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Letteratura europea e cittadinanza umana. Intervista a Roberto Antonelli a cura di Lucia Olini

 Nell’attuale difficile scenario la letteratura può contribuire alla formazione di una cittadinanza europea sul piano culturale e politico, in concorrenza con l’Europa delle banche e dei mercati?

Può certamente contribuire a formare una comune coscienza di radici culturali e quindi di cittadinanza, al momento soprattutto in funzione integrativa: per chiarire cioè che non ha senso un’Europa esclusivamente finanziaria e che la stessa Europa dei mercati può avere in prospettiva un senso soltanto se è basata su alcuni comuni pilastri ideali. In prospettiva, pensando cioè alla formazione dei giovani europei, di coloro che sono appena nati o sono bambini, un compito del genere può essere svolto esclusivamente da ciò che nel corso dei secoli si è definito come “cultura umanistica” e per una parte notevole dalla letteratura, per quanto la letteratura può offrire sia sul piano dei significati che su quello critico, come sistema comunicativo complesso, forse il più complesso esistente e quindi il più formativo per abituare i giovani a capire e interpretare un testo, giornali e film o TV compresi. Ma non solo: nel sistema formativo, e di conseguenza sul piano della coscienza culturale di un paese o di un sistema di paesi è estremamente pericoloso che tutto venga misurato soltanto sulla crescita del PIL o sul successo immediato, senza più chiedersi quali siano le grandi problematiche dell’esistenza umana: recentemente negli USA è uscito un vecchio articoletto del giovane Obama in cui questi si poneva appunto questi problemi, valutando la funzione positiva di uno scrittore come T. S. Eliot che pure gli appariva, e giustamente, come reazionario ed estraneo ai valori liberali. Per questo appare, non solo a me e non solo agli umanisti, del tutto miope l’attacco che viene portato alla formazione umanistica anche nell’Unione Europea (si pensi al tagli dei finanziamenti per la ricerca e l’istruzione, ad esempio), scimmiottando gli aspetti più miopi e retrivi del modello anglosassone.

Esiste una “identità europea”? Quali tratti ce la fanno riconoscere? È in conflitto con le identità nazionali?

È sempre più facile riconoscere i tratti identitari di una cultura ponendosi per così dire in posizione “estraniata”: in questo senso tutte le osservazioni avanzate da stranieri, specie quelli appartenenti a culture più lontane, sono estremamente utili e confermano senza possibilità di dubbio che esiste un’identità europea. Perfino la cultura americana pone costantemente in relazione contrastiva se stessa rispetto alla cultura europea, dalla quale è nata, pur riconoscendo entrambe come appartenenti ad una comune cultura “occidentale”. Il discorso si complica proprio all’interno dell’Europa, dove vengono spesso messe in evidenza, all’interno di ogni cultura nazionale, più i fattori distintivi e contrastivi che non quelli unitari. Sarebbe fuori luogo un elenco “generalistico” dei tratti che possono identificare la cultura europea ma si potrebbe provare a indicare un po’ casualmente, a titolo d’esempio, alcuni elementi: i primi che vengono in mente e perciò i più immediati, ma certo a livello soggettivo, quasi pulsionale, non scientifico. Si pensi ad esempio al paesaggio agricolo europeo o a quello urbanistico o a quello letterario o ai rapporti uomo-donna, o ancora a quello culinario: si tratta sempre di aspetti in cui è visibile, in ogni momento, una stratificazione storica europea plurisecolare, di cui ancora si vedono le tracce fin in elementi microscopici. Naturalmente l’analisi contrastiva fra cultura europea e altre culture dà risultati diversi se comparata non solo a sistemi nati quasi totalmente dalla colonizzazione europea (Nord e Sud America, Australia) o portatori a loro volta di tradizioni plurisecolari (Medio ed Estremo Oriente) o ancora in forte evoluzione e con forti differenziazioni interne (Africa). In letteratura non c’è dubbio, a mio avviso, che la stratificazione bimillenaria della letteratura europea e lo “spessore” interno dei suoi testi costituiscono un tratto potentemente distintivo: posto infatti che ormai nessuno può più negare quanto il riuso e la “letteratura della letteratura” costituiscano fatti organici e fondativi del discorso letterario, è evidente quanto sia peculiare la posizione europea rispetto a letterature che pure da essa sono nate e si sono autonomamente sviluppate. Ciò non vuol dire però che in un futuro anche prossimo tale specificità non possa far posto ad una nuova Mischung globale e che il mercato letterario e comunicativo non stia cambiando significativamente e rapidamente le carte in tavola. Di fatto tutto ciò è in parte già avvenuto o sta avvenendo, con velocità sempre crescente, anche per motivi politici, editoriali ed economici (l’egemonia dell’impero anglossassone). Credo che occorrerebbe ragionare anche qui in termini continentali e poi globali. Per questo il problema del rapporto fra letterature “nazionali” (io preferisco ormai il termine “areali”, proprio per sottolineare l’arretratezza del problema – non dell’esistenza – della nazione, fenomeno sostanzialmente sette-ottocentesco, e l’esigenza di ragionare in termini europei) e letteratura europea non è – o meglio, non dovrebbe essere – conflittuale. Esiste un patrimonio indiscutibilmente comune, quello dei due millenni di storia letteraria, da tutte le grandi nazioni europee riconosciuto prima o poi, in tutto o in parte, come fondativo: esistono poi tutte le varie articolazioni “nazionali”/areali: è l’incrocio che determina e spiega sia il tutto sia le parti. Un fenomeno del genere, per esempio, mentre è verificabile in una situazione come quella italiana (penso alla Geografia e storia della letteratura italiana di Carlo Dionisotti, una svolta storiografica epocale ancora non digerita neppure a livello universitario), non è immaginabile fra i vari Stati degli Stati Uniti d’America (Stati uniti, si badi), se non per parziali e non radicali differenze, determinate però anche in questo caso dalla diversa storia dei singoli Stati (dalla loro progressiva e cronologicamente differenziata inclusione nel sistema) o dal clima e da altri fattori antropologici (immigrazione compresa). Mai però tali da costituirsi in tradizioni “statali” (mai “nazionali”, semmai, a conferma, in prospettiva, areali), malgrado una devastante e sanguinosa guerra civile, ancora ben presente nell’immaginario collettivo. Il caso europeo è molto simile a quello italiano ma con una specificità che lo distingue anche da quello americano: la pluralità delle lingue parlate nel continente e quindi la centralità del problema della “traduzione”.

C’è un codice emotivo comune, un linguaggio dei sentimenti che ci appartiene e ci identifica come europei, e che si manifesta nelle tradizioni letterarie?

La prima cosa che mi viene in mente è la riflessione che la letteratura, specie la lirica e i primi romanzi cavallereschi e cortesi, hanno dedicato all’amore. Non esisteva nella letteratura classica un’elaborazione neppure lontanamente paragonabile a quella svolta nelle letterature romanze medievali e poi, conseguentemente, nelle letterature europee moderne. Fra cultura classica e cultura moderna si colloca infatti quel gigantesco rivolgimento sociale e culturale operato dal cristianesimo e quell’inversione di prestigio determinata nella cultura e nella lingua latina “classica” (e cioè “di classe, secondo l’etimologia del termine) ma anche nel rapporto fra corpo e “spirito”. Auerbach ha scritto a proposito della prima questione pagine ancora oggi fondamentali e non superate; sul rapporto corpo/pensiero si sta molto lavorando negli ultimi decenni, anche in relazione alla poesia lirica e agli studi di genere, in Italia da anni all’avanguardia nella produzione internazionale. L’importanza della letteratura nel discorso amoroso medievale era verificabile fino a ieri a livello linguistico, con il linguaggio e la fenomenologia del rapporto amoroso uomo-donna affidato a termini derivati dalla prima elaborazione “cortese”: si pensi proprio ai termini “cortese”, “corteggiamento”, o “gentile”, e alla loro evoluzione. Si pensi, più sostanzialmente, all’immagine della donna nel pensiero europeo, anche in ciò che di negativo quel pensiero ha codificato (ricordo sempre a lezione, oltre alla netta separazione fra spirito e corpo, Andrea Cappellano e la giustificazione della cosiddetta “dolce violenza” nei riguardi della donna, fino alla formazione di un pensiero comune che in qualche modo giustificava lo stupro), e non solo in ciò che ha codificato di positivo, poiché in qualche modo, rispetto ad altre letterature e culture, ha posto la donna al centro della scena, sia pure attraverso gli occhi del soggetto maschile: ma qui il discorso sarebbe ovviamente lungo e peraltro molto importante. Si pensi poi e soprattutto a quanto ha pesato la tradizione letteraria europea nello sviluppo del grande genere della modernità, il romanzo, dal Settecento in poi. Accanto al codice amoroso, fra le grandi emozioni europee che fissano antropologicamente una specificità europea c’è indubbiamente quello della morte, anch’esso frutto di una lunga storia in cui il cristianesimo ha avuto gran parte, determinando una specificità europea. Ma in realtà, se andiamo ad analizzare l’intero sistema delle emozioni elaborato nella letteratura europea (sostanzialmente lo stesso, nella griglia-base di sei emozioni fondamentali, da Aristotele alla moderna psicologia, ma enormemente differenziato all’interno fra antichità classica e modernità), e lo stiamo facendo proprio in questi anni e in questi mesi, ci accorgiamo che la letteratura ha svolto un enorme ruolo, sia come luogo ricettivo, sia come luogo propositivo: si pensi, in tutta la letteratura novecentesca, al tema dell’angoscia, tema veramente e tristemente “europeo”, anticipatore e riflesso delle grandi tragedie causate dall’Europa e nell’Europa, sia attraverso il colonialismo (Conrad, ad esempio) sia attraverso la “grande guerra civile europea” delle due guerre poi divenute mondiali (1915-1945). A ben vedere, poi, tutti i temi accennati rimandano ad un altro grande specifico europeo: la nascita e lo sviluppo dell’Io, come Soggetto, nelle varie componenti che poi Freud scoprirà e proporrà. L’individualismo americano ne è un sottoprodotto parziale, oggi fondamentale, ma l’articolazione del concetto di individuo ha avuto in Europa, sino al XX secolo, momenti di approfondimento fondamentali. Sto parlando di specificità storiche, sottolineo: poi vi sono sempre grandi problematiche unificatrici fra aree anche lontane, che vanno sempre più avvicinandosi. Il desiderio di giustizia e la corrispondente frustrazione e la rabbia per l’ingiustizia, ad esempio: anch’esso però declinato secondo varie modalità e specificità nelle varie letterature e culture.

Aprire gli orizzonti dell’insegnamento scolastico ad una dimensione europea non significa limitarsi ad includere nell’elenco dei testi le grandi opere, ma piuttosto individuare alcuni snodi fondanti: su quali temi o problemi è importante che gli studenti riflettano nel loro percorso formativo?

Qui la risposta potrebbe essere veramente varia. Credo che ogni buon insegnante abbia un suo percorso da proporre: nel convegno svolto il 16 e 17 marzo a Roma ne sono stati presentati molti (e saranno presto pubblicati sulla rivista del CIDI “Insegnare”). La mia risposta, parziale, l’ho forse data nella domanda precedente. In generale, però se oggi dovessi indicare uno snodo particolarmente importante per cogliere la specificità europea e il suo contributo alla civiltà e alla letteratura moderna, indicherei proprio quello della scoperta e dello sviluppo dell’Individuo, forse perché vi sto lavorando negli ultimi anni e su tale tema svolgerò i miei prossimi corsi universitari. La scoperta dell’Individuo, nei suoi vari aspetti, da Dante a Petrarca è un percorso attraverso il quale si può arrivare fino ai tempi nostri, offrendo ad adolescenti e giovani una chiave per capire se stessi e il mondo, sia dal punto di vista psicologico che socioeconomico: Freud, Nietzsche e Marx, per fare solo tre nomi di non letterati, il grande romanzo europeo del Novecento sono l’espressione di una rivoluzione in cui stiamo ancora vivendo.

Nel mondo globalizzato e interculturale ha senso la prospettiva di una “letteratura europea”? Non dobbiamo forse promuovere la conoscenza anche delle letterature dei tanti gruppi di migranti che ormai sono cittadini dell’Europa a pieno titolo?

Ovviamente sì, e non solo per ovvia necessità di conoscenza ma per ragioni di qualità (che ancora non sono riconosciute nelle storie letterarie): i romanzi più interessanti che ho letto negli ultimi anni sono quelli di Ágota Kristóf: iniziato a leggere Quello che resta, il suo primo, nel 1988, non ho potuto smettere per una notte intera, e così anche per gli altri della serie. Ve ne sono moltissimi altri importanti: recentemente ho letto Il buio del mare di un giovane albanese che ha scelto di scrivere in italiano, Ron Kubati, e che è stato costretto dalla miseria intellettuale e universitaria italiana a emigrare di nuovo dall’Italia negli U.S.A.: vi ho ritrovato un grande talento ma soprattutto la capacità di affrontare quelle grandi problematiche che molto spesso mancano al romanzo italiano (penso alla facilità con cui si vendono i romanzi del genere “giovanistico”, più o meno bene copiati dal Giovane Holden di Salinger: un’intera serie, da De Carlo a Brizzi a Moccia a Volo: avrebbero molto da imparare da Kubati, non oso dire dalla Kristof). Nel prossimo ottobre a Zurigo, per celebrare l’anniversario dell’istituzione della “cattedra De Sanctis” presso il Politecnico (dove De Sanctis aveva insegnato, e dove si insegna, letteratura agli ingegneri e agli scienziati – una bella lezione per l’Italia e i suoi programmi universitari!), si terrà appunto una tavola rotonda sulla letterature degli esuli e dei migranti. Dunque sì: non possiamo limitarci alla letteratura “europea”, ma dobbiamo sapere chi siamo per poter capire e confrontarci con gli altri. Chi non conosce la propria identità e le sue ragioni storiche ed esistenziali, non può e non sa criticarla e “fuoriuscirne” (cioè capirla davvero) e non può capire in profondità quella degli altri. La letteratura “europea” è tale perché nasce dal contributo di molteplici culture e letterature: non solo quella mediterranea e nordica, come amava dire il “carolingio” Curtius – solidamente ma ancestralmente legato al Reno, sul confine franco-germanico, e a Roma –, ma araba, slava, ebraica (e quanto!), ecc. ecc. Per questa straordinaria miscelazione l’Europa è stata quel che è stata ed è quel che è: un fatto unico nella storia del mondo. Se vorrà restare fedele alla sua vera “identità”, quella più profonda, dovrà aprirsi al mondo, non rimanere la “fortezza Europa” di cui parlava Hitler (e che si sente di nuovo echeggiare in discorsi non solo di neonazisti). Il problema è come aprirsi al mondo globalizzato e se conviene saltare completamente la dimensione storica europea (perfino nel riconoscimento storiografico della sua specificità) o tentare insieme di essere “europei” e “migranti” (oggi più che mai) e aperti al mondo (non “globalizzati”, nel senso del mercato unico). Credo che anche altre culture trarrebbero vantaggio da una tale operazione: ora, al Dipartimento di Studi europei, americani e interculturali della “Sapienza” di Roma (si noti il nome del Dipartimento, per nulla casuale, e certo non passato senza discussioni) stiamo lavorando ad una ricerca sul canone caraibico, proprio insieme alla ricerca sul canone europeo: ogni anno viene organizzato anche un seminario sulle letteratura postcoloniale e interculturale.

Oggi nella scuola sta passando in secondo piano la questione del canone, e soprattutto si è sviluppata una certa insofferenza rispetto ad una definizione del canone rigida e normativa. Uno dei risultati più interessanti della ricerca da lei coordinata è proprio la costituzione di un canone “dal basso”: quali sono i “casi” più sorprendenti? Quanto pesa nelle scelte dei lettori il mercato editoriale?

Conosco bene quel tipo di insofferenza nei riguardi del canone e naturalmente la trovo ben giustificata rispetto alle applicazioni prescrittive e autoritarie che del canone sono state fatte, per secoli; ritengo però, come in molte altre cose, che la cultura critica abbia il dovere e il compito di sottoporre a critica radicale, dall’interno e dall’esterno, la tradizione culturale e letteraria, capendo innanzitutto a cosa sono servite alcune grandi categorie concettuali e alcune strumentazioni che hanno attraversato i secoli. Il canone è uno di questi e non ce ne possiamo liberare soltanto dicendo che è autoritario e “cattivo”, o espressione dei colonizzatori, e/o invocandone il semplice rovesciamento: ritengo queste posizioni critiche infantili e molto superficiali, pur se di immediata presa. La proposta di un “canone dal basso” intende rovesciare la questione “canone” da un altro punto di vista, appunto critico: prendere atto della potenza del mezzo e della sua imprescindibilità oggettiva (tanto più in un mondo globalizzato, dove si pubblicano ogni giorno migliaia di libri, ormai anche in internet) e non lasciarlo nelle mani del potere costituito, qualunque esso sia: un’operazione che oserei definire modulata sul pensiero di Walter Benjamin, il più geniale critico della cultura del XX secolo, che non a caso aveva riflettuto, laicamente, sulle posizioni di S. Agostino e su quella gigantesca operazione di appropriazione culturale che compirono i Padri della Chiesa. Si tratta cioè di usare il canone, non lasciandolo nelle mani del potere politico, istituzionale o del mercato. In questo senso potremmo anche criticare gli stessi risultati dell’inchiesta: casi “sorprendenti”, ma non troppo, come l’alta posizione di Harry Potter o di Dorian Gray nel canone giovanile sono ben spiegabili proprio con ragioni editoriali e con l’influenza delle comunicazioni di massa (i film, a volte), ma offrono anche molti elementi di riflessione in sé: e l’elenco potrebbe essere lungo. Basterà scorrere i risultati sul nostro sito (Dipartimento di studi europei, americani e interculturali della “Sapienza”, voce “Ricerche”, canone europeo). Più sorprendente e inquietante è la presenza nel canone dei professori universitari, ai primi posti, di libri come L’insostenibile leggerezza dell’essere o Il nome della rosa di Eco, e affini (sull’argomento, comunque, stiamo stampando gli Atti del Convegno del 16-17 marzo, che usciranno presto). Anche in questo caso, non siamo chiamati a giudicare, ma a capire, anche in prospettiva di un diverso futuro. Da quel che ho detto è evidente che ritengo enorme l’influenza del mercato editoriale, ma bisogna dire che grazie alla rete e al tam-tam fra i lettori esistono anche casi del tutto contrari: libri che si sono imposti “da soli”, grazie al successo decretato dalla rete. Il problema successivo è capire quali possano essere realmente i nuovi “classici”, quelli capaci cioè di rappresentare in profondità il nostro tempo, anche fra 50-100 anni. Quali i testi capaci di svolgere quella funzione critica che riconosciamo a molti classici europei, ancora oggi. Tutto è criticabile e caduco: vi sono libri che hanno formato la coscienza europea (come l’Historia destructionis Troiae di Guido delle Colonne e il Guerin Meschino o perfino il Cortegiano, e cento altri ancora), che oggi nessuno più legge. Forse fra 200 anni capiterà anche alla Divina Commedia (c’è già chi ne ha proposto la radiazione dal canone scolastico perché “antisemita e antislamica”, suscitando peraltro subito reazioni divertite più che indignate, non solo in Italia: ma in futuro?).

In questa fase di passaggio, in cui la riforma delle Superiori sta andando a regime, appare importante intraprendere una riflessione sulle “competenze” che con l’insegnamento della letteratura si vogliono costruire: quali suggerimenti darebbe? Di quali aspetti imprescindibili nella formazione dei giovani europei si deve fare carico il nostro insegnamento?

È un terreno su cui vorrei essere io a porre delle domande ai più competenti e cioè agli insegnanti delle Superiori: un vero e proprio sondaggio, magari d’accordo col CIDI e un bel convegno nazionale sarebbero più che mai necessari. Per la mia parte ribadirei quanto emerso in alcune risposte precedenti: la letteratura ha contribuito in modo straordinario, dentro e fuori la scuola, e soprattutto fra le donne, a formare una coscienza affettiva ed emotiva comune, sia “nazionale” che “europea” e genericamente, direi, “umana”. Questa a mio parere non è paccottiglia del passato ma una e vera e propria “competenza” che forma anche civilmente il cittadino: fa ragionare ogni giorno sulle grandi domande che si pongono ad ogni essere umano, da quelle metafisiche a quelle esistenziali, interpersonali e sociali. Senza il senso d’ingiustizia e di ricerca della giustizia filtrato attraverso la Commedia o i Promessi sposi o Zola, quanti italiani sarebbero oggi quello che sono? E quanti europei conoscerebbero meglio se stessi senza Dostoevskij o Tolstoj o Flaubert o Balzac? E quanti potrebbero ragionare sulla crisi dell’uomo moderno senza Kafka o Musil? Ma temi e problemi, in letteratura, sono trasmessi dal linguaggio e la decodificazione linguistica, l’interpretazione del messaggio è la competenza più difficile e massima che noi dobbiamo e possiamo fornire: solo noi, fra le discipline scolastiche, siamo in grado di farlo, proprio perché lavoriamo sul sistema più complesso e difficile, la letteratura, dove il linguaggio stesso è il tema fondativo. La lingua però è un fatto storico, non un codice astratto come la matematica, e come alcune interpretazioni estremistiche dello strutturalismo e della semiologia hanno voluto far credere; l’altra competenza fondamentale è la collocazione storica del discorso linguistico e di ciò che questo veicola: con Vico ma ben oltre Vico, sapendo cioè che ogni interprete, anche noi docenti, siamo soggetti storici e che quindi interpretiamo i testi a partire da noi stessi e dalle nostre problematiche, insomma dalla nostra soggettività storica e personale. Occorre cioè praticare un “Circolo della comprensione” in cui al primo posto si ponga il riconoscimento delle ragioni e degli “interessi” del Soggetto che interpreta. Fra noi e i testi antichi e perfino quelli moderni c’è sempre una distanza in parte incolmabile. Le competenze da costruire dovrebbero dunque, a mio avviso, essere rivolte innanzitutto a capire il senso linguistico “letterale”, ma senza fermarsi là, come si tende ormai a fare in vari paesi europei. La vera competenza da scuola “superiore” è la formazione di una capacità critica, interpretativa: man mano penetrare nei vari sensi, storici e attuali che un testo propone, cercando anche di “decostruire” il testo, mostrando come è stato pensato e “costruito” dall’autore e soprattutto “perché” e quali relazioni abbia (o non abbia) con le nostre problematiche di moderni. Ridurre (cosa diversa dal semplificare) le competenze, come si fa in molti manuali e in molte scuole, è un pessimo servizio fatto ai docenti, agli studenti e alla comunità civile: i testi vanno affrontati in sé, per avvicinamenti e interpretazioni progressive, sempre centrando il discorso sul testo, non sulla narrazione dell’antologizzatore e sulle sue analisi: le parole dell’autore non vanno sostituite da frasi fatte che lo studente impara a memoria e ripete all’interrogazione, come in quello che una volta era il famigerato Bignami (oggi tornato di moda in altre forme, appunto).

Quale metodologia proporre oggi per l’insegnamento letterario nella scuola? Superato il tradizionale impianto storicistico, va salvaguardata l’impostazione cronologica, o sacrificata ad una scelta tematica o per generi letterari?

Per quanto ho appena detto, penso che vada assolutamente salvaguardata un’impostazione storica (non necessariamente “storicistica”, come da De Sanctis in poi e in tutti manuali delle Scuole secondarie), ma in senso appunto “cronologico”. Nei test d’accesso all’Università leggiamo cose strabilianti, anche in studenti che hanno avuto buoni voti alla maturità. Carlo Magno collocato 500 anni dopo, Napoleone 500 anni prima e via dicendo; ma, se non ricordo male, i nostri deputati, ovvero coloro che fanno le leggi della Repubblica italiana, hanno risposto ancor peggio a un’inchiesta televisiva: il 90% non sapeva collocare, non per pochi anni ma per molti secoli, eventi come la scoperta dell’America o la rivoluzione francese. Gli studenti statunitensi delle secondarie superiori, per la grandissima parte, a una inchiesta specifica, non sapevano nulla della guerra del Vietnam o ritenevano che l’avessero vinta gli U.S.A. Questa completa ignoranza spiega, secondo studi attendibili anche l’orientamento elettorale di vaste zone, che dipendono esclusivamente dal “racconto” televisivo, ascoltato, appunto, senza capacità di giudizio critico. Nel contempo penso che già nella Scuola secondaria attraversamenti tematici o per genere molto mirati e specifici siano certo utili: ma la scelta tematica o per genere la vedo soprattutto importante e operativa all’Università, dove, per esempio, io la pratico costantemente, sempre però tenendo presente la varia collocazione storica dei testi: per sviluppare tutte le proprie potenzialità occorre che la critica tematica poggi su una dose almeno sufficiente di conoscenze storico-cronologiche. Altrimenti si arriva al “close reading” americano: efficacissimo per stimolare il primo interesse ma spesso demenziale dal punto di vista scientifico e soprattutto critico.

Auspichiamo che le nostre classi divengano sempre più delle comunità ermeneutiche: come affrontare il nodo della traduzione?

Al riguardo un grande critico come Francesco Orlando ha fatto notare innanzitutto che il problema della traduzione si presenta in modo molto diverso in poesia e in prosa, ovvero nel romanzo, il genere letterario emblematico della modernità. Nel romanzo due delle tre categorie retoriche fondative del discorso, e cioè la l’inventio e la dispositio non vengono minimamente messe in questione dalla traduzione e la stessa elocutio rimane certo importante ma meno stringentemente. Il rischio si polarizza soprattutto sui campi semantici delle due lingue tradotte: “caffé” o “albero” in inglese non indicano la stessa cosa che in italiano, e così via, fino ai casi più complessi. C’è un’approssimazione, ma un’approssimazione evidentemente ben accettata: tutti i grandi scrittori hanno in genere letto i loro auctores in traduzione o con testo a fronte, o comunque con un grado di competenza linguistica limitato. Eppure le opere di autori “stranieri” sono state lette, comprese, riusate e sono diventate parte della tradizione europea e mondiale. Diverso il caso della poesia, dove è fondamentale – come diceva già Dante – il peso del significante e di un sistema linguistico in cui “tout se tient” e in cui quindi, come nel gioco degli scacchi, non si può mutare la posizione di un solo pezzo senza mettere in discussione l’intero sistema e la sua comprensione. In quel caso le soluzioni migliori possono essere realmente due, a seconda del pubblico di riferimento: la “bella infedele”, con rispetto delle rime e della prosodia (ma a patto che sia davvero bella, anzi “bellissima”, caso molto raro, ma talvolta reale, come perfino per la Commedia e parti del Canzoniere); oppure, soluzione che personalmente preferisco e che a scuola considero preferibile, traduzione filologicamente corretta (e quindi spesso anche bella), senza rispetto del sistema rimico e prosodico ma con testo a fronte: vi sono casi eccellenti, proprio per la Commedia e il Canzoniere, ovvero per opere di rara difficoltà.

Consiglierebbe agli insegnanti di rispettare un criterio antologico, o di puntare alla lettura integrale di poche opere fondamentali?

Per quanto già detto in risposta a una domanda precedente, penso che sia preferibile il criterio storico-antologico, ma credo che ogni insegnante accompagni ormai questo criterio, se lo usa, con il consiglio di leggere alcune opere fondamentali: se non si legge nell’adolescenza ormai si rischia di non leggere più: questo è un tema che andrebbe affrontato con decisione, anche a livello istituzionale.

Nella sua relazione al convegno “La letteratura e la formazione degli europei” lei ha auspicato che le Istituzioni scolastiche assumano come propria iniziativa indagini comparative tra i paesi europei sull’insegnamento della letteratura; che cosa dovrebbe fare a suo avviso il MIUR a tal fine? Sarebbe auspicabile proseguire la ricerca coinvolgendo un numero maggiore di scuole in Italia?

A mio avviso il MIUR potrebbe prendere atto dei risultati, pur parziali e certo perfezionabili, di una ricerca articolata in tanti paesi europei, che pone l’Italia all’avanguardia in questo campo e che è ben coerente col tradizionale e forte europeismo italiano (non solo a livello governativo, ma anche nella cosiddetta “società civile”), farla propria, estenderla a moltissime scuole a livello istituzionale e proporla a livello europeo per arrivare quindi a un grande incontro europeo, non solo di addetti ministeriali, ma coinvolgendo le scuole partecipanti, in forme da studiare (ma con la rete ormai si possono fare cose bellissime). La prima questione dovrebbe essere appunto quella del riconoscimento dei valori fondativi, per la cittadinanza umana ed europea, della letteratura e non della sola competenza linguistica. Questo, sin dall’inizio, era lo scopo e principale della nostra ricerca: non la compilazione di un ennesimo e magari discutibile canone, ma il coinvolgimento di tutti i paesi e le scuole europee in un’operazione tesa a preparare il futuro cittadino degli “Stati uniti d’Europa”, un cittadino che si senta “europeo” quanto gli americani, anche gli immigrati di prima generazione, si sentono totalmente “americani” dopo qualche decennio di residenza e lavoro negli U.S.A. Quello americano è un fenomeno straordinario e anche meraviglioso su cui non si è riflettuto mai abbastanza, pur se certo è evidente che la grande ricchezza americana e la sua egemonia globale facilitano l’integrazione: perché però l’Unione europea non ha mai affrontato seriamente il problema e si continua a parlare di nazioni e di “Europa delle patrie”, senza porre in atto quelle metodologie che negli U.S.A. hanno funzionato e funzionano così bene? Evidentemente ci sono ancora – lo sappiamo purtroppo tutti – molte riserve, in molti paesi, sul futuro di una vera “Unione europea”. Noi abbiamo provato a dare un piccolissimo contributo: speriamo che possa stimolarne altri, a partire dalla scuola, nello stesso senso.

NOTA

Questa intervista è tratta da «Chichibìo», numero 64 – anno XIII, settembre-ottobre 2011.

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