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diretto da Romano Luperini

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Educazione letteraria, educazione linguistica: per un curricolo unitario di italiano nel biennio della scuola secondaria

Qualche riflessione dubitativa

Da insegnante, mi capita sempre più frequentemente, leggendo i testi dei miei alunni, di formulare qualche riflessione dubitativa, nata nel travaglio di decifrare uno scarabocchio, nonché di pensare com’è dozzinale, com’è sguaiato, com’è scorretto! [….] Frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati […] Declamazioni ampollose, composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch’è il proprio carattere degli scritti di questo secolo, in questo paese1.

Talvolta, in alternativa a certa farragine fangosa di chi si cimenta nel più fantasioso ipercorrettismo per compiacere l’insegnante di italiano, ma suscitando fisiologici fastidi tardomanzoniani, ci si ritrova tra le mani qualche misero foglietto d’appunti imbastito di pensierini nella neolingua del terzo millennio.

Che non è quella orwelliana, manipolata e rarefatta dalla censura politica. Piuttosto, quel basico ‘giovanilese’, ormai pressoché analfabetico di ritorno, di chi ha perso morfologia, sintassi, lessico di base e competenza testuale; di chi non possiede più l’armamentario minimo per allestire neppure un’approssimativa costruzione di senso, di sé e del mondo. Di chi, in definitiva, si accontenta di un pidgin perché preferisce rinunciare alla complessità del reale. Magari sostituendolo con quel comodo ‘virtuale’ cui chiunque può accedere dalla poltrona di casa. Senza tutte le complicazioni della relazione, dell’empatia, dell’inferenza, del simbolico, dell’immaginario. Il che, per dirla con Deacon2 – ma questo i nostri studenti non lo sanno ed è bene che gli insegnanti se ne avvedano – implicherebbe la rinuncia all’essere esseri umani.

Lingua e letteratura, se pensiamo alla scuola come fondamentale luogo di transito nelle tappe dell’infanzia e dell’adolescenza, appaiono oggi, rispettivamente, come un bagaglio di competenze e di conoscenze da ricercarsi presso l’ufficio oggetti smarriti. L’avvento (l’espressione è iperbolica ma efficace per significare la portata del fenomeno) e la diffusione delle nuove forme di scrittura – linguisticamente e iconicamente ibridate ma, al contempo, scarnificate nelle loro potenzialità semantiche – ha contribuito enormemente al mutamento direi antropologico dello studente 2.0:

Sedotti dal ritorno prepotente dell’immagine e della parola pronunciata, e sempre più in affanno con la logica del sapere scientifico, molti giovani si sottraggono volentieri alle responsabilità della parola letta e scritta […]. Impacciati nel confronto con forme e categorie puntuali, sostituite da entità diffuse e capienti contenitori di riempimento eterogeneo di senso, sono sempre meno in grado di metabolizzare e riprodurre le tecniche di ragionamento – anche le più elementari – e fanno difficoltà a smarcarsi dalla sequenzialità; non colgono le leggi algoritmiche della ricorsività e dell’annidamento e non riescono a sottrarsi alle insidie dei loop, dei vicoli ciechi, delle riprese “ingenue” del già detto; non sanno procedere ordinatamente per punti e non riescono a sviluppare sottoargomenti da un macroargomento, riprendendo il filo del discorso dal punto esatto in cui lo hanno interrotto; non distinguono tra elementi portanti e elementi accessori di un testo; non sono in grado di intervenire sul flusso del pensiero tagliandovi capitoli e paragrafi; non sanno adoperare in modo corretto i connettivi [un novello Francesco Sabatini potrebbe oggi assai utilmente scrivere un saggio sul ‘dove’ polivalente], che costituiscono la nervatura di una dimostrazione scientifica nel senso più ampio possibile: quello comportato dalla necessità di formulare un’ipotesi o illustrare una tesi tenendo conto di elementi a favore e di argomenti di “rinforzo, di eventuali obiezioni o punti di difficoltà, di necessarie premesse e di altrettanto necessari corollari3.

Insomma, non sanno fare un riassunto, un tema e, men che meno, quello che Tullio De Mauro, con la sua riforma dell’Esame di Stato, ci ha insegnato a chiamare ‘saggio breve’. Ovvero, comporre un testo, scritto o orale, che argomenti4 adeguatamente un onesto pensiero critico.

A contribuire a questo quadro di vero e proprio degrado linguistico (ma, insieme, culturale, sociale e politico), si aggiunga l’invadenza e la pervasività di forme espressive sintetiche e sincretiche, poco identificabili e spesso contaminate con pratiche narrative crossmediali (in grado cioè di attraversare vari media e ricomporsi, come per magia, nella mente dei singoli fruitori5) che rendono difficile agli stessi insegnanti un orientamento saldo nel panorama dell’offerta letteraria contemporanea. Sotto questo profilo, due elementi mi appaiono ulteriormente rilevanti: a) l’aumento esponenziale di pratiche soggettive di scrittura narrativa non tradizionale da parte di un sempre maggior numero di studenti ma, contemporaneamente, l’abbandono dell’esercizio della lettura dei testi letterari e della nozione di ‘modello’; b) il progressivo e sempre più rapido allontanamento – da intendersi forse, per certi aspetti, come emancipazione? – da norme prescrittive di tipo morfosintattico, stilistico, lessicale e testuale ma soprattutto di genere, in virtù di un’adesione incondizionata ad una dimensione di assoluta libertà di scelta di tipo estetico che andrebbe forse esplorata con gli strumenti della psicologia più che della critica letteraria.

Alludo, cioè, alla possibilità che questa istanza di totale libertà espressiva sia da ricondurre alla più generale rivendicazione di quell’individualismo narcisista e autoriferito, piuttosto anarcoide, che appare oggi dominante su una scena sociale senza padri, senza madri, senza mentori, senza guide, senza insegnanti, senza modelli.

E ancora. La condizione di nativi digitali che definisce i giovani d’oggi, caratterizzata da un accesso pressoché illimitato, ancorché indiscriminato, alle risorse della rete, appare ancor meglio descritta, nella varietà delle sue espressioni e opzioni, dal termine coniato più di recente prosumers: con i social network siamo tutti, ma soprattutto i giovani (privi di quella forma mentis e di quella formazione più tradizionalmente legata al libro e ai tempi lunghi della scrittura alfabetica che induce in noi certa sana diffidenza e resistenza al digitale che avanza), siamo tutti, dicevo, produttori-consumatori, anche di operazioni letterarie o, molto più spesso, para-letterarie. Che, aggregando e moltiplicando esperienze di scrittura e di diffusione della scrittura praticamente a costo zero, ne abbattono tuttavia irrimediabilmente il valore6.

Che fare a scuola?

Che fare? E, soprattutto, che fare a scuola? Arrendersi alla rinuncia alla letteratura e a un certo modo di esprimersi, in cui non solo non ci si senta ridicoli se si usa la parola ‘refolo’ o ‘brama’ ma neanche incompresi se si dice, in classe, ‘intrepido’ o ‘lungimirante’ o, a casa, ‘recapito telefonico’, suscitando l’espressione interrogativa di mio figlio che, in quarta ginnasio, non ne capiva il significato? Accettare ‘xché’ come moderno vezzo grafico in un tema, pena l’essere appellato ‘giurassico’ e magari perdere un feeling prezioso (sappiamo tutti, anche senza Massimo Recalcati, che la relazione con gli studenti è ontologicamente corporale se non erotica, non a caso mi è capitato spesso di associare l’insegnamento all’allattamento) e ‘tvb’ come unica forma espressiva, iconica, delle mille sfumature semantiche del sentimento? Non potrebbe invece essere ancora, in qualche misura, la letteratura ‘alta’, quella definita da un canone e non ‘di circostanza’, per intenderci, una risorsa preziosa? E non potrebbe, finalmente, essere definitivamente superata, a scuola, l’insensata dicotomia tra educazione linguistica e educazione letteraria, buona forse per l’editoria scolastica che così moltiplica inserti e fascicoletti ma di sicuro fuorviante per insegnanti e studenti che sembrano non sapere più che la letteratura è una irrinunciabile varietà della lingua e che la lingua è il nostro modo di stare al mondo?

Ovviamente, non si tratta di praticare un modello canonico artificiale e lontano dalla realtà – del parlato, del dialetto, dei linguaggi gergali, delle contaminazioni linguistiche attuali, ecc. – un modello di matrice idealistica che riproponga la vecchia trasmissione di un “sistema di parole”7, né di rinnegare la ventata di rinnovamento democratico e anticlassista che ha utilmente investito la scuola italiana nel secondo dopoguerra, ma semplicemente di recuperare valore e funzione della lettura del testo letterario come esperienza irrinunciabile anche nella costruzione di una propria, articolata e complessa, competenza comunicativa. In questo, considerando la padronanza di lessico, grammatica, ortografia, sintassi e testualità come concreta realizzazione del mandato costituzionale assegnato alla scuola: la conquista delle pari opportunità che correggano le differenze socioculturali d’origine e l’acquisizione dello statuto di cittadino consapevole, in grado di esercitare quelle che Amartya Sen definisce opportunamente capabilyties, ovvero capacità di funzionamento nello spazio sociale interpersonale8.

Dunque, recuperare ruolo e funzione dell’educazione letteraria per ricostruire dalle fondamenta una lingua collassata, per combattere la pervasività di forme espressive o scarnificate o artificiosamente ridondanti ma troppo spesso scorrette, che veicolano perlopiù contenuti banali, mediocri e insignificanti. Ovviamente senza trasformare il testo letterario in pretesto o mero eserciziario; senza sovrapporgli quella pletora ipertrofica di note-guida, domande, proposte di scomposizione e ricomposizione, montaggi e smontaggi, batterie di test a risposta multipla/aperta/chiusa, quiz invalsi ecc. che nelle antologie in uso nella scuola secondaria spesso lo soverchiano, annichilendolo9. Ma facendo interagire con la lettura diretta dei testi […] la prospettiva storico-linguistica10 in chiave diacronica e sincronica, contrapponendo, ad esempio, forme espressive antiche e moderne, o avvicinando brevi testi in lingua originale per valutarne le traduzioni possibili, o ancora, accostando esempi di narrativa contemporanea alle fondamentali questioni d’attualità raccontate dai giornali, negli articoli di cronaca o nei reportage, per confrontarne le diverse modalità espressive, i registri, gli stili.

Se l’obiettivo di riavvicinare i giovani alla letteratura attraverso la lingua – e contemporaneamente affinare le loro competenze espressive attraverso la letteratura – appare urgente e significativo, l’operazione di recupero dell’unitarietà di letteratura e lingua nell’insegnamento dell’italiano nella scuola superiore può essere facilitato anche dall’utilizzo di forme espressive più prossime alla modalità conoscitiva contemporanea dello sguardo e della visione.

In questo senso il cinema, lingua scritta della realtà11, ma spesso anche lingua riscritta della letteratura o lingua che rappresenta la letteratura, la scienza, la cultura e i suoi protagonisti, offre senza dubbio molti spunti di riflessione teorica sulle varietà dei linguaggi, dentro e fuori il continuum della lingua e tra gli scarti dei registri espressivi, e offre anche molte opportunità per la definizione di un curricolo scolastico che riconduca ad unità ciò che è stato inopinatamente, e con esiti frequenti di insuccesso formativo, separato nelle antologie, nei manuali e nelle pratiche educative e didattiche.

Penso a film straordinari tratti da romanzi come “Il Gattopardo” di Visconti, “Il giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica o “Il deserto dei Tartari” di Valerio Zurlini, o, in tempi più recenti, con risultati artistici interessanti, la saga de “Il signore degli anelli” da Tolkien, ma anche il coloratissimo “Cunto de li cunti” di Basile recentemente messo in scena da Matteo Garrone, o il primo Decameron pasoliniano poi rivisitato e stilizzato dai fratelli Taviani, solo per fare qualche esempio. Penso a film recenti come “Il giovane favoloso”, su Leopardi uomo e poeta, o meno, come “Morte di un matematico napoletano”, bellissime monografie di Mario Martone. Ma penso anche a film di giovani registe che possono far esplorare modalità caratteristiche di scrittura femminile, come nell’ottimo sodalizio Comencini-Parrella testimoniato in Lo spazio bianco; o film che si muovono sul continuum italiano e dialetto, come Pane e tulipani di Silvio Soldini o Alla luce del sole di Faenza, che offrono spaccati realistici dell’intreccio tra differenze socioculturali e destini, o film che alternano lingua italiana a lingue straniere come Private di Saverio Costanzo, al quale, nel denunciare il conflitto arabo-israeliano, un’unica lingua – significativamente – non basta12.

Per concludere, se è vero che le responsabilità dell’insegnamento e dell’apprendimento della lingua, a scuola, sono diffuse tra gli insegnanti di tutte le discipline, è evidente che al docente di italiano spetta il carico indiscutibilmente maggiore. Ma l’idea che l’elaborazione di un curriculum unitario di lingua e letteratura – da articolarsi nel biennio della scuola superiore nelle forme della linguistica testuale, che si avvalga, strategicamente, di riferimenti alla ‘grammatica’ cinematografica – possa consentire a degli adolescenti assorbiti e storditi dalla falsa comunicazione dei social il recupero del piacere della letteratura e della vitalità della lingua, può essere più che una scommessa.

_____________________

NOTE

 L’immagine è una fotografia di Luigi Ghirri.

1 A. Manzoni, I Promessi Sposi, Il Capitello, 1993

2 T. Deacon, La specie simbolica. Coevoluzione di cervello e capacità linguistiche, Fioriti Editore, 2001

3 M. Arcangeli, Cercasi Dante disperatamente, Carocci, 2012

4 Utilissime all’uopo le indicazioni reperibili in C. Perelman, L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione, Einaudi, 1989

5 S. Giusti, Insegnare con la letteratura, Zanichelli, 2011

6 R. Sommella, Sboom. Sappiamo ancora sostenere il cambiamento?, Fioriti Editore, 2015

7 L. Meneghello, Fiori italiani [1976], Rizzoli, 2006

8 A. K. Sen, La diseguaglianza, Il Mulino, 1994

9 T. Todorov, La letteratura in pericolo, Garzanti, 2008. Assolutamente condivisibile il grido d’allarme di Todorov, se pensiamo che l’educazione letteraria avviene esclusivamente attraverso l’insegnamento degli strumenti dell’analisi del testo (sequenze, divisione in sequenze, focalizzazione, sistema dei personaggi, ecc.), con obiettivi meramente tecnicistici.

10 L. Serianni, L’ora di italiano, Laterza, 2010

11 P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, 1972

12 A. Angelucci, Il cinema civile non parla italiano: Saverio Costanzo “Private” e Roberto Faenza “Alla luce del sole”,in LId’0, Lingua italiana d’oggi, Bulzoni, II, 2005

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