperta: qualsiasi studente sapeva ancora percepire al volo il mare magno in oggetto, semplicemente perché chi più chi meno, se lo ritrovava in casa, lo misurava sulla propria pelle familiare. Introdurre Zeno e anche Tozzi mi è sembrato così per anni un gioco da ragazzi. Negli ultimissimi tempi di colpo non è più stato così. All’inizio non ci ho fatto caso, ma poi, senza stare a scomodare analisi sociologiche da quattro soldi, mi sono reso conto come effettivamente la mutazione della relazione paterna nella contemporaneità familiare fosse transitata fin dentro le mie aule, tale da rendere insignificante quello che per generazioni aveva potuto significare il perturbante ceffone paterno che tutti conosciamo. Parlare di padri ingombranti e castranti oggi non è assolutamente così scontato. Vanno indagate altre vie e forse un giorno, azzardo, ci ritroveremo a raccontare con maggiore risonanza e riscontro il rapporto con la figura materna negli anni zero. Riprendendo e avviandoci a concludere la bieca carrellata, Montale si fa a fatica, ma se riesce si toccano vette di gratificazione e di coinvolgimento della classe davvero d’altri tempi. Ciò fortifica in me una convinzione che mi ha sempre accompagnato. Non sempre la complessità risulta terrificante o peggio insignificante per gli studenti meno dotati, anzi: provare I limoni per credere. Saba funziona molto bene, semplice ma non facile, lascia sempre in classe un ché di inquieto a fine percorso. Con Saba si può parlare di inconscio, sì, di inconscio, anche dentro un istituto professionale. Di Ungaretti si è già detto, una garanzia, soprattutto se si ha l’accortezza nell’ultimo anno, specie nel caso di una cattedra Italiano-Storia, di far coincidere la monografia con la trattazione storica della Grande guerra. Rebora è una carta in più. Moravia è episodico, ma Agostino (così come Ernesto di Umberto Saba) anticipa di gran lunga, rispetto alle polemiche spesso becere di cui la Scuola è vittima, la possibilità di affrontare con delicatezza e intelligenza temi sensibili. Calvino come detto regge fino al 1963 (La giornata di uno scrutatore, dopo sono lacrime e sangue) ma Il sentiero rimane romanzo da vacanze di Natale per eccellenza, anche e soprattutto in scuole dove il migliore alunno non è arrivato a terminare il secondo Geronimo Stilton. Fenoglio e Pavese, magari fosse. Pasolini è sempre di più un cavallo di battaglia, soprattutto il periodo corsaro. Per concludere e già siamo arrivati molto avanti rispetto la norma del quinto anno, Primo Levi trema in modo preoccupante sotto certo abuso scolastico della giornata della memoria. Ma tolta di dosso la polvere (degli altri) l’opera di Levi può diventare il transito miracoloso anche per i peggiori verso un posto dove esiste ancora l’opzione letteraria al buio del senso. Mi posso proprio fermare qui.

La parola, nonostante

Questa carrellata, discutibile, opinabile, riprovevole, avrà sicuramente fatto sobbalzare più d’una volta il lettore. Ma è la riprova di quanto effettivamente dare in pasto la Letteratura al vaglio selvaggio degli studenti sia destabilizzante. Qualcuno avrà concordato, qualcuno sarà inorridito, qualcuno avrà contato gli assenti illustri, qualcun altro semplicemente avrà contestato il metodo. Qualcuno potrebbe eccepire che alla fine ciò che conta è la qualità delle lezioni. Qualcun altro potrebbe invece contestare che un canone così terremotato aprirebbe una falla fatale nella diga all’appiattimento ignorante di una sterile rincorsa alla contemporaneità. Potremmo andare avanti all’infinito. Ad aggravare la mia posizione va detto anche come, con l’idea di mettere in crisi il canone sotto le randellate degli studenti, mi sia io stesso ritrovato comunque a fornire un canone, quello degli autori che per mia esperienza funzionano in classe. Canone eterodosso ma pur sempre un canone. Quindi, si declassi pure quanto detto a provocazione o a gioco di circostanza. Ma mi si consenta a conclusione di tenere per buono almeno un dato: canone o non canone, la scuola chiamerà sempre a rapporto la Letteratura sulla necessità di farsi materia viva, pena il deserto dell’incomunicabilità. Gli studenti avranno sempre e sicuramente meno rispetto di noi docenti verso gli autori che abbiamo amato e ai quali abbiamo deciso di dedicare un’intera vita lavorativa e non solo. Proprio per questo forse solo gli studenti saranno ancora, a modo loro, gli unici in grado di reclamare, da quegli stessi autori, quella parola che non anneghi nelle paludi del consueto ridondante e vuoto che li circonda. E proprio per questo, anche noi insegnanti dovremmo forse avere il coraggio di pretendere insieme ai nostri terribili studenti, ancora e oggi da quegli autori che un tempo riuscirono a parlarci, quella parola sempre nuova «che squadri da ogni lato l’animo nostro informe».


Fotografia: G. Biscardi, Zaino, Palermo 2007.

 

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