Difesa della lezione frontale (o, per chi preferisce, «Lezione frontale 2.0»)
La «Lezione Frontale»
Tre aneddoti.
a) Una volta mi è capitato di intercettare casualmente la conversazione di due studenti intorno a due loro insegnanti. Entrambi i colleghi facevano, come si poteva facilmente inferire, una “lezione frontale”. Eppure la loro reputazione presso i due ragazzi era ben diversa: «Ah, quando parla X, capisco la filosofia; invece Y fa una… Lezione Frontale» (smorfia incerta tra noia e senso di sufficienza).
b) Capita (o capitava, qualche decennio fa) di sentire frasi come queste: «la Lezione Frontale è mera trasmissività e ripetizione del sapere!», «la Lezione Frontale veicola il sapere in forme autoritarie!», «esistono alternative alla Lezione Frontale!» (quest’ultima con esiti irresistibilmente comici, perché, nel caso in cui il contesto sia un’aula in cui ci si specializzi per fare gli insegnanti o ci si aggiorni, viene quasi sempre pronunciata nel corso di una… Lezione Frontale).
c) In una recente trasmissione d’inchiesta della Rai, impegnata con foga – tocca dire – pregiudiziale, nella difesa della scuola “reale” dalle improprie volontà riformatrici della politica, volendo additare un modello di “buona scuola” e una didattica del latino innovativa, ci si accontentava di mostrare una classe senza banchi, coi ragazzi divisi in gruppi, in mano un tablet. Non una parola su che cosa gli studenti stessero facendo con quello strumento, come fosse riconfigurata la materia nel nuovo setting, in quali attività se ne concretizzasse l’apprendimento. Problemi superflui: bastava alludere al fatto che fossero scomparsi i tratti manifesti della «Lezione Frontale».
Quando si vede maltrattare con tanto accanimento qualcuno o qualcosa vien sempre voglia di intervenire in sua difesa e di ascoltarne le ragioni. Ma prima di iniziare l’arringa: perché scrivo «Lezione Frontale», con la maiuscola?
Emancipazione dalla tradizione e ricerca dell’autenticità
Basta aprire un qualsiasi manuale di didattica per trovare una definizione di «lezione frontale» (o ex cathedra) in senso stretto e per vederla appaiata a diversi altri approcci e tecniche. Ma nei tre aneddoti che ho appena raccontato ciascuno capisce che in gioco non è tanto la critica a una semplice metodologia, bensì la polemica contro qualcosa dal significato talmente vasto e indefinibile che sembra essere tenuto insieme quasi solo dall’indistinto e inconsulto rigetto che provoca: è ciò che non siamo, ciò che non vogliamo (più) essere. La «lezione frontale», una forma di lezione fra altre (sebbene – certo – ancora molto diffusa almeno nella scuola superiore), è ormai diventata «Lezione Frontale»: cifra o carattere eponimo di tutta la scuola italiana, senza distinzioni di materia grado indirizzo. Un po’ come si dice “medievale” per indicare la summa di tutto ciò che è oscurantismo, irrazionalità, barbarie.
Questo valore metonimico è assai ben documentato dallo scambio di battute fra i due studenti. Chissà quante volte essi avranno sentito denigrare la «Lezione Frontale» – cioè la scuola italiana –, per non riuscire a vedere quanto era davanti ai loro stessi occhi: una «lezione frontale» interessante.
Ha scritto Claudio Giunta, ne L’assedio del presente, che il passato è ormai per noi il deposito dei «miti e degli errori», dai quali il presente, tempo storicamente necessario e ineluttabile, della cui giustezza il passato non è che l’imperfetta preparazione, ci ha liberato. Oggi infatti «tradizionale» è qualità negativa, tranne che nelle pubblicità dei biscotti. Con un’idea siffatta di passato, non stupisce che tutto ciò che lo richiami sia vissuto come l’indebita sopravvivenza di un ancien régime di cui dovremmo fare tabula rasa: è ciò che continuiamo a perpetuare inerzialmente, è il laccio che ancora ci lega e che ci impedisce di essere efficaci, attuali, giusti, all’altezza del nostro presente; soprattutto è ciò che ci impedisce di essere liberi, autentici, spontanei.
Non stupisce che questo discorso sia evocato così di frequente proprio a scuola: maxima debetur puero reverentia. La scuola è il luogo nel quale ciascun individuo dovrebbe poter costruire un progetto di vita autonomo, non eterodiretto. Ma questo discorso rimuove con eccessiva disinvoltura la difficoltà effettiva a modificare le determinazioni positive che danno figura alla nostra esistenza prima di ogni nostra volontaria decisione.
Forse non ci facciamo caso, ma discorsi di diversa origine (e diversa nobiltà) – attivismo pedagogico, teorie dell’apprendimento digitale, una certa retorica delle competenze e di una “scuola che prepari al mondo del lavoro” – sono accomunati dall’identico desiderio di portare la realtà dentro la scuola, di abbattere i muri che separano quello spazio in cui si vive in un eterno “come se”, luogo di molte mediazioni e cristallizzazioni, per lasciare che l’immediatezza della vita vi faccia irruzione: l’apprendimento spontaneo, ludico, luccicante, la Rete che porta il mondo in classe, le conoscenze istituzionalizzate e costituite in sapere che tornano fluide e a disposizione di nuovi assemblaggi e personali riconfigurazioni, il saper fare (il sapere concreto, incarnato, realizzato) che sostituisce il sapere dei libri, astratto e inerte; il preside Nolan contro il professor Keating.
A una persona, come me, di studi letterari, tutto questo ricorda una costante della letteratura moderna: la rottura della tradizione, la polemica contro la retorica del linguaggio dei padri, la ricerca di una nuova naturalezza e spontaneità, rilanciata ad ogni nuova generazione. Come Montale, che, tentando di ripetere nella propria voce l’eco della forza smisurata del Mediterraneo, «non ha che le lettere fruste / dei dizionari» (Mediterraneo, in Ossi di seppia). Me lo ricorda, ma con due radicali differenze: Montale descrive lo scacco di quel desiderio, non la sua realizzazione; inoltre, tutti i poeti che sono riusciti ad approdare a una nuova naturalezza, dando a noi lettori l’impressione che fossero i primi a poetare, e non gli ennesimi a citare, vi sono pervenuti facendo i conti con le lettere fruste dei dizionari, non illudendosi di aver trovato la spontaneità e l’immediatezza prima di quel faticoso attraversamento.
Chissà, forse si potrebbe scrivere una storia della didattica (meglio, una storia dei discorsi sulla didattica) avendo come filo rosso quest’ossessione per l’autenticità sempre fallita.
Leggere è un’attività sopravvalutata?
Orientati inconsapevolmente da quest’insoddisfatta volontà di riforma, molti discorsi sulla scuola si fondano su questa logica contrappositiva: centralità del discente contro centralità della disciplina e del docente, banchi in cerchio o a isola contro banchi di fronte alla cattedra, orizzontalità dell’apprendimento contro verticalità, laboratorio contro lezione ex cathedra, tecnologico contro pretecnologico: passività della tradizione contro nuovo attivismo e inautenticità ed errore del passato contro ricerca dell’autenticità presente. Esemplare di quest’insoddisfazione la lettera di una collega canadese che circola ormai da mesi, con costante fortuna, in internet.
Proprio perché questo modo di ragionare ci è ormai naturale, esso determina lo sguardo che gli insegnanti hanno su se stessi e determina, o inquina se vogliamo, la loro lettura dell’esistente scolastico e i progetti di una sua possibile trasformazione: interpretiamo le dinamiche interne alle scuole come lotta tra innovatori e conservatori, tra chi con entusiasmo vorrebbe rivoluzionare o riformare radicalmente le cose e chi punta i piedi contro questa trasformazione. Ma l’effetto di questa interpretazione è ansiogeno per tutti quelli che non condividano la passione “avanguardistica” dei proponenti e finisce spesso per produrre piccole isole radicalizzate di innovazione in un mare di pratiche di resistenza “cocciuta” o “inerziale”. Di solito producono anche reciproca incomprensione e astio: da un lato disprezzo per la retrività altrui, dall’altro diffidenza verso ogni innovazione, sentita come minaccia potenziale e preludio al caos o all’imbarbarimento.
Questa sommaria logica binaria non resta però soltanto a questi livelli, se vogliamo abbastanza generali – per cui si potrebbe anche ignorarla e continuare per la propria strada –; al contrario, essa sottende discorsi assai prossimi al concreto contesto scolastico e plasma orientamenti didattici.
In Rete capita ormai di imbattersi in infografiche come questa:
(fonte: Orizzonte scuola)
In essa si riassumono (al di fuori di ogni contesto, però) alcune acquisizioni neuroscientifiche sulle modalità di apprendimento. In particolare, nella colonna centrale si confronta l’efficienza di una serie di attività (leggere, ascoltare, vedere, dire, discutere, fare) in relazione alla quantità di informazioni memorizzate, ordinandole da quella meno meno efficiente, la lettura, a quella più efficiente, il fare. L’intenzione, sempre esplicitata da parte di coloro che fanno circolare sintesi simili, è fornire prove scientifiche dell’opportunità di orientare la didattica verso la produzione attiva dello studente. Quest’infografica, ad esempio, era accompagnata dal commento «a dimostrazione del fatto che per imparare bisogna fare».
Si tratta di una variante dello stracitato detto di Confucio (o sarà un apocrifo, come molte delle citazioni fortunate?) secondo cui «se ascolto, dimentico, se vedo, ricordo, se faccio, capisco». In qualche modo, questa è in effetti una verità abbastanza intuitiva: quanto più immersiva è l’esperienza, tanto più facile è che il sapere da essa ricavato ci si imprima nella memoria; e “fare” è l’attività umana più contestualizzata e “reale” che esista.
Ma ciò che viene memorizzato ascoltando, leggendo, facendo, è davvero lo stesso tipo di sapere, come se quest’ultimo si riducesse alla quantità di pacchetti discreti di informazioni che transitano attraverso un canale neutrale, strettissimo quello del leggere, larghissimo quello del fare? Ragionando così, dovremmo allora concludere che, siccome l’esperienza di leggere degli amori di Julien Sorel non equivarrà mai all’intensità di una storia d’amore vissuta, tanto vale buttare dalla finestra Stendhal, insieme a tutta la letteratura, questo inconsistente doppio della “Realtà”.
Mediazione e metafore
Esistono descrizioni dell’insegnamento-apprendimento meno schematiche di questa vulgata fondata sulla coppia “immediato-mediato”. Ne La mediazione didattica. Per una teoria dell’insegnamento di Elio Damiano, l’insegnamento viene descritto come attività di manipolazione di segni, operante sempre come metafora del sapere reale e della realtà. L’azione di insegnare, perciò, è sempre presente come attività di mediazione ineliminabile tra l’allievo e la realtà.
Secondo Damiano, l’attivismo pedagogico si ritrova intrappolato dentro lo stesso paradigma che intendeva criticare, un «paradigma causale». Le pedagogie attive hanno, con ragione, criticato l’idea che l’apprendimento sia causato dall’insegnamento, cioè che basti “esporre” lo studente all’azione dell’insegnare perché egli apprenda. Queste pedagogie però, in alcune applicazioni pratiche, si sono limitate a invertire la direzione della causalità, deducendo funzione e compiti dell’insegnante, cioè una teoria dell’insegnamento, dalle attività dello studente, cioè da una teoria dell’apprendimento. Del resto già Dewey riscontrava che in questo tipo di pedagogie vi era il rischio che l’educazione attiva, fondata nell’idea di libertà, potesse diventare «altrettanto dogmatica quanto l’educazione alla quale reagisce». Se il ruolo del docente è ridotto a quello del tutor o organizzatore, che si limita a osservare e guidare, intromettendosi il meno possibile nella spontanea attività di apprendimento del discente, è chiaro che siamo passati da un estremo all’altro: la «tendenza a togliere all’insegnante una parte positiva e dominante nella direzione delle attività della comunità di cui è membro è un altro esempio di reazione da un estremo all’altro»i.
Secondo Damiano, infatti, l’insegnamento è un’azione con regole proprie e
consiste in un processo di metaforizzazione, capace di “proteggere” il soggetto in apprendimento dai rischi dell’esperienza diretta sostituendo l’Oggetto culturale [i contenuti disciplinari da apprendere, ma anche l’esperienza del mondo] con segni appropriati e corrispondenti.
In questa chiave l’insegnamento viene definito come mediazione, anzi più precisamente come azione che produce mediazioni, azione poietica quindi, nei termini aristotelici, i cui prodotti sono appunto i “mediatori”, non l’apprendimento direttamente, perché questo discende dall’azione esercitata su se stesso da parte di un altro soggetto, quello in formazione (p. 214).
I quattro tipi di mediatori didattici: attivi, analogici, iconici, simbolici
I mediatori didattici a disposizione dell’insegnante per operare quel processo di sostituzione dell’«Oggetto culturale con segni appropriati e corrispondenti» sono di quattro tipi e possono essere organizzati lungo un asse che va dai «mediatori attivi», nei quali gli indici di realtà sono molto alti (è il “fare” dell’infografica), ai «mediatori simbolici», che sono quelli che più astraggono dagli Oggetti culturali, metaforizzandoli pienamente (parole e numeri). Tra questi due estremi si collocano i «mediatori analogici», che simulano gli Oggetti culturali (i giochi, i giochi di ruolo, le simulazioni), e i «mediatori iconici», che contengono una stilizzazione della Oggetti culturali (immagini, carte, mappe concettuali). Vale la pena sottolineare che, in questa teoria, anche i mediatori attivi sono comunque “metafore dell’esperienza”, non l’esperienza stessa: contesti di apprendimento secondi, artificiali, “manipolati”ii.
Damiano illustra potenzialità e problematicità di ciascuno dei quattro tipi di mediatori. Sottolineerei soprattutto “problematicità”: in didattica come in mille altri ambiti non esistono le formule magiche e la coperta spesso è corta. Ad esempio, i mediatori attivi sono talmente legati al contesto particolare in cui sono collocati che l’apprendimento da essi ricavato è difficile da generalizzare (usare l’inglese in una chat con un coetaneo di Londra o New York è motivante ed è un compito reale, ma successivamente c’è anche bisogno di ordinare entro la langue le forme linguistiche usate contestualmente); ancora, i mediatori analogici, come i giochi di ruolo e le simulazioni, di solito sono molto dispendiosi in termini di rapporto tempo/apprendimento e se è vero che l’oggetto della simulazione viene effettivamente esplorato fin nei minimi dettagli, l’esperienza rischia di diventare esclusiva.
La lezione frontale è tradizionalmente fondata sui mediatori simbolici. Parole e numeri rappresentano lo specifico del linguaggio umano, uno strumento unico al mondo, potente e versatile: grazie ad essi, con un costo ridottissimo in termini di energie e tempo, si possono sintetizzare molte informazioni, si possono disporre concetti in un ordine rigoroso e facilmente manipolabile, si può evocare ciò che non c’è (si può riassumere il contenuto di un libro o un film, “convocandolo” dentro il tessuto del discorso); la parola è poi il mezzo naturale della memoria semantica e di quelle conoscenze che vengono chiamate «dichiarative» (leggere perciò è l’attività centrale dell’apprendimento e la sua apparente scarsa efficienza in realtà è segno, semplicemente, di una sua diversa qualità: di pagine e pagine noi cogliamo il senso globale, il sugo della storia, che rappresenta forse… il 10%).
Il difetto dei mediatori simbolici è però grande, l’astrattezza: forte lontananza dall’esperienza diretta (il riassunto non è il libro); alta volatilità e incapacità di incidere sull’apprendimento dello studente, se non ci si preoccupa di «un effettivo tirocinio di analisi, ritorno all’esperienza e costruzione di una rete di connessioni con il linguaggio e le categorie precedentemente possedute dagli alunni» (Damiano, p. 227).
«Lezione frontale 2.0», ovvero «Difesa della lezione frontale»
La pratica didattica è fondata su una incessante dialettica (e faticosissima tensione) tra imitazione, ripetizione, abitudine, routine, ricorso a pattern escriptiii, da un lato, e, dall’altro, fantasia, riflessione, studio, progettazione, sperimentazione, trasformazione. Nessuno dei due poli di questa dialettica è, in sé, deteriore: la routine rassicura, i pattern garantiscono il conseguimento quasi automatico di risultati affidabili, l’imitazione protegge dal sentimento di angoscia che è così connaturato alla creazione del nuovoiv; per contro la riflessione scova i presupposti inconsapevoli di abitudini e imitazioni, lo studio e la progettazione ipotizzano alternative, la sperimentazione prova a concretizzarle.
Non nego che sperimentazioni radicali, che liquidino in poco tempo le vecchie abitudini, possano funzionare. Di solito però richiedono da parte dei soggetti coinvolti una profondissima consapevolezza, un’altissima motivazione, grandissime competenze per la messa a punto, soprattutto tanto, tanto tempo (la tirannia del tempo è probabilmente, senza esagerare, la variabile più importante di questo mestiere, e la più negletta).
Vogliamo praticare, ad esempio, l’«apprendimento cooperativo»? L’insegnante deve individuare i nodi altamente significativi della materia (perché con l’apprendimento cooperativo si lavora in profondità ma su pochi temi selezionati, ed è bene quindi che siano esemplari); siccome non deve più “spiegarli”, deve trovare il modo di “tradurli” in un complesso di attività pratiche definite nel dettaglio, attraverso le quali gli studenti possano, da soli, costruirsi i contenuti, curando che tali attività siano reciprocamente implicate le une alle altre (il principio dell’apprendimento cooperativo è: il mio lavoro può riuscire solo se riesce anche il tuo); infine, per tutta la durata del lavoro in classe, egli deve monitorare il processo, fungendo più da tutor che da docente old-fashioned, mettendo dunque in campo competenze generalmente poco diffuse tra i docenti italiani.
Il rischio che questa complessa organizzazione si stemperi in un blando dividere i ragazzi in gruppi a fare un generico progettino o un ricerca in internet è alto (sarà forse per questo che la voga dei gruppi di studio e di ricerca di sessantottina memoria si spense molto rapidamente, riassorbita da un – prevedibilissimo per chi conosca il pendolo della Storia – ritorno all’ordine?).
Una lezione frontale, in senso stretto, è una lezione monologica e unidirezionale che prevede come unico “testo” le parole dell’insegnante: essa si è imposta nella nostra scuola secondaria perché qui la didattica è stata per lungo tempo dedotta per imitazione (e diminuzione) da quella umanistico-accademica di stampo crociano.
Ma, se proviamo a inquadrare sobriamente la lezione frontale dentro il sistema delle altre metodologie didattiche o dei mediatori proposti da Damiano, dovremo riconoscere che essa, oggi, è metodologia meno esclusiva di quanto la polemica contro la «Lezione Frontale» non permetta di vedere: far esercitare gli studenti nella scrittura in lingua materna o nella traduzione dalle lingue classiche non è una lezione frontale; usare ascolti, immagini, brevi esercitazioni scritte, semplici giochi di ruolo a coppie per imparare una lingua straniera moderna (materiali di cui abbondano i libri di testo di lingua) non è una lezione frontale; mettere gli studenti di fronte alla materia prima di ciascuna disciplina, i testi (linguistici, letterari, filosofici), le opere d’arte, le equazioni matematiche e le dimostrazioni geometriche e insegnare a leggerle, commentarle, descriverle, interpretarle, risolverle, non è una lezione frontale. In secondo luogo la stessa lezione frontale è ormai piuttosto diversa dalla classica lezione ex cathedra, essendo ormai contaminata, resa spuria, (innovata?), dall’uso di video, mappe, immagini, qualora si possa disporre in classe di lavagne interattive e connessioni alla Rete. E quanti ricordano che le lezioni frontali di letteratura davvero alla vecchia maniera non prevedevano nemmeno la lettura diretta dei testi, pratica oggi, per fortuna, generalizzata? Infine – ed è forse la cosa più importante –, bisognerebbe ammettere che, in diversi casi, la lezione frontale è ormai inestricabilmente intrecciata alla lezione socratica, cioè al dialogo fra docente e allievi.
Chi ama l’eccitazione avveniristica dei nuovi brand chiami pure questa cosa strana ricca e nuova «lezione frontale 2.0». Ciò che conta, in ogni caso, è che siamo di fronte a qualcosa che già esiste, che è ben acclimatato nella nostra scuola e che è assai meno monoliticamente immutabile di quanto non si creda.
Cosa di buono può ancora dare una buona lezione frontale
La lezione frontale è, come si sarà capito, la via più sintetica, rapida ed efficiente per spiegare il contenuto della materia.
Certo, c’è chi sostiene che le conoscenze siano cristallizzazioni dei saperi ormai del tutto superflue, che è inutile apprenderle perché saranno superate nell’arco di pochi anni dalla perenne “trasvalutazione di tutte le conoscenze” del mondo contemporaneo, che dunque meglio sarebbe “apprendere competenze” e “costruire conoscenze”. Si tratta di un argomento complesso, che non è il caso di affrontare qui. Vorrei perciò cavarmela con poco.
Sono assolutamente convinto che il mio compito, in quanto insegnante di letteratura, non sia quello di produrre studenti che a dieci anni dalla fine della scuola ricordino la teoria dei due soli del Monarchia o l’ossessione per il nido di Pascoli (per quanto, se si ricordassero anche quelle…). Credo che il mio compito sia quello di mettere i futuri adulti che mi stanno ora davanti come studenti nelle condizioni di interpretare testi ed esperienze extrascolastici di ogni genere: testi di alta letteratura, canzonette, pubblicità, blockbuster, discorsi politici. Quindi, sì, la competenza è più importante delle conoscenze. So però per esperienza che senza un corposo bagaglio di conoscenze, dalla cui quantità, data la compresenza di altri fattori, può derivare la qualità, l’attività dell’interpretazione non può che ricadere su se stessa, diventare tautologica, chiusa in un’asfittica e coattiva identità di vedute, preda della prima idea, sciocca, che viene in mente.
Ho detto contenuti significativi. La lezione frontale, con la sua spiegazione, dovrebbe garantire un’alta esemplarità, ovvero modelli da imitare, e in due sensi.
La lezione del docente deve essere in grado di illustrare, rendendola manifesta, la struttura profonda della materia, i suoi problemi costitutivi, i temi essenziali, i concetti-chiave, …: deve, insomma, fornire categorie d’interpretazione potenti. Non posso addentrarmi ulteriormente su questo terreno, perché siamo ormai sul limitare delle didattiche disciplinari: qui dovranno parlare, ciascuno per sé, l’insegnante di scienze, di filosofia, di italiano, di arte, …
Si può però dire ancora una cosa di ordine generale: occorrerebbe organizzare sempre la propria lezione intorno al principio essenziale per il quale conoscere è porre in relazione (il noto con il non ancora noto) e che l’apprendimento è significativo solo se avviene questo “aggancio” con le conoscenze preesistenti e fra una conoscenza e l’altra (al riguardo resta insuperata la vecchia distinzione di Ausubel tra «apprendimento meccanico», che si limita a giustapporre i concetti, e «apprendimento significativo», fondato sul legame organico fra di essi).
Io credo che il tratto più qualificante dell’attività del docente sia proprio questo trovare relazioni significative nel sapere, a partire dalla conoscenza della propria materia e grazie a una inchiesta su quali siano le cognizioni, le esperienze, l’immaginario degli allievi. Purtroppo né studi universitari né libri di testo ci soccorrono in questa operazione, così che questo diventa davvero il nostro campo d’azione specifico, in cui siamo autonomi creatori degli oggetti con cui lavoriamo, cioè intellettuali e non impiegati.
Un solo esempio di apprendimento significativo: di solito lo studio della metrica resta a livelli piuttosto astratti, così che lo studente sa magari definire un endecasillabo o un settenario, ma non sa riconoscerli e, soprattutto, distinguerne il ritmo mutevolissimo da quello tendenzialmente ricorsivo dei versi parisillabi (che danno quell’effetto volutamente popolare di cantilena agli orribili versi del Manzoni civile): ciò dipende dal fatto che, prima della metrica, andrebbe affrontato un altro problema, quello del ritmo, al quale la metrica sta come il solfeggio alla musica. Partire dal ritmo permetterebbe di “agganciare” lo studio della poesia a quello della canzone pop e rock, che è già parte del bagaglio di esperienze dello studente, mettendolo in condizione di capire anche la metrica, appunto non come astratto solfeggio, ma come musica udibile.
La lezione frontale è un modello, come si è detto, anche in un secondo senso. In essa il docente deve mostrare – diciamo pure teatralmente “rappresentare” – l’esperienza della cultura, la sua presenza viva.
L’oralità ha una forza peculiare, cui forse non attribuiamo sufficiente importanza solo perché ormai essa è svalutata dalla consuetudine secolare che la nostra cultura ha con i testi scritti. È nota la polemica di Platone contro l’allora giovane scrittura, ma di questa polemica spesso si è messo in evidenza solo un aspetto, il fatto che, secondo il filosofo, quell’invenzione avrebbe messo a repentaglio la memoria. È merito di Raffaele Simone, nel suo La Terza fase, avere messo in evidenza un altro aspetto del famoso passo del Fedro. Una caratteristica che sembrava spaventare particolarmente Platone era la «stabilità» del testo scritto, che, egli credeva, lo avrebbe reso muto:
le creature della pittura ti stanno di fronte come fossero vive, ma se domandi loro qualcosa se ne restano zitte; e così fanno anche i discorsi. Tu crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma se, volendo capire bene, domandi loro qualcosa di ciò che hanno detto, continuano a ripetere una sola e medesima cosav.
La conclusione che Simone trae da queste parole è che «il testo scritto […] diventa inerte proprio perché si stabilizza e diventa chiuso. I pensieri, stabilizzandosi nella forma scritta, muoiono. Questo tratto doveva essere sorprendente, se Platone lo considera addirittura ‘terribile’»vi.
Un testo letto in classe, un discorso, una lezione, possiedono una forza vitale che i testi scritti sembrano non avere, perché mostrano l’esperienza in atto. In una lezione di letteratura o di filosofia, ad esempio, si tratterà di mettere davanti agli occhi degli studenti un’esperienza di lettura e interpretazione del testo. (Ribadisco, un’esperienza, non un catalogo di contenuti). Nella nostra lezione, perciò, non dovremmo limitarci soltanto a illustrare ordinatamente i caratteri della dialettica hegeliana o del Decamerone (almeno non fare solo questo in tutte le lezioni), ma rispettare alcuni caratteri che l’esperienza ha al di fuori del contesto scolastico: asistematicità, non esaustività, tendenza a collegare costantemente il contenuto dei testi (o dei quadri, o dei brani musicali) con l’esperienza del mondo o con altri testi.
Sono consapevole del fatto che è proprio questo l’ambito nel quale si potrebbe e dovrebbe rischiare la scommessa di una didattica socratica, o dialogica, e di una vera comunità ermeneutica: non solo l’insegnante, ma tutta la classe, ridà vita al testo morto. Sono però altrettanto consapevole del fatto che l’equilibrio fra la necessità di informare e illustrare ordinatamente dei contenuti e quella di attualizzare e vivificare è un equilibrio difficile e precario: eccedendo in un senso si rischia di veicolare un ordine rigoroso e tesaurizzabile, ma morto e noiosamente ripetuto; eccedendo nell’altro si rischia di bruciare, sia pure luminosamente, nel solo arco della lezione quanto detto (o discusso), senza lasciarne prosaica traccia (magari per preparare un’interrogazione o un Esame di Stato).
La dimensione nascosta della lezione frontale: appunti, applicazione delle conoscenze, compiti a casa
Un modo per preoccuparsi dell’«effettivo tirocinio di analisi, [del] ritorno all’esperienza e [della] costruzione di una rete di connessioni con il linguaggio e le categorie precedentemente possedute dagli alunni», ovviando così all’astrattezza della lezione frontale, è portare alla luce del sole quella che potremmo definire la «dimensione nascosta» della lezione frontale. Bisognerebbe operare una conversione dall’esclusiva concentrazione su ciò che diciamo noi insegnanti a ciò che lo studente fa con ciò che noi insegnanti diciamo.
Non so chi abbia inventato l’aforisma che la lezione frontale è solo il trasferimento automatico delle dispense del professore sul quaderno dello studente, senza passare per il cervello di nessuno dei due: detto sentenzioso e arguto, ma da un lato troppo malevolo, dall’altro applicabile soprattutto a certe lezioni accademiche (quelle, per intenderci, che si potrebbero benissimo anche rileggere sulle sbobinature di qualche compagno di corso). Lo studente, in verità, può essere reso attivo e, in certa misura, è già attivo durante e dopo una lezione frontale, nella misura in cui prende appunti e studia a casa.
Prendere appunti è un’abilità complessa, tutt’altro che “automatica”, giacché presuppone l’ascolto attivo, la capacità di analisi e quella di sintesi: è un’abilità non naturale, che va appresa, quindi insegnata, evitando quello scaricabarile così tipico a scuola, per cui spetterebbe sempre ai colleghi del grado precedente preoccuparsi di questa cosa che noi ormai “diamo per scontata”.
Un banale esercizio che insegna agli studenti a prendere appunti efficaci è quello di fornire loro una mappa dei concetti-chiave della spiegazione che si è appena conclusa, sulla quale essi possono verificare la qualità del proprio lavoro; in alternativa, si può chiedere agli studenti di dare un titolo complessivo alla lezione e a ciascuna delle sue parti, verificando così la comprensione della dispositio dell’argomento e il suo topic.
Anche la struttura a binomio «spiegazione-verifica» andrebbe almeno parzialmente corretta con un modello a trinomio «spiegazione-applicazione-verifica», per evitare sia che lo studio a casa dello studente resti il cono d’ombra della didattica, completamente avulso dalla nostra lezione, sia che l’applicazione delle conoscenze avvenga soltanto nel momento della valutazione.
Ecco un semplice esempio di ambito letterario per spiegare cosa intenda con «applicazione». Dopo aver spiegato Dante e Petrarca, e averne messo in evidenza le differenze, si propongono agli studenti alcune poesie adespote e si chiede di attribuirle all’uno o all’altro autore, spiegando in un breve testo su quali ragioni di contenuto, stile, poetica, … sia fondata l’attribuzionevii. Ma anche esercizi più tradizionali, come la redazione di temi, articoli di giornale, analisi del testo (le tipologie di prima prova dell’Esame di Stato) possono e dovrebbero essere usate, a casa o in classe, come messa in atto delle proprie conoscenze prima della fase finale della verifica.
Lo studio a casa, poi, che si tratti di pagine di manuale o di testi di prima mano, non dovrebbe essere lasciato all’esclusiva signoria dello studente, ma dovrebbe essere in qualche modo strutturato e organicamente collegato alla lezione dell’insegnante, ad esempio, chiedendo agli studenti di leggere le pagine sulle quali si lavorerà, di riassumerle, parafrasarle, rielaborarle in vari modi, per avere a disposizione della successiva lezione un materiale già semilavorato.
Oserei dire che su questo punto si può anche consentire con l’affermazione che si impari di più facendo, nel senso che, come gli studi sulla lettura ci dicono già da qualche decennio, si comprende un testo se “se ne fa qualcosa”, cioè se lo si interroga con scopi precisi: la comprensione non è un’operazione passiva che proceda linearmente e per accumulo, ma attiva e strategica, fondata su un processo circolare di raccolta dei dati, posizione di ipotesi, loro conferma o disconferma. Per questa ragione, leggere con uno scopo operativo è un compito più “reale” della generica prescrizione di “studiare”.
Insomma: la “lezione del fare” non esclude il “fare lezione” e viceversa.
NOTE
i J. DEWEY, Esperienza e educazione (1938), Raffaello Cortina, 2014, p. 47.
ii Mi sembra utile citare più distesamente quanto Damiano scrive a proposito di questi ultimi mediatori, visto che è proprio intorno ad essi, e all’opposizione secca tra un apprendimento efficace e spontaneo e uno inefficace, artificioso, noioso, che ho fin qui argomentato: «I mediatori attivi sono mediatori “di soglia”, prossimi alla realtà esterna, e in quanto tali oggetto di equivoci fra quanti li considerano non mediatori e finanche coincidenti con l’apprendimento mediante esperienza diretta, senza alcun intermediante. […] Secondo la tradizione attivista, l’apprendimento è opera del soggetto (e fin qui tutti possono convenire) e l’insegnante deve realizzare le condizioni perché vi abbia luogo l’apprendimento mediante l’esperienza diretta; qui cominciano le divergenze, poiché si obietta – essenzialmente – che se l’apprendimento per esperienza diretta fosse sufficiente per affrontare i problemi di socializzazione e inculturazione dei soggetti, non ci sarebbe bisogno dell’insegnamento, azione istituita per realizzare forme di apprendimento indiretto (cioè, come sappiamo, simulato e decontestualizzato). Gli attivisti ribattono che l’apprendimento diretto si qualifica come la forma di apprendimento privilegiato, ad alto coefficiente di motivazione e di risultato, e pertanto l’insegnante deve consentire agli alunni la possibilità – più o meno regolare – di apprendimenti diretti. La risposta è formulata nei termini seguenti: innanzitutto non è detto che l’esperienza diretta provochi sicuramente apprendimento, e nemmeno apprendimento altamente motivato e produttivo; in secondo luogo, l’esperienza diretta, quando è introdotta nell’insegnamento è riconoscibile come tali entro precisi limiti: a condizione cioè di “far finta” che sia “diretta”, perché è stata più o meno accuratamente selezionata per essere introdotta nel progetto didattico. E la selezione, come la “messa a fuoco” e la “concentrazione spazio-temporale” stanno ad indicare un trattamento intenzionale dell’esperienza, tale da renderla “secondaria” rispetto rispetto alle condizioni “naturali” dell’apprendimento» (op. cit., p. 215).
iii Uso questo termine nel senso che ha negli studi di narratologia e di scienze cognitive.
iv Su questo e altri aspetti “emotivi” della professione docente cfr. G. BLANDINO – B. GRANERI, Le risorse emotive nella scuola, Raffaello Cortina, 2002.
v PLATONE, Fedro, 275 D, in R. SIMONE, La Terza fase, Laterza, 2006 (1a ed. 2000), p. 109.
vi Ibidem.
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