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Il soprannaturale letterario di Francesco Orlando

 A cura di Valentino Baldi

È appena stato pubblicato da Einaudi il primo libro inedito di Francesco Orlando, teorico della letteratura, francesista e comparatista scomparso nel 2010. Il libro si intitola «Il soprannaturale letterario. Storia, logica, forme» e raccoglie studi e riflessioni teoriche su cui Orlando ha lavorato per oltre vent’anni. Pubblichiamo un estratto tratto dal primo capitolo del libro. Dopo una riflessione su alcune caratteristiche della logica del fantastico e una comparazione con il fiabesco, Orlando, come sua abitudine, si rivolge ai testi da cui svilupperà riflessioni teoriche più ampie. Riportiamo due momenti diversi in cui Orlando si dedica alle opere di Manzoni e Dante.

Ringraziamo Luciano Pellegrini, Stefano Brugnolo, Valentina Sturli e la casa editrice Einaudi per averci permesso di pubblicare questo materiale.

Capitolo primo. Minimi esempi in vista di un concetto

Spesso si sente parlare di letteratura fantastica, e sappiamo che è stato Tzvetan Todorov – Introduzione alla letteratura fantastica – a imporre questo termine come categoria critica. In realtà Todorov rilanciava un concetto che Roger Caillois già nel 1958 aveva cominciato a definire, avanzando un’intuizione che resta fondamentale:

Il fiabesco è un universo meraviglioso che si affianca al mondo reale senza sconvolgerlo e senza distruggerne la coerenza. Il fantastico invece rivela uno scandalo, una lacerazione, un’irruzione insolita, quasi insopportabile nel mondo reale (1).

Diversamente dalle fiabe, dove i personaggi si inoltrano in spazi separati dalla vita quotidiana e nei quali tutto è possibile, la prima scena di una narrazione che chiameremmo fantastica può essere perfettamente identica, per ambientazione, tipo di personaggi e gestione del racconto, alla prima scena di una storia realistica. Perché ci sia fantastico è necessario che dentro un contesto quotidiano si produca lo scandalo, la lacerazione, l’irruzione insolita, una frattura che alla fine sarà più o meno rimarginata perché la vita continui come prima. Caillois si era interrogato anche sulle ragioni storiche dell’insorgere del fantastico, e l’aveva situato nella storia letteraria:

il fantastico è ovunque posteriore all’immagine di un mondo senza miracolo, sottomesso a una rigorosa causalità. In Europa esso è contemporaneo del Romanticismo e, comunque, appare non molto prima della fine del secolo XVIII, come compensazione di un eccesso di razionalismo (2).

Il fantastico appare perché dopo la razionalizzazione illuministica risulta piú arduo rendere credibile un meraviglioso dove può succedere di tutto. Esso è dunque costituito da una sorta di compromesso tra una concezione razionale della realtà e il sospetto che la ragione non basti a spiegare tutti i fenomeni. È come se una porta su un mistero non del tutto esorcizzato si aprisse ogni tanto facendo irrompere qualcosa di prodigioso, a condizione però che essa si richiuda subito e rimanga in dubbio se si sia veramente aperta o no. In poche parole, il fantastico presuppone l’Illuminismo. Non è un caso che i maggiori maestri del genere siano tutti nati tra gli ultimi decenni del Settecento e i primi dell’Ottocento, dal 1776 di Hoffmann, al 1809 di Poe e Gogol ́. In sintonia con Caillois, Todorov a sua volta scrive:

il fantastico ha avuto una vita relativamente breve. È apparso in maniera sistematica verso la fine del XVIII secolo, con Cazotte; un secolo dopo troviamo nelle novelle di Maupassant gli ultimi esempi esteticamente soddisfacenti del genere (3).

Al di là di considerazioni e aggiustamenti cronologici, quel che piú importa è che Caillois e Todorov abbiano dimostrato che è possibile definire in modo rigoroso e convincente uno statuto preciso del soprannaturale letterario, e che si può documentarlo in un periodo determinato e per un insieme definito di testi.

Una domanda però s’impone: il fantastico è forse una categoria capace di dare conto di tutta la tematica soprannaturale presente nel secolo di letteratura compreso tra Cazotte e Maupassant? Gli studi sul fantastico ce lo fanno quasi credere l’unica forma di soprannaturale invalsa tra fine Sette e inizio Ottocento. Ma è davvero stata l’unica esistita in quel periodo? Il soprannaturale, per esempio, è centrale nel Faust di Goethe come in Der Ring des Nibelungen, ma esso si manifesta in una forma che di sicuro non ha niente a che vedere col fantastico: l’ambientazione non è certo di tipo realistico e tanto meno il soprannaturale vi irrompe per creare dubbi. Sia l’uno che l’altro sembrano al contrario svolgersi in un mondo dove esso, a modo suo, è di casa. D’accordo, potremmo pur sempre ricorrere, per ricomprenderli, all’onnivora categoria del meraviglioso di cui si avvale Todorov. Ma come non diffidare di questa pigra, antistorica assimilazione retrospettiva a un soprannaturale di vecchio stampo? Il men che si possa dire è quindi che di statuti post-illuministici del soprannaturale, negli ultimi decenni del Settecento, ne sorsero contemporaneamente due, non uno.

Se già per l’Ottocento il fantastico non va considerato come il solo soprannaturale possibile, a maggior ragione una riflessione sulla pluralità dei suoi statuti è necessaria per tutte le altre epoche. Le tematiche del soprannaturale sono tutt’altro che marginali nella tradizione letteraria e le ritroviamo nelle piú importanti opere del canone ben prima dell’affermarsi del fantastico e ben al di là dei confini del fiabesco: la Commedia ci parla dell’altro mondo, Hamlet si fonda sull’apparizione di un fantasma, Don Quijote non potrebbe fare un passo nella sua pazzia se non parlasse continuamente di maghi, Racine nella Phèdre ridà vita a terribili mostri preistorici e, come nel Faust, il diavolo svolge un ruolo decisivo ne I fratelli Karamazov.

Da una parte il fantastico non basta nemmeno a definire i prodigi del solo Ottocento; dall’altra, la categoria di meraviglioso impiegata da Todorov è fin troppo capiente per rendere giustizia alla pluralità di forme che il soprannaturale letterario ha rivestito lungo i secoli. Perché, allora, non dev’essere possibile fare per altre forme di esso quello che è stato fatto finora per una sola? Perché quanto è stato possibile per il fantastico non dovrebbe esserlo per altri statuti del soprannaturale, e per altri periodi e generi, virtualmente per tutti, da Omero ai giorni nostri?

Si prenda per contrasto l’inizio de I Promessi Sposi. Don Abbondio rincasa serenamente leggendo il suo breviario, quando d’improvviso, «voltata la stradetta, e drizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere» (4). Una narrazione fantastica potrebbe iniziare in maniera del tutto simile, con un personaggio che a una svolta si trovi di fronte a uno spettacolo tanto imprevisto da suscitare in lui un turbamento. Tuttavia in Manzoni l’attesa, che potrebbe anche presagire una lacerazione dei vincoli spazio-temporali del mondo reale, non approda a nessuna irruzione del prodigioso. Quel che vede il curato sono «due uomini […] l’uno dirimpetto all’altro» (5). E il narratore conclude ben presto: «L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione» (6). Si continua poi con la descrizione dettagliata dei due, cui segue l’erudita digressione sulla «specie dei bravi» (7). L’evento straordinario che irrompe nella vita di don Abbondio non apre insomma alcun varco a quel dubbio che secondo Caillois e Todorov è l’anima del fantastico. Per don Abbondio lo spettacolo risulta sconvolgente, ma non certo in quanto non interpretabile. L’improvviso turbamento del curato non è quello che caratterizza il fantastico proprio perché tutto è indubitabilmente decifrabile; il mondo con cui don Abbondio si confronta è costituito da segnali che rendono subito evidente una situazione, e che limitano le possibilità di altre interpretazioni:

vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a sé stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo (8).

In una fiaba la via d’uscita da una situazione di difficoltà può sempre essere garantita da un intervento magico, per esempio di una fata o di una strega che aprono varchi e vie di fuga impensabili dentro uno spazio e un tempo normali. Questo però non è possibile in un romanzo come I Promessi Sposi, dove lo spazio cui si fa riferimento è quello sottinteso come reale:

e guardando con la coda dell’occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un’occhiata, al di sopra del muricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra piú modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? Tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio (9).

Don Abbondio accelera il passo e affronta i bravi. I «mille pensieri» che lo assalgono presuppongono una disposizione di spazio, quello abbracciato dal suo sguardo; una successione di tempo (il curato pensa se nel passato abbia urtato qualche potente e considera se gli resta tempo per fuggire); precisi rapporti di causa ed effetto che, per quanto gli siano sfavorevoli, non sono meno saldi. In questo brano è chiaro che alcune coordinate della percezione possono funzionare come presupposto ferreamente sotteso al romanzo, e si dà per scontato che esse siano colte dal lettore senza alcun bisogno di esplicitarle. Si provi invece a immaginare un testo che evochi un mondo soprannaturale le cui coordinate non vengano dichiarate: senza l’esplicitazione di regole precise si capirebbe poco o niente. Pensiamo a una fiaba qualsiasi: a chi non si profila netta nella memoria almeno una regola delle tante e articolate che scandiscono la vicenda raccontata? […]

Di regole e istruzioni è lastricato anche il viaggio di Dante. Nella Commedia, l’avventura di un solo personaggio, che inizia con l’uscita dal mondo dei vivi e finisce nell’istante stesso in cui egli vi rientra, costituisce come un formidabile contenitore di regole. Se già in Chrétien la regola delle regole riguardava la localizzazione, secondo la quale s’incorre nei prodigi solo inoltrandosi avventurosamente in un dato sentiero, in Dante l’idea della soglia e del viaggio costituisce come una soluzione estrema alle esigenze di localizzazione del soprannaturale. La topografia fisica e morale del viaggio non ha nulla di accidentale, tanto che nel poema può spesso essere oggetto di ammirazione quale manifestazione della razionalità infallibile di Dio, benché essa sia solo in parte ispirata ai testi sacri e alle autorità della teologia, e sia in grande misura invenzione d’autore:

O somma sapïenza, quanta è l’arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, e quanto giusto tua virtú comparte! (10)

La localizzazione è massima e corrisponde a un insieme complicato, motivato, grandioso e totalitario di localizzazioni, l’opposto di un aldilà rivelato per visioni singole. La razionalità divina si fa topografia, e la topografia è viaggio. Il rituale di Minosse alle soglie dell’Inferno assicura una miriade di norme distributive che articolano topograficamente i gradi della dannazione:

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe nell’entrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.

Dico che quando l’anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata

vede qual loco d’inferno è da essa; cignesi con la coda tante volte quantunque gradi vuol che giú sia messa (11)

Minosse essamina, giudica e manda: il luogo destinato alla colpa corrisponde al linguaggio della coda del mostro. Nella Commedia si va letteralmente di regola in regola, e le regole topografiche corrispondono a regole di ben altro genere. […]

Nel caso di Farinata la condizione di dannato corrisponde a una regola non tanto psicologica quanto cognitiva. Dante gli riserva infatti il dovere di spiegare come funziona il rapporto tra gli abitanti dell’Inferno e il futuro umano:

«Noi veggiam, come quei c’ha mala luce, le cose», disse, «che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce.

Quando s’appressano o son, tutto è vano nostro intelletto; e s’altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano.

Però comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta» (13)

Dio concede ai dannati di vedere lontano nel futuro, ma non il piú vicino presente. Sovente il presentificarsi di un dannato corrisponde all’esplicitazione di regole, con forti ricadute sulla gestione del racconto. La norma che consente a Farinata di predire il futuro a un Dante che non conosce che il presente attraverserà il poema regolando la memoria e la curiosità dei dannati e del viator. In tutta la Commedia la formulazione della regola in vigore è spesso decisiva nel garantire la coerenza, gli snodi e perfino la vivacità narrativa del poema. Si pensi, per esempio, alla paura che nel canto XXVI Dante e Virgilio provano mentre sono inseguiti dai diavoli perfidi e beffardi incontrati sul loro cammino. La grazia di Dio, che ha permesso a Dante di fare l’esperienza dell’aldilà, non gli garantisce l’immunità dai pericoli piú concreti. Ma passati alla bolgia successiva i due si placano, perché nell’Inferno vige la regola, per niente scontata, che i diavoli restino confinati nel loro territorio. Per ottenere un effetto diverso, non sarebbe dipeso che da Dante, piú che dalla razionalità divina, decidere che i diavoli potessero anche valicare i confini tra una bolgia e l’altra.

L’esplicitazione della regola da parte di Farinata permette certo di dare senso all’apparizione del dannato che profetizza l’esilio di Dante. Ma permette anche al poeta di reinterpretare a posteriori l’incontro immediatamente precedente con Cavalcante Cavalcanti. Grazie alla regola gli è infatti possibile giustificare la sua «colpa», la durezza cioè della sua risposta a Cavalcante che chiedeva notizie di Guido. Inoltre la presa di coscienza della norma infernale rende ancora piú straziante il desiderio frustrato del padre che cercava di sapere se il figlio fosse ancora vivo. Tutt’altro che meccaniche e astratte, di un’e- strema funzionalità narrativa, le regole soprannaturali possono quindi situarsi al cuore dei momenti piú commoventi del poe- ma. Si pensi all’apparizione di Brunetto Latini. Questa volta la norma non è esplicitata a posteriori, ma è il personaggio stesso a formularla, al punto che la formulazione di essa e il pathos dell’azione tendono a sovrapporsi. Quando Dante chiede commosso al proprio maestro di fermarsi, questi prende la parola esplicitando perché non può farlo:

«O figliuol», disse, «qual di questa greggia s’arresta punto, giace poi cent’anni sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia.

Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada
che va piangendo i suoi etterni danni» (14)

Il pathos della separazione coincide con la regola esposta da Brunetto (in quella greggia non ci si ferma mai). Quest’ultima è già una sotto-regola che precisa a sua volta la norma relativa alla pioggia di fuoco che sferza i dannati. Nel momento piú commovente dell’incontro tra i due le regole si accumulano. E Dante ritiene perfino necessario far dichiarare a Brunetto che questi si discosterà dalla masnada per avvicinarsi a’ panni dell’allievo. Questa sorta di libertà parziale e momentanea del dannato non fa che accentuare i limiti imposti dalle leggi dell’altro mondo.

Nella Commedia come non mai il soprannaturale è dunque costituito da enunciazioni di regole. Forse fu proprio un rifiuto del soprannaturale, soprattutto di un tipo cosí concreto e articolato nel suo basso-medievale razionalismo, che spinse Croce a dichiarare impoetico quel formidabile insieme di norme e sotto-norme che è la struttura del poema: «la rappresentazione dell’altro mondo, dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, non poteva essere soggetto intrinseco della sua poesia» (15) Una tesi purtroppo aggiornata a modo suo da Contini che concentra nel viaggio («e dunque, addio viaggio») (16) le diffidenze crociane verso la struttura. Contro questo giudizio di Croce basterebbe citare Dante stesso. Infatti la smentita migliore è la suprema poesia dello sguardo retrospettivo dall’alto, nell’ultimo canto, all’immensità del viaggio e alla progressione puntuale delle sue tappe:

Or questi, che da l’infima lacuna de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una. (17)

Note

(1) R. Caillois, Dalla fiaba alla fantascienza [1966], Edizioni Theoria, Roma-Napoli.

(2) Ibid., p. 34.

(3) Tz. Todorov, La letteratura fantastica [1907] Garzanti, Milano 1995 p. 170.

(4) A. Manzoni, I Promessi Sposi, Mondadori, I Meridiani, Milano 2006, p. 12. 


(5) Ibid.

(6) Ibid.

(7) Ibid.

(8) Ibid., p. 17.

(9) Ibid.

(10) D. Alighieri, Inferno, Mondadori, I Meridiani, Milano 1991, canto XIX, vv. 10-12, p. 596.

(11) Ibid., canto V, vv. 4-12, pp. 138-39.

(12) Ibid., canto III, vv. 124-26, p. 96.

(13) Ibid., canto X, vv.  100-8, pp. 324-25.

(14) Ibid., canto XV, vv. 37-42, pp. 461-62.

(15) B. Croce, La poesia di Dante, Laterza, Bari 1966, p. 49.

(16) 
 G. Contini, Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970, pp. 369-70(Un’inter-pretazione di Dante).

(17) D. Alighieri, Paradiso, Mondadori, I Meridiani, Milano 1994, canto XXXIII, vv. 22-24, p. 910.

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