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diretto da Romano Luperini

Uno può anche non leggere?

 

In un articolo uscito sul Sole 24 ore e poi sul blog Le parole e le cose Claudio Giunta critica una iniziativa volta a favorire la lettura e sostenuta dalla Conferenza dei Rettori. Tale iniziativa conferisce particolari agevolazioni, anche in termini di crediti, agli studenti che leggano dei romanzi inseriti in una lista probabilmente scelta dagli editori e probabilmente composta da opere di vasto e facile consumo. Provocatoriamente l’articolo si intitola Uno può anche non leggere, ed è questo titolo, che d’altronde riflette abbastanza l’idea dell’autore, che ha scandalizzato.

Ovviamente che uno studente abbia dei vantaggi provocati dalla lettura di opere di intrattenimento al posto di quelle, più impegnative (si spera), che dovrebbe studiare, è agevolazione controproducente (oltre che abbastanza incomprensibile) che conferma il decadimento attuale degli studi universitari. Ma è sulla sostanza del problema, quella indicata dal titolo, che bisogna pronunciarsi.

Partirò da un aneddoto (in realtà un ricordo) e da una polemica, che hanno entrambi lo stesso protagonista. Una volta Fortini ed io (ma mi pare che fossero presenti, o che dovrebbero essere stati presenti, anche Siti e Maggiani) fummo invitati a partecipare ai lavori di una scuola a La Spezia. Gli insegnanti orgogliosamente mostravano come avessero sviluppato lo spirito poetico degli adolescenti leggendo in classe i poeti contemporanei (Fortini stesso, Caproni, Giudici, persino Zanzotto….), insegnando loro a scrivere sonetti, a coltivare i propri stati d’animo, a osservare liricamente il paesaggio. Fortini s’infuriò. “Dovete insegnargli a leggere e a scrivere. Non diventeranno poeti, ma odontotecnici, geometri, ragionieri”, gridò. E alla loro domanda, “Ma allora quali autori dobbiamo leggere in classe?”, rispose “I Vangeli!”. Quanto alla polemica, fu fra Fortini e Spinazzola, il quale esaltava come una grande conquista la crescita della lettura in Italia (si era negli anni Settanta) e, come critico, coerentemente aveva una predilezione per il romanzo di facile consumo e stava perciò facendo una battaglia contro lo sperimentalismo letterario accusandolo di allontanare i lettori dai libri. Fortini vide in questa posizione l’ultima manifestazione di una linea illuministica volta a identificare il progresso con la diffusione della cultura e della letteratura; osservò che nell’URSS di Stalin e dei suoi immediati successori l’analfabetismo era stato sconfitto, la lettura aveva livelli di diffusione superiori a quelli di qualsiasi altro paese, ma non per questo l’URSS si collocava ai vertici del progresso; aggiunse che la misura della civiltà andava cercata non nella popolarità della letteratura, ma nelle condizioni della scuola, degli ospedali e delle carceri.

Credo che nella sostanza, e al netto delle esagerazioni polemiche, Fortini avesse ragione. E dunque anche Giunta ha ragione quando osserva che è meglio non leggere che leggere libri-spazzatura. Però…

Però temo (per quello che di Giunta ho letto in questa e altre occasioni) che le ragioni di Fortini (e anche mie, in questo caso) siano opposte alle sue. In Giunta c’è un eccesso di superbia e di snobismo culturale. Sul piano culturale (e politico-culturale) è un lucido e intelligente conservatore, un raffinato reazionario, e gliene va dato atto, perché ciò gli permette spesso di avere uno sguardo originale e risoluto che pochi oggi hanno. È rimasto legato a un momento in cui la cultura umanistica aveva ancora un valore ed era ancora espressione di un privilegio. E vorrebbe conservare questo valore e privilegio anche oggi. Si sente un sacerdote dell’alta cultura e dell’alta letteratura, e teme perciò l’assedio del vulgus profanum. In qualche misura crede di appartenere ancora a una élite superiore garantita dall’amore per le lettere e dalla familiarità con la lettura di testi complessi inaccessibili alla massa. Non vede quanto la grandezza della letteratura sia stata anche la sua miseria. Un tempo l’arte e l’alta letteratura erano, nel contempo, contraddittoriamente, sia “attributo delle classi dominanti” (si ricordi la pagina di Marx sui polpastrelli di Beethoven), sia manifestazione e celebrazione della forma e perciò capaci di proporre un uso formale della vita (Adorno) e dunque di anticipare ellitticamente una società liberata. Oggi, in un mondo dominato dal profitto, dalla tecnologia e dal potere della multimedialità, per chi si occupa di letteratura si danno due possibilità: o si vive la grande letteratura come un piacere destinato a pochi, che alcuni spiriti aristocratici coltivano con i riti di una setta di intenditori di vino pregiato in una società di rozzi bevitori di birra, o si vive come pratica contraddittoria e materia che gli insegnanti faticosamente e umilmente, senza inutile e anacronistica spocchia, devono presentare agli studenti quale possibile serbatoio di memorie e di tradizioni di cui si è nutrita, sino a poco tempo fa, la nostra identità occidentale. O si sta nella setta dei pochi intenditori o si scende sulla terra e si insegna la letteratura nelle condizioni disperate in cui operano oggi decine di migliaia di docenti.

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