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Su Ipermodernità di Raffaele Donnarumma

Il libro di Donnarumma, Ipermodernità, non solo illustra la tesi che si sta affermando un nuovo clima culturale e letterario, ma ne è esso stesso una spia (un «sintomo», direbbe l’autore) e un agente di promozione. E’ opera storiografica e, insieme, opera militante. Tanto è vero che certe piccole cautele esibite dall’autore per ridimensionare quest’ultimo aspetto (su cui tornerò alla fine) risultano fortunatamente inefficaci.

É, dirò subito, un bel libro. Pulito. Schierato. Capace di impegnarsi sul piano sia della teoria che dell’analisi concreta e puntuale. Verrebbe voglia di dire onesto, se questo aggettivo non fosse un po’ equivoco e qualunquista (ma su ciò più avanti). Un libro che storicizza con rigore e con passione il presente, compiendo una operazione che sino a non molti anni fa lo avrebbe retrodatato a una epoca arcaica e improponibile e che oggi risulta invece del tutto attuale. E che si ricorderà per le acuminatissime osservazioni sul realismo in sede teorica e storiografica (in particolare sulla differenza fra il realismo documentario e testimoniale degli ultimi anni e quello del passato), sulle nozioni di verità e di realtà, e sulla futilità con cui queste vengono ancora oggi attaccate con sottigliezze che sfidano il buon senso.

Molto schematicamente, secondo Donnarumma il postmodernismo letterario si sarebbe affermato nel trentennio 1965-1995 per poi progressivamente lasciare il posto a un clima culturale e letterario nuovo, che l’autore chiama ipermoderno (una categoria già usata in Francia e oggi ripresa in Italia, per esempio, da Recalcati). Il primo si caratterizza per l’eclettismo citazionista, per la metaletterarietà, per l’ironia, per l’ilare nichilismo, per il manierimo, per il pastiche inteso come parodia bianca, per una idea testuale del mondo, il secondo per un recupero di poetiche ispirate al realismo e al modernismo, per una istanza di partecipazione civile e, appunto, di militanza (anche se di tipo nuovo rispetto a quella ideologica e partitica del passato).

Su questo disegno generale sono del tutto d’accordo. Né c’è da stupirsene: faccio parte anch’io della rivista che per prima ha avanzato questa proposta interpretativa e della cui redazione Donnarumma fa parte, «Allegoria».

Restano alcuni punti di perplessità non certo sul quadro generale, ma su alcuni dettagli del disegno. Il primo riguarda il 1965 come data di inizio del postmodernismo italiano. Io, anni fa, avevo suggerito un’altra data, il 1973, e comunque avevo dichiarato che si può parlare di postmodernismo solo nella seconda metà degli anni settanta e di una vera svolta in questo senso solo a partire da Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) e Il nome della rosa (1980). Ora mi conforta il recente intervento rievocativo di Umberto Eco in calce alla riedizione del dibattito sul romanzo sperimentale del settembre 1965 a Palermo. Eco sostiene che il dibattito di quell’anno divideva chi credeva ancora alla opposizione avanguardista (Sanguineti su tutti) e chi invece si limitava a proporre un romanzo sperimentale avanzando la ipotesi di un recupero della trama e dell’intreccio, seppure autre. Insomma fra chi restava fedele al principio di contraddizione e chi lo abbandonava per ritornare nel recinto della istituzione, e insomma fra avanguardisti e futuri postmodernisti. Dice però anche che allora era troppo presto perché si possa pensare al postmoderno, che il primo a parlarne fu John Barth nel 1967, seguito da Leslie Fiedler all’inizio degli anni Ottanta, e che lui stesso ha dovuto aspettare un quindicennio prima di arrivare, col Nome della rosa, a trarre le conseguenze di quel convegno; e conclude che tutt’al più si può parlare, per quel dibattito, di «una divinazione del postmoderno a venire». Il fatto è che non bastano le tendenze genericamente anticipatrici di Barilli o di altri sodales del Gruppo 63 a determinare un nuovo clima o, come dice Donnarumma, una nuova «dominante». Non bastano nemmeno le tre opere da lui ricordate, Fratelli d’Italia di Arbasino, Hilarotragoedia di Manganelli e Cosmicomiche di Arbasino. La dominante nella seconda metà dei Sessanta è ancora fondata sul principio di contraddizione, sia esso coniugato in senso sperimentale oppure civile. A dare l’impronta a quegli anni sono Balestrini, Volponi, Sciascia, Pasolini, Celati, Malerba (per non parlare di autori oggi quasi dimenticati ma allora importanti come Lombardi o Leonetti). Opere come Il serpente di Malerba, La macchina mondiale di Volponi, Vogliamo tutto di Balestrini, Le comiche di Celati, Il contesto e Toto modo di Sciascia, Petrolio di Pasolini non hanno nulla del postmodernismo. Insomma negli anni Sessanta del postmodernismo si danno indubbiamente alcune anticipazioni, ma esso si afferma, diventa «dominante», solo dopo il 1975.

Altra questione. Donnarumma parla di «postmoderno» come di «epoca culturale» (p. 26), ma poi di fatto si limita a cercare una coerenza «interna ai fatti letterari» (p. 31) (anzi, questa debole attenzione al dibattito culturale e filosofico e alle dinamiche sociali economiche e politiche mi pare una costante del libro, e fa parte di un atteggiamento difensivo e cautelativo che è proprio di una intera generazione formatasi negli anni dalla egemonia postmoderna). In una periodizzazione fissare una data implica una certa corrispondenza di livelli: al livello letterario deve corrispondere quello culturale e, per quanto possibile, anche quello sociale ed economico-politico. Il 1965 non è una data in questo senso. Dovessi indicarne una direi il 1973, quando si esaurisce l’onda lunga della neoavanguardia, viene meno la contestazione sociale e politica (fatti del Cile, compromesso storico), comincia la crisi economica (fine della società del benessere, crisi petrolifera, austerità). Inoltre è solo a partire dalla seconda metà degli anni Settanta che le ideologie dominanti nel ceto intellettuale in Italia – marxismo e strutturalismo soprattutto – vengono travolte: nasce il pensiero debole, si affermano l’asse filosofico Nietzsche-Heidegger, il decostruzionismo, le tendenze poststrutturaliste e così via.

Infine. Il libro si chiude con una brillante e condivisibile disquisizione di natura teorica sui modi di fare storia del presente. E dopo aver dichiarato giustamente che non c’è nulla di più falsificante che presentarsi al di sopra delle parti o simulare l’imparzialità della scienza, dopo aver altrettanto giustamente parlato di «scommessa», di necessità della «scelta» e della «parzialità», si conclude con la dichiarazione che occorre comunque «uno sforzo di onestà» (si intende nel definire la dominante senza trascurare i sintomi che le si oppongono e che sono presenti in ogni epoca). Su quest’ultimo termine bisogna intendersi. L’onestà è sempre correlata a un codice vigente, a un insieme dato di regole. Per questo invocare l’onestà rischia di essere equivoco e persino di suonare – indubbiamente contro la volontà dell’autore – quasi qualunquistico. Sembra quasi un appello alla necessità di un lavoro “ben fatto”, a una deontologia professionale, la quale però non può che rimandare ai protocolli del sistema dominante. In realtà un lavoro di storiografia del presente ha senso, come scrive benissimo in altra parte Donnarumma, quando ottiene il risultato della efficacia «persuasiva», quando cioè riesce a rendere ragione «dell’unità del panorama, dei suoi accidenti, delle sue deviazioni» (p. 230), e facendo tutto ciò dimostra anche una tesi e si batte per una proposta che implica una scommessa sul futuro e pone perciò in discussione l’assetto vigente delle cose. È esattamente quello che Donnarumma ha fatto, e con successo, con questo suo ultimo libro.

NOTA

 

Questo articolo è stato già pubblicato su Alfabeta2 il 14 settembre 2014 e fa parte di un più ampio dibattito che può essere seguito qui http://www.alfabeta2.it/.

 

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