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L’uso della critica. Intervista a Romano Luperini

 

a cura di Bernardo De Luca

BDL: Lei esordisce come critico nel 1968 con la pubblicazione del suo primo libro verghiano (Pessimismo e verismo in Giovanni Verga, Liviana, Padova). Il suo ultimo romanzo (L’uso della vita. 1968, Transeuropa, 2013) narra i moti di protesta pisani in quell’anno cruciale, attraverso la mistione di ricostruzione storica e finzione romanzesca. Possiamo quindi affermare che il sessantotto è il culmine della sua formazione intellettuale, letteraria e politica. Potrebbe dirci cosa l’ha spinta, oggi, a ritornare proprio a quell’anno? Crede, infatti, che ciò che ha rappresentato il sessantotto, culturalmente e politicamente, possa essere ancora prezioso per la nostra attualità?

RL: Pessimismo e verismo in Giovanni Verga era la mia tesi di laurea, scritta quattro anni prima del 1968, e sistemata per la stampa nel periodo di carcere (marzo-giugno 1968) per un arresto durante una manifestazione. Non rifletteva il 1968, ma certo risente del clima che lo preparò, come fu subito osservato dai recensori. Ci fu anche chi scrisse che vi si presentava un Verga antitogliattiano! Non direi che il 1968 sia stato il culmine della mia formazione culturale e critica che si completerà soprattutto negli anni settanta e ottanta, con la scoperta della psicoanalisi che allora ignoravo e la critica prima ai principi dello strutturalismo, poi a quelli della decostruzione e del “pensiero debole”. Certo subivo già la influenza dei miei due maestri antiaccademici, Timpanaro e Fortini. Il 1968 fu invece decisivo per la mia formazione politica. Per dodici anni, dal 1968 al 1980, la mia attività principale fu quella dell’agitatore e poi del dirigente politico. Oggi non sono un “pentito”. Vedo tutti i limiti di quegli anni e penso che il 1968 sia stato innovatore per molti aspetti (qualsiasi movimento di lotta e qualsiasi cambiamento importante del costume gli sono stati debitori nel quarantennio successivo), ma anche attardato sul piano politico: a livello teorico, i leader del 68 erano tutti eredi della III Internazionale (Lenin, Mao, Ho-chi-Minh, persino, alcuni, Stalin) o delle sue frange marginali ed eretiche. E tuttavia il ’68 fu un tentativo radicale di cambiare la vita, di praticare forme di esistenza comunitaria, di vivere nella pratica quotidiana lo stesso progetto comunista. Oggi non è certo riproponibile nelle istanze di allora, ma quella aspirazione a cambiare il mondo e a rifiutare la ipocrisia dei continui compromessi col potere costituito mi pare ancora necessaria. Allora si scoprì che la politica non era solo una specializzazione o un lavoro, ma poteva divenire tutta la vita di una persona. Nel mio L’uso della vita. 1968 parlo del ’68 come di un momento di intensità esistenziale e di “leggerezza” e felicità politiche, destinate a logorarsi nel giro di qualche mese ma anche a lasciare una impronta profonda in chi lo visse.

BDL: Proprio nel sessantotto, due intellettuali di riferimento furono Sanguineti e Fortini (quest’ultimo è uno dei personaggi principali del suo romanzo). Di questi due poeti-intellettuali lei è stato amico nonché studioso. Benché siano stati percepiti come due figure antitetiche, tuttavia oggi ci appaiono più vicini di quanto poteva sembrare in passato: entrambi marxisti, entrambi professori universitari e critici, entrambi poeti. Oggi si discute molto su quale sia il ruolo dell’intellettuale nella nostra società, proprio alla luce di figure del recente passato come Sanguineti e Fortini. Le chiederei, quindi, qual è stato il suo rapporto con questi due modelli e se crede che possano essere un esempio da seguire anche per il futuro o se, invece, i cambiamenti avvenuti in questi ultimi decenni hanno radicalmente modificato le prospettive sul ruolo degli intellettuali.

RL: Ho frequentato assai più Fortini (che era mia collega alla università di Siena) che Sanguineti, con cui pure ho avuto la fortuna di intrattenere un rapporto ottimo, ma assai più saltuario. La questione dell’avanguardia, di cui uno era teorico ed esponente e l’altro critico feroce, li rendeva vicendevolmente ostili. Entrambi appartengono a un mondo che si è estinto in Italia alla fine degli anni settanta: il mondo di Calvino, Pasolini, Moravia, Volponi, Leonetti, quando ancora la voce dell’intellettuale-legislatore aveva un senso e un’eco efficace nella società civile. Era un tipo di intellettuale le cui origini risalgono all’illuminismo, ma che poi si era sviluppato con l’ “affaire Dreyfus” alla fine dell’Ottocento e infine con la diffusione del marxismo nel secondo dopoguerra: l’intellettuale dialogava con gli esponenti del movimento operaio e del partito comunista, scriveva sulla prima pagina dei grandi giornali borghesi, era un grande mediatore ideologico e depositario di una autorità che invece a poco a poco si perde nel corso dell’ultimo ventennio del Novecento e del cosiddetto postmoderno. Oggi questo modello di intellettuale è scomparso. La funzione della mediazione è stata assunta dai grandi apparati di comunicazione di massa che all’uomo di cultura lasciano solo lo spazio dell’“esperto” o quello dell’intrattenitore. D’altronde quel modello era in crisi già alla fine degli anni Settanta, come Fortini capì appunto allora: Sciascia e poi Eco sono già figure diverse, esprimono piuttosto una forma di “americanizzazione” del dissenso, e cioè una testimonianza del tutto individuale ormai scissa da un movimento sociale di lotta e autorizzata solo da private scelte etiche e/o culturali. In modi diversi e antitetici, Fortini e Sanguineti sono invece rimasti fedeli a un modello che si stava esaurendo. Il più giovane dei due, Sanguineti, ha continuato a parlare di lotta di classe, di avanguardia e di sabotaggio della letteratura sino al momento della morte avvenuta pochi anni fa. In mezzo a tanti disinvolti voltagabbana che abitano il mondo della cultura, sia reso loro l’onore che meritano. Però essere intellettuali oggi, continuare a impegnarsi all’interno delle contraddizioni attuali, comporta la ricerca di strade nuove. Non c’è spazio qui per dimostrarlo come sarebbe necessario. Ma su questo punto rimando a un mio libro di saggi che uscirà in autunno presso l’editore Quodlibet e che si intitola La condizione intellettuale e la critica letteraria.

BDL: Durante l’ultimo incontro del ciclo di seminari Opificio di letteratura reale tenutosi all’Università di Napoli “Federico II”, lei ha discusso di statuti e prospettive della critica letteraria odierna. In chiusura, ha focalizzato l’attenzione sulle sfide future che la critica, ed in particolare l’italianistica, deve affrontare. Una delle affermazioni più importanti riguardava proprio quest’ultima: se l’italianistica vuole sopravvivere deve inevitabilmente sconfinare nelle letterature comparate. Potrebbe qui sviluppare ulteriormente questa affermazione? In particolare, sarebbe interessante conoscere il suo punto di vista sulle ripercussioni di questo sconfinamento, sia sulla nozione di “canone nazionale” (e quindi sulla sua trasmissione scolastica e universitaria), sia sui cambiamenti metodologici che questa metamorfosi inevitabilmente comporta.

RL: Devo precisare il mio pensiero su questo punto. La crisi della italianistica è dovuta a ragioni importanti e di fondo: il declino dell’umanesimo, il trionfo del pensiero tecnico e della razionalità strumentale, la fine dell’intellettuale tradizionale, la scomparsa del modello culturale, nato nel Risorgimento ma continuato sino a trenta o quaranta anni fa, della letteratura italiana come fondamento dell’identità politica del popolo italiano ecc. Ma altre discipline umanistiche, come la storia e la filosofia, hanno saputo rinnovarsi, l’italianistica no: è rimasta abbarbicata a un modo erudito, accademico, microfilologico di leggere la tradizione. Anche la letteratura inglese in Gran Bretagna e negli Stati Uniti ha conosciuto un momento di crisi, ma ha resistito grazie a profondi rinnovamenti riguardanti il canone e i modi di approccio al testo (i cultural studies e il neostoricismo, pur discutibili in alcuni assunti, sono andati in questa direzione). Penso che senza una visione comparatistica ed europea del canone nazionale, senza un rinnovamento della critica in senso antropologico e, con qualche prudenza, tematico, senza una apertura alla teoria della letteratura, l’italianistica sia destinata a perdere la sua centralità e a ridursi, nella società e nell’insegnamento, a un rango marginale. Già oggi nelle università italiane sono scomparsi i Dipartimenti di italianistica, e all’estero si assiste alla loro graduale eliminazione. Anche nelle scuole medie superiori non è più pensabile uno studio della storia letteraria con tutti i suoi snodi, i suoi movimenti, i suoi medaglioni. Bisognerà rivedere radicalmente il tradizionale metodo storicistico, puntare sulla lettura di pochi classici e rivedere il canone scolastico. Nel Seicento, per esempio, basterà Galileo, nel Settecento Goldoni. Non ha più senso, nel mondo di oggi, conoscere Parini o Alfieri, che non hanno visibilità europea, e ignorare invece Sterne, Goethe o Rousseau, conoscere Carducci ma non aver mai assistito a un dramma di Shakespeare. Rivedere il canone nazionale da un’ottica europea o, viceversa, considerare il contributo al canone europeo e a una identità culturale europea che la scuola italiana può dare mi sembrerebbe un compito importante di questa fase.

BDL: Riprendendo ancora alcune suggestioni dal suo intervento, un’altra sua affermazione importante riguarda la “forma” saggio. Secondo lei, infatti, il saggio critico, così come ereditato dal secolo passato, non ha più futuro. Qual è il motivo della sua sfiducia verso questa forma che si è istituzionalizzata come un vero e proprio genere letterario (su cui ragionarono filosofi e critici celebri, come Adorno e Lukács)? Attualmente è in grado di indicare una nuova forma? Infine, se il saggio dovrà trasformarsi, qual è lo stato di vitalità dei generi letterari moderni? Romanzo, Poesia e Dramma sono ancora le categorie da usare oppure anche qui assistiamo da qualche decennio a una metamorfosi non del tutto chiara?

RL: La forma “saggio” è collegata alla figura dell’intellettuale come mediatore ideologico. Il saggio è un genere letterario: si basa sulla forza dello stile, sulla intelligenza della osservazione e sulla cultura personale dell’autore. Non sulla sistematicità e sulla oggettività “scientifica”. È un prodotto originale, impossibile senza un lavoro artigianale sul linguaggio, e senza una volontà suasoria. Presuppone una società civile, un dialogo allargato, un interscambio culturale. Oggi è ormai sostituito dall’intrattenimento giornalistico e dallo studio accademico. Il primo si rivolge alla massa indistinta, il secondo a una cerchia limitata di “esperti”. Sono agli inizi forme nuove, talora interessanti, di comunicazione attraverso internet (blog, riviste on line ecc.). Probabilmente sta nascendo un modo nuovo di fare critica, di riflettere in pubblico ecc, ma non si tratta di saggistica come l’abbiamo conosciuta nel corso del Novecento (anzi, per ora, prevale un approccio egolatrico ed esclamativo, impressionistico e narcisistico). D’altronde tutti i generi sono attraversati da un processo profondo di trasformazione: a differenza del saggio, il romanzo, la poesia, il dramma sembrano resistere ma attraverso un processo di adeguamento che li sta a poco a poco cambiando (il romanzo, maggiormente esposto, più della poesia, naturalmente).

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NOTA

Questa intervista è stata pubblicata su www.benicomuni.unina.it al seguente link.

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