Gli impiegati, Honoré de Balzac (1837). La figura dell’impiegato nella letteratura dell’Otto e del Novecento/2
Pubblichiamo il secondo di una serie di interventi sul tema dell’impiegato nella letteratura del XIX e del XX secolo. Questi interventi hanno la loro origine nel corso di Letterature comparate dell’Università di Perugia, e sono stati scritti sia da docenti, che da studenti che a quel corso hanno preso parte attivamente. L’introduzione a questo ciclo di post si può leggere qui.
“I contadini”, ha detto qualcuno, “subiscono senza rendersene conto l’azione dei mutamenti atmosferici e dei fatti esteriori. Assimilati dalla natura in mezzo alla quale vivono, si sono permeati insensibilmente delle idee e dei sentimenti che essa evoca […]”. Ora, la natura per l’impiegato è l’ufficio, il suo orizzonte è limitato da ogni parte dalle cartelle verdi. Per lui le circostanze atmosferiche sono l’aria dei corridoi, le esalazioni maschili compresse in stanze senza areazione, l’odore delle carte e delle penne. Il suo terreno è il pavimento, o un parquet sparso di strani detriti e inumidito dall’annaffiatoio del fattorino. Il suo cielo è un soffitto al quale indirizza i suoi sbadigli. Infine, il suo elemento è la polvere.i
Così Balzac descriveva la natura dell’impiegato in un lungo racconto pubblicato dal 1° al 14 luglio su «La Presse»: il titolo originario, La femme supériure, viene poi mutato, definitivamente, nel 1844 in Les Employés.
Rabourdin, un impiegato parigino sposato ad una «donna superiore», cercherà di raggiungere una promozione fondamentale, la quale gli permetterà di effettuare, finalmente, la scalata sociale tanto sperata. L’impiegato sembra non meritare alcuna specifica descrizione, e i suoi tratti sembrano costituire una sorta di seconda natura che Balzac, contrariamente all’atteggiamento avuto nei confronti di altre figure sociali, estrapola direttamente dalla realtà, e riconsegna al lettore attraverso tipizzazioni marcate ed esibite. Rabourdin, uno dei trentamila impiegati parigini dell’epoca, è pertanto un «uomo senza più entusiasmo ma non ancora disgustato», o più correttamente il meccanismo «più o meno lubrificato» di un ingranaggio burocratico in cui «regna una completa uguaglianza […]: lì infatti un poeta, un artista o un commerciante sono solamente impiegati».
Al di là dei motivi squisitamente letterari, c’è un motivo ideologico che sorregge questa rappresentazione dell’impiegato. Balzac è un reazionario, che non nasconde la sua posizione apertamente critica nei confronti del governo rappresentativo, liberale, in odor di democrazia: per questo motivo sceglie come suo oggetto di raffigurazione un “articolo” della contemporaneità, ossia di quella cultura massificante che sta progressivamente prendendo piede. L’impiegato è pertanto catalogato, studiato nelle dinamiche più profonde, e collega inscindibilmente all’universo a cui appartiene: è, sostiene Balzac, un prodotto che «nasce, si ottiene, si scopre, si sviluppa soltanto nelle calde serre di un governo rappresentativo» (e non sarà certamente un case se il giovane Flaubert, nello stesso anno, scrive Moeurs rauennaises. Leςon d’histoire naturelle. Genre commis – Costumi di Rouen. Una lezione di storia naturale. Genere impiegato).
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L’impiegato risulta estremamente funzionale alla narrativa balzachiana perché nel suo “habitat”, l’ufficio, risponde con le stesse dinamiche che caratterizzano le vicende umane messe in scena nella Comédie humaine.
Quando Balzac apre le porte del ministero dove lavora Rabourdin, appare al lettore uno spettacolo tanto eterogeneo quanto rappresentativo: per mezzo di una scrittura degna del migliore vaudeville, chi osserva entra in contatto con i colleghi del protagonista, maschere teatrali di un sistema che si regge esclusivamente sul servilismo e sull’arrivismo, contro cui il merito è costretto ad arrendersi. Cretini perché impiegati, o impiegati perché cretini («forse la responsabilità va divisa in parti uguali fra la natura e il governo»), i lavoratori ministeriali di Balzac sono i veri tarli del sistema, pronti a rosicchiare fino all’osso la macchina amministrativa per averne un qualsiasi (infimo) guadagno; piccoli e impossibili da schiacciare, perché «si appiattiscono sotto il piede», errano dagli uffici ai salotti in cui le femmes decidono del destino dei propri mariti; costantemente in cerca di un’amicizia da sfruttare o di una conoscenza utile per lo slancio risolutivo, si piegano a qualsiasi compromesso.
Il successo professionale non è sicuramente ostacolato dall’incapacità, poiché si può far carriera anche solo «mettendosi in vista, stando in società, coltivando le [proprie] relazioni e stringendone delle nuove». Ne è tragica controprova il protagonista Rabourdin, il quale non raggiungerà la promozione proprio per la sua intelligenza, la sua lungimiranza, e in fondo anche la sua onestà intellettuale: il suo piano di riforma ministeriale, che pretende di trasformare l’amministrazione pubblica in una macchina più efficiente e meno dispendiosa, viene scoperto e divulgato, creandogli così un ambiente così ostile, da rendere obbligatorie le dimissioni.
Alla partita messa in scena dal romanzo di Balzac (che fonda un genere, quello appunto del romanzo impiegatizio) partecipano tutti, dai chierici agli uomini di stato, dalle mogli alle amanti, passando per gli usurai e i proprietari terrieri. Ma di tutta questa bagarre, c’è solo un elemento, sembra voler sostenere Balzac, ad uscire veramente sconfitto: e questo non è di certo lo Stato, il quale «deruba gli impiegati quanto gli impiegati rubano il tempo dovuto allo Stato», quanto quell’entità astratta che possiamo chiamare l’animo umano. Man mano che ci si avvicina la morte, il lavoro impiegatizio rivela un processo di fagocitazione che distrugge l’identità dei suoi personaggi: «il barone ieri era ancor vivo e oggi non è più niente, nemmeno impiegato» Ma ciò non induca a vuoti romanticismi e pateticismi. La posizione di Balzac, lo ripetiamo, è prettamente politica: solo una monarchia d’ancien regime è capace di nobilitare l’uomo e il suo spirito. Il governo democratico, invece, è avvilente e induce i suoi cittadini ad un livello di sudditanza senza precedenti. E la figura dell’impiegato è quella più capace di mostrare questo processo.
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Anche se il solco è stato vergato, ci si trova ancora lontani dalle ribellioni e dall’alienazione raccontate dalla letteratura successiva (Svevo, Kafka, Tozzi, fino a Palahniuk e Houellebech, passando per De André): quando la «malattia dell’ufficio» (per dirla alla Balzac) si tramuterà progressivamente in nuda e cruda morte in ufficio (di morte in banca parla Pontiggia); quando gli impiegati, stanchi della propria vita, accetteranno di morire da scarafaggi o tenteranno di inceppare quel sistema che di essi può sicuramente fare a meno; quando la prospettiva di un’esistenza da “non impiegati” risulterà impossibile persino nella vita privata; quando sarà ormai irreversibile l’estensione del dominio della lotta.
Ne Les Employés (Gli impiegati) tratti essenziali sono stati delineati. E il soggetto sembra ormai ultimato. Sembra la conferma di quanto sosteneva Oscar Wilde quando osservava che «la letteratura anticipa sempre la vita. Non la copia ma la foggia per il suo proposito», per poi concludere che «il diciannovesimo secolo, come lo conosciamo, è in gran parte un’invenzione di Balzac». Non sappiamo dire se è vero, ma crediamo di non sbagliare (di molto) se sosteniamo che, nella letteratura, l’impiegato, così come è declinato nella narrativa occidentale, è un’invenzione di Balzac.
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NOTE
i Honoré de Balzac, Gli impiegati, Garzanti, 2001, Milano, pp. 118-119.
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