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diretto da Romano Luperini

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«Ain’t you proud that you’ve still got faces?»: Uno, nessuno, centomila David Bowie

Novembre 1999. David Bowie sta promuovendo il suo disco più recente, Hours, ed è ospite della trasmissione canadese Musique Plus. Nel corso dell’intervista, la conduttrice fa riferimento al topos più abusato: Bowie come l’attore dalle mille maschere e dalle continue metamorfosi, da Ziggy Stardust e Aladdin Sane al Thin White Duke.

Nel riprendere la parola, l’intervistato si distanzia ironicamente dal luogo comune, ripetendolo con tono sarcastico: «I’m the chameleon of rock, you know! Self-reinvention is my middle name, because you know my motto — ch-ch-ch-changes».

Importa notare che, se il tono ironico della dichiarazione sembra farsi beffe del luogo comune, l’actio ci dice qualcos’altro: per pronunciare quelle parole, infatti, Bowie stravolge la propria voce (una costante nelle sue interviste), imitando quello che per lui è, evidentemente, l’archetipo della rockstar vacua, che ragiona per frasi fatte. Subito dopo assume invece la voce dell’attore inglese Kenneth Williams, e smentisce (si fa per dire) la conduttrice in modo ancora più diretto: «Oh come on. Don’t be silly».i

Anche prendendo le distanze dal luogo comune del «chameleon of rock», insomma, David Bowie non può astenersi dall’indossare maschere, dall’imitare, dall’inventare nuovi personaggi appropriandosi creativamente di voci e stili altrui. Come tanti hanno ricordato negli ultimi giorni, se c’è una caratteristica che rimane costante nei suoi quasi cinquant’anni di carriera, è proprio questa. Ma cosa significa, in ultima analisi, questa sistematica vocazione alla teatralità? E cosa ci dice sulle nostre vite, o sul mondo in cui viviamo?

Cercare di rispondere a queste domande significa, naturalmente, interrogarsi sui motivi dell’importanza di Bowie nell’immaginario collettivo. Nei paragrafi che seguono non si cercherà, beninteso, di interpretare canzoni pop come se fossero testi letterari (Bowie stesso era ben consapevole della differenza, pur avendo sempre dichiarato che la narrativa sarebbe stata la sua più grande ambizione); se è vero però che alla musica pop e rock spetta oggi il mandato sociale che apparteneva in passato alla poesia (come argomentato da Guido Mazzoni in Sulla poesia moderna), allora non sarà inutile identificare alcune delle costanti che attraversano l’opera di uno dei massimi interpreti di questo medium, e ricondurle per quanto possibile a una poetica.

1.

In una certa misura, l’esasperata tendenza mimetica di Bowie può essere letta come un esercizio di schizofrenia simulata — quasi un «gigantesco sistema di difese», come Elio Gioanola ha scritto di Pirandello, «eretto contro la paura della follia vera». Come nel caso di Pirandello, la «follia vera» svolge un ruolo importante nella biografia dell’autore: alla schizofrenia del fratello, morto suicida nel 1981, è dedicato il singolo Jump they say (1993). Più che di paura, comunque, sarebbe corretto parlare di un ambivalente interesse per la natura fluida e molteplice dell’Io, per le possibilità creative implicite nell’idea romantica di follia, e infine per la psicosi come tratto distintivo della nostra epoca: lo dimostra una lunga serie di esempi, dal personaggio di Aladdin Sane / A lad insane (1973) allo stesso Thin White Duke, fino a pezzi come I’m deranged dal disco Outside (1995; l’alter ego usato in questo disco, l’investigatore Nathan Adler, rinvia naturalmente ad Alfred Adler, il fondatore della psicodinamica). All’interesse per la funzione creativa della follia si collegano, per inciso, anche i numerosi omaggi alla tradizione del surrealismo: si pensi alla tecnica del cut-up usata (con la mediazione di Burroughs) in Diamond Dogs (1974), alla proiezione di Un chien andalou durante il tour di Station to Station (1976), o all’immagine di copertina di Heathen (2002), che si rifà a una celebre scena di Emak Bakia di Man Ray.ii

L’uso schizofrenico della maschera è quindi, anzitutto, un modo per giocare con lo spettro della follia, e con il suo potenziale simbolico. Ma è anche un modo per sottrarsi a un altro processo che da sempre domina l’immaginario di Bowie: la divinizzazione, e successiva cannibalizzazione, della rockstar da parte della folla. Il rapporto tra cantante e pubblico veniva raffigurato in termini sacrificali già in Rock ‘n’ roll suicide, il pezzo conclusivo di The rise and fall of Ziggy Stardust (1972); in una prospettiva simile possiamo leggere i richiami cristologici degli ultimi dischi, da The Next Day («Here I am, not quite dying, my body left to rot in a hollow tree | Its branches throwing shadows on the gallows of me | And the next day, and the next, and another day», con la triplice ripetizione a evocare le resurrezione dopo il terzo giorno) ai recentissimi singoli Blackstar — il cui protagonista viene adorato come un messia — e Lazarus.

Nascondersi tramite maschere è dunque, banalmente, anche un necessario accorgimento per proteggere la dimensione privata dalla sovraesposizione al pubblico. Oltre che in numerose interviste, il concetto è ribadito nell’epilogo del disco Blackstar; e per quanto negli ultimi dischi non manchino momenti di relativa trasparenza e immediatezza, è significativo che la carriera di Bowie si chiuda proprio ribadendo l’impossibilità di mostrarsi al mondo in modo diretto: I can’t give everything away, che in questo contesto significa proprio «non posso svelare tutto».

Nei confronti dei fenomeni di massa, del resto, Bowie ha sempre tenuto un atteggiamento di attrazione e repulsione, che lo ha portato a esplorare il tema nelle sue forme più varie — dalla pop art (a Andy Warhol è dedicata una canzone in Hunky Dory) alle società distopiche di Diamond Dogs (disco ispirato a 1984 di Orwell) e Outside, dalla vite nelle metropoli americane (Panic in Detroit, 1973; Young Americans, pezzo del 1975 da cui è tratto il titolo di questo articolo) al clima paranoide della guerra fredda (Station to Station, «Heroes», Fantastic Voyage), dalla dittatura alla moda. Emblematica, da quest’ultimo punto di vista, è la canzone Fashion (1980), con il suo marziale ritornello «Fashion! Turn to the left | Fashion! Turn to the right», e la calcolata analogia tra il titolo della canzone e la parola fascism (l’allusione è confermata dal riferimento al «goon squad», o «squadrone di imbecilli», nella strofa).

2.

Riassumendo, le continue metamorfosi di Bowie rimandano da una parte alla volontà di esplorare il potenziale simbolico della follia, dall’altra all’ovvio bisogno di creare un filtro fra il privato e il pubblico di massa. Ma l’aspetto più interessante di questo atteggiamento è un altro: risiede piuttosto nel rapporto problematico con l’idea di autenticità, implicito in ogni trasformazione di Bowie dal 1969 al 2016.

I decenni di attività di Bowie coincidono con l’esplodere di una contraddizione che ancora oggi pervade l’immaginario sociale dell’Occidente: da una parte il trionfo dell’express yourself, in nome di un Io autentico e naturale che sarebbe soffocato dalle convenzioni sociali; dall’altra un mimetismo di massa, in base al quale gli ideali dell’anticonformismo e dell’autenticità rispondono a precise convenzioni e leggi di mercato. La mitologia del rock, con il suo ribellismo massificato, tende a esemplificare questa contraddizione in modo passivo e irriflesso. Bowie, al contrario, la riconosce fin dall’inizio, e la gestisce lucidamente: diventare sé stessi non significa restare fedeli a un’ipotetica natura, all’unicità di un Io originario; significa piuttosto costruire — più o meno deliberatamente — un personaggio, scegliendo di volta in volta i propri modelli e le proprie convenzioni.

A conclusioni simili giungeva, una decina di anni fa, un bel libro di Charles Larmore (Les pratiques du moi, PUF, 2004). David Bowie mette appunto in scena, consapevolmente, l’identità come una pratica, come un processo di continua mediazione e autodefinizione: è proprio questa consapevolezza a illustrarne al meglio la profonda capacità di leggere il nostro tempo.

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NOTE

i Il video dell’intervista è disponibile al link https://www.youtube.com/watch?v=MQi4ZbzNn8Y (minuto 6:00).

ii L’allusione è riconosciuta, in termini generici, in un’intervista del 2002: «La copertina [di Heathen] è un omaggio al surrealismo degli anni Trenta; a Man Ray, Dalì e a Buñuel» (‘Interview mit David Bowie’, Der Spiegel, 11 giugno 2002; http://goo.gl/dAppgz).

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