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diretto da Romano Luperini

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La sua voce. Per Gianmaria Testa

Quando, una decina di anni fa, una nota libreria torinese organizzò una conferenza su Beppe Fenoglio, non fu strano veder apparire, dietro il microfono che in occasioni del genere raccoglie spesso la lettura di attori semiprofessionisti col birignao, Gianmaria Testa, il quale prestò la propria voce roca e sussurata a brani de Il partigiano Johnny. Non fu strano perché Testa era germogliato dallo stesso humus di Fenoglio, e di Pavese: le colline delle Langhe. Era nato, infatti, a Cavallermaggiore, poco più a ovest di Alba e Santo Stefano Belbo, seppure «dalla parte sbagliata del Tanaro, dove si fa l’Arneis e non il Barolo». Ma non si tratta solo di coincidenze anagrafiche: Fenoglio e Pavese erano scrittori profondamente amati da Testa («Leggere Pavese e Fenoglio all’inizio mi ha dato la sensazione di scoprire una cosa quasi impudica. Quella di La luna e i falò e La malora, nonostante la distanza di vent’anni, era la mia stessa povera campagna. I personaggi uguali a quelli che incrociavo tutti i giorni, li avevo anche in casa. Mi faceva l’effetto di quando ci si annusa i propri odori, con una specie di disgustato piacere», intervista a La Stampa, novembre 2012). I due scrittori furono scoperti durante l’adolescenza, nella ricca biblioteca della casa padronale di cui i genitori di Testa erano i custodi.

Si pecca forse di determinismo etno-geografico a voler rintracciare somiglianze nelle visioni del mondo, negli atteggiamenti, nella poetica, sulla base di una comune appartenenza regionale. Eppure l’antiletterarietà, certi tratti di civile e garbata ruvidezza, un piemontesissimo understatement, accomunavano Testa e i due scrittori: lo stile sobrio come fatto artistico e come attitudine esistenziale.

In effetti la musica di Gianmaria Testa, una equilibrata e raffinata sintesi di cantautorato italiano e francese, ballata popolare, jazz, corre lo stesso rischio che corre l’arte di un Pavese: ricercare a tal punto l’unità tonale e l’amalgama privo di bellurie visibili, da poter apparire monotono. Testa sembrava volersi affermare per classica arte del levare, limando i picchi espressivi e fondendo il proprio timbro vocale, prosodia e melodia con l’accompagnamento della chitarra e dei raffinati arrangiamenti dei musicisti con cui ha inciso e si è esibito, specie jazzisti dalla medesima intonazione intimista come Enrico Rava o Gabriele Mirabassi. Significativo e curioso, a questo riguardo, un tratto della sua pronuncia: cantando, talvolta Testa scempiava le doppie, come se volesse smussare il vigore eccessivo di certe parole, per smaterializzarle e lasciarle scorrere leggere.

In un’intervista degli ultimi anni (che si dovrebbe trovare ancora su Youtube) è capitato ad Andrea Zanzotto di parlare del rapporto tra poesia e canzone d’autore. Il poeta confessò di amare Paolo Conte, anche se non potè o volle astenersi dal dare un giudizio letterario, affermando che, da un punto di vista dell’evoluzione del genere poetico, la canzone era come rimasta fissata in un eterno «crepuscolarismo». Al di là delle sfumature limitative di questo giudizio, l’etichetta sembra davvero calzante per Gianmaria Testa: brani come Polvere di gesso o Preferisco così hanno per protagonista un io che, più che vivere, ama guardarsi farlo, al rientro mesto e solitario a casa la sera o seduto dietro un vetro rigato dalla pioggia, aspettando che sia la vita a farsi avanti. E certamente siamo di fronte al riuso melanconico e un po’ compiaciuto di un topos letterario fortunato in un pezzo come Le donne nelle stazioni: la commozione del poeta che incrocia appena l’esistenza di affascinanti sconosciute, per poi subito perderle, quell’«amore all’ultimo sguardo» di cui ha parlato Walter Benjamin a proposito di A una passante di Baudelaire e che si applica perfettamente anche a Les passantes / Le passanti di Brassens / De André.

Ma si pensi a La tua voce, il brano di apertura di quello che forse è il suo album più bello, Lampo (1999): una storia d’amore miniaturizzata nei suoi gesti e raccontata, per sineddoche, evocando le parti del corpo della donna, una storia elementare e quasi inconsistente. Su cosa si fonda la grazia – palese, palpabile – di questa impalpabile canzone, che, quale incipit, dà il tono a tutto l’album (ancora Pavese: una volta scritto il primo rigo, il resto del racconto viene da sé)? Testa è lontano da De André, che scriveva la melodia prima dei testi (la parola è più flessibile della musica, diceva), ma i cui versi, perfetti endecasillabi, metricamente stanno in piedi anche da soli (anche se ciò non significa che i versi di un cantautore abbiano valore poetico in sé e per sé, senza l’accompagnamento delle note); d’altra parte egli è lontano anche dal simbolismo cerebrale e a volte un po’ pretenzioso di De Gregori, che prima scrive i testi e poi “forza” la melodia ad assecondarli: che sia perché nascessero già così, testo e musica insieme, o che sia perché l’abile artigianato di Testa sapeva celare le suture tra parola e suono, in lui sarebbe impossibile forzare i due elementi a separarsi, senza distruggere anche l’eleganza lieve del cantato. Le parole d’amore trite, in Testa, lievitano e perdono consistenza reale, diventano emblematiche, tanto sono incorporate in una musica che le fa trascolorare.

Gianmaria Testa è diventato celebre in Francia prima che in Italia e quando fu scoperto anche da noi ci si dedicò, come è inevitabile, all’esercizio retorico “chi ricorda? a chi assomiglia?”, e si fecero i nomi di Paolo Conte e di Ivano Fossati. (Conte di Asti, Testa di Cuneo, Fossati e De Andrè liguri: è un pezzetto d’Italia minimo, questo tra Riviera e Basso Piemonte, ma singolarmente produttivo…). È vero, Testa ricorda Conte e Fossati. Ma, ascoltandolo, è impossibile non riconoscerlo, non identificarne la cifra personale. E a me pare che sia questo il tratto che fa la differenza tra un artista che sia arrivato a maturare una propria voce e la pletora di esecutori che popolano la nostra epoca, nella quale, per parafrasare Calvino, ormai tutte le canzoni sono “di buon livello medio”.

Oggi, alla notizia della morte del cantautore, i giornali a tiratura nazionale hanno usato titoli di questo tenore: “morto il cantore degli ultimi, dei contadini, dei migranti”. Sembrava la notizia della seconda morte di De André. La nostra impotenza politica è ormai così profonda che abbiamo bisogno di consolarci appiccicando etichette di vero o presunto engagement a chiunque: vuoi mai che cantautori colti come Testa e De André non siano impegnati in prima linea come novelli Cristi per dare voce a ladroni appesi alla croce, maddalene, pubblicani? Se l’anarchismo di De André e alcuni suoi album (La buona novella, Storia di un impiegato) giustificano la (pur irritante) definizione di “poeta degli ultimi”, per Testa si tratta davvero di un inquadramento critico indebito: una trovatina pubblicitaria per il titolo, così da spolverare un po’ di deandreismo e di evangelismo pietoso sull’arte del cantautore.

Testa era sempre Testa, fedele alla sua tonalità fondamentale, anche quando si impegnava in un concept album come Da questa parte del mare (2006), tutto dedicato al tema dell’immigrazione. Ma è proprio affrontando un tema politico come questo che la sua intonazione composta e fine rivela le proprie armoniche nascoste. Il soggettivismo ripiegato su temi privati si apre senza semplificazioni ideologiche e buonismi politicamente corretti alla dimensione corale dell’emigrazione: questa emigrazione, dal Mediterraneo via Libia o via Turchia, che i telegiornali ci sbattono sul muso ogni giorno mentre ceniamo, a incancrenire il nostro senso di colpa per l’immeritata sicurezza delle nostre «tiepide case» (insieme alla nostra sensazione di impotenza), ma anche l’emigrazione di sempre, l’emigrazione eterna, che ha riguardato noi prima degli altri.

In questo contesto nascono però anche brani dal ben diverso colore, come Al mercato di Porta Palazzo, Tela di ragno, Miniera. Il primo è una divertente e commovente ballata, ambientata in quel multietnico e caotico suk che è ormai diventato l’omonimo mercato di Torino (dove mi è capitato di sentire un maghrebino fare a se stesso eco nelle colorite grida con cui i commercianti attirano i clienti: «Pesche… esche… esche… un euro… euro… euro…»), ballata nella quale si racconta il parto di una donna clandestina proprio in mezzo alla piazza, tra poliziotti burocraticamente ottusi che controllano i permessi di soggiorno: «Favoriscano un documento / e anche qualcosa da dichiarare / questo è un caso di sgravidamento / sul suolo pubblico comunale. / Ma documenti non ce ne sono / e neanche qualcuno che dica niente, / solo la gente che tira e che spinge / attorno ai garofani e alle gardenie. / Documenti non ce ne sono / e quasi più niente da documentare, / solo che un giorno di luna d’inverno / tutta la piazza ha voluto il suo fiore».

In Tela di ragno il linguaggio generalmente lirico-evocativo di Testa si fa invece sgarbato: attraverso la tecnica dei versi ossessivamente costruiti in forma di elenco, la canzone indaga la sgradevole sensazione che la presenza degli immigrati sia per noi, nessuno escluso, qualcosa di indecente e fastidioso («Sono l’acqua che stagna marcita / […] Sono la crosta di sangue che piaga una vecchia ferita / Sono una mosca che sporca il bicchiere / […] Sono una sveglia che suona sbagliata di primo mattino / […] Sono rogna patema imbarazzo / […] Sono un grumo di sale nei denti / […] Sono quello che tende la mano al semaforo rosso»). Infine, in Miniera, Testa abbandona la voce di artista soggettivo per lasciar parlare, su una melodia che nel ritornello mima vecchi stornelli di lavoratori, la voce collettiva di un gruppo di emigrati in Messico: un incidente in miniera, la consolazione primitiva di cantare il cielo stellato, che è identico in patria come in terra di emigrazione. A dimostrazione del fatto che non tutta l’arte “soggettiva” sia per ciò stesso “narcisistica” (e a dimostrazione del fatto che ci sia una qualche differenza tra l’engagement artistico e l’etichetta commerciale di engagé).

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