Da stigma a stemma. Il malato come eroe letterario
Letteratura e medicina: per analizzare questo rapporto, abbiamo scelto di pubblicare il testo della lezione tenuta da Gesualdo Bufalino il 27 ottobre 1990 a Messina in occasione dell’inaugurazione del Congresso Nazionale della Società italiana di Medicina Interna.
Per Bufalino la malattia è «il tema centrale d’ogni narrare». Senza eccezione tutti i protagonisti dei suoi libri sono posti in una condizione estrema, alle soglie della morte. Nell’imminenza della fine questi «catecumeni del nulla» si lasciano allettare da una lusinga di teatralità e vivono la malattia come un privilegio.
In questo intervento l’autore comisano passa rapidamente in rassegna tutto un nutrito campionario di “malattie letterarie” nella convinzione che la malattia, percepita fino al Settecento come «stigma» e come «colpa», a partire dal Romanticismo abbia assunto la valenza positiva di uno «stemma››, di un segno d’elezione. Qui Bufalino non esaurisce la complessità dei significati che la letteratura moderna attribuisce al tema della malattia, ma si concentra su una tendenza precisa (l’esaltazione degli stati patologici tipica di certo Romanticismo e del Decadentismo) e insieme ci parla in modo mediato della sua stessa opera, facendosi «chirurgo e cavia di sé medesimo».
Più volte, mentre aspettavo il mio turno in qualche anticamera di medici, e leggiucchiavo le riviste sparse sul tavolo, ho rilevato con favore l’uso di premettere a ciascuno studio scientifico un sommario che ne anticipasse le tesi. Non diversamente, qui di seguito, ecco in brevi parole il mio assunto:
La malattia, che nel corso dei secoli è stata quasi sempre rappresentata nei testi letterari come uno squilibrio dell’essere e uno scandalo biologico, con effetti di stupore, paura, ribrezzo; e le cui radici sono state via via attribuite a un sopruso degli dei, a una rivolta del corpo, a una crudele maledizione, a un’oscura autopunizione… la malattia, dico, dopo essersi a lungo incarnata in personaggi disgraziati e commiserabili, a un certo punto della sua storia, poco meno di due secoli fa, ha preso ad assumere un carattere positivo, di distinzione e quasi di araldico blasone, trasformandosi, come suona appunto il titolo del mio intervento, da stigma in stemma. Vocaboli che in fondo vogliono dire la stessa cosa, e cioè “segno”. Solo che, nel primo caso, il segno è una piaga, uno sfregio, un marchio d’infamia, mentre nel secondo è un’insegna di nobiltà.
Come questo processo si sia attuato, è il mio tema; che svolgerò, data la vastità dell’argomento, più per asserzioni che per dimostrazioni; bensì col supporto, quanto piùlargo possibile, di testimonianze dirette.
Comincio con tre citazioni bibliche, dal Vecchio e dal Nuovo Testamento:
«La collera del Signore si accese contro costoro. Ed ecco Maria divenne lebbrosa: bianca come la neve …».
È un passo del libro dei Numeri, dove si narra di Mosè. Ancora: «Satana percosse Giobbe di un’ulcera maligna, dalla punta del piede alla cima del capo». È un passo del libro di Giobbe.
Infine, dal Vangelo di Matteo: «La folla gli depose ai piedi storpi, zoppi, ciechi, sordi e molti altri: Gesù li guarì…». Ebbene, in questi tre esempi la malattia appare opera di forze celesti o diaboliche, mentre la guarigione pertiene solamente a Dio. In ogni caso il malato è un reprobo, un colpevole, che può sperare salvezza solo da un’infrazione alle leggi di natura, da un miracolo, cioè.
Nel mondo greco antico le cose non mutano molto. Il nosos, vale a dire il morbo, sia che colpisca l’individuo, sia che affligga una collettività, s’incardina sempre su una dialettica di colpa e pena: il malato è responsabile, più o meno cosciente, della sua malattia e la subisce come una condanna dovuta. Prometeo, incatenato a una rupe del Caucaso, a cui un’aquila rode il fegato (metafora, forse, d’una cirrosi!), paga a Zeus il conto della sua ribellione; così come gli Achei, nel I canto dell’Iliade, soffrono l’epidemia di peste per un’offesa che hanno inflitto ad Apollo.
La malattia è dunque un castigo ed ha per primo effetto l’impurità dell’uno o dei molti. L’impurità, a sua volta, esige la catarsi, vale a dire un gesto espiatorio da attuare attraverso un sacrificio umano o la scoperta del colpevole. Nell’Edipo re di Sofocle, la città è contaminata per l’uccisione del re Laio. Ascoltiamo due battute di dialogo:
Creonte: Il re Febo ci ordina di scacciare il miasma che noi stessi di questa terra abbiamo allevato e nutrito.
Edipo: E come purificarci? E la colpa, qual è?
Creonte: Esiliare il colpevole o punire con la morte la morte.
Come si sa, il paradosso tragico di questo caso sta nel fatto che Edipo, mentre indaga sull’origine dell’infezione, non sa d’esserne lui stesso la fonte, in quanto inconsapevole parricida. Allo stesso modo, quando il flagello colpisce non la comunità ma il singolo, ne derivano conseguenze di reiezione e vergogna. Ascoltiamo Filottete, abbandonato con le sue pustole nell’isola di Lemno:
D’aspro male consunto e nelle carni
da micidiale vipera segnato
d’aspro morso, così con la mia pena
solo m’abbandonarono…
E più in là:
Figlio, è la fine! Non poter nascondere
questo mio male innanzi a voi…
Passiamo a Roma, di corsa. Qualcosa qui comincia a mutare. La malattia, seppure rimane un’incrinatura nell’ordine e nell’armonia dell’universo, ripudia la paternità degli dei. Nasce un abbozzo d’interpretazione scientifica. Un solo esempio: Lucrezio; una sola citazione, alla fine del VI libro della Natura:
Or dei morbi a svelare m’accingo la causa, di dove
improvvisa sbucando la loro mortifera forza
faccia scempio di turbe umane e di torme d’armenti.
Già t’insegnai che semi di cose infinite per l’aria
volan che salutari ci sono, molti altri che in cambio
danno malanni e morti…
Non gli dei dell’Olimpo, dunque, generano il male; ma l’aria e i germi maligni che la abitano e di cui ciascuno si nutre. Così demitizzata, la malattia tende ad assumere la sua autentica identità, pur costituendosi ancora oggetto di rifiuto e compatimento.
Eccoci al Medio Evo, età di grandiose calamità: peste, innanzi tutto, ma anche carestia, lebbra, mutilazioni varie di origine bellica, e ancora i morbi più vari, di natura spesso ignota o malconosciuta. La letteratura, quando può, se ne astrae, cercando rifugio nell’invenzione di favole evasive e consolatorie (liriche e poemi d’amore e cavalleria), ma più spesso ne rende testimonianza, così nelle cronache e storie del tempo come nelle prose mistiche e religiose, dove il male viene visto a volte come portato diabolico, a volte, viceversa, invocato, come strumento di martirio e di perfezione:
Segnor, per cortesia
mandame la malsania.
A me la freve quartana,
la contina e la terzana,
la doppia cotidiana
e la grande idropesia…
È Iacopone da Todi che così grida, per desiderio di imitare in qualche modo la passione del Cristo.
Fuori da questo contesto, la malattia conserva i suoi caratteri di brutale laidezza. Così Dante nel diciottesimo dell’Inferno:
Qual è colui che sì presso ha il ribrezzo
della quartana che ha già l’unghie smorte
e trema tutto…
e nel trentesimo:
La grave idropesia che sì dispaia
le membra con l’umor che mal converte,
che il viso non risponde alla ventraia
faceva lui tener le labbra aperte
come l’etico fa che per la sete
l’un verso il mento e l’altro in su rinverte…
Con occhi altrettanto attenti alle degradazioni del corpo Boccaccio guarda nel Decamerone alla peste di Firenze, descrivendone i bubboni simili per grandezza a una «comunal mela».
Ma nel corso del Medio Evo, fra tanti mali visibili, uno invisibile serpeggia, che c’interessa in modo particolare. È la malinconia o acedia o atrabile: una sindrome depressiva, diremmo noi oggi, che tormenta i monaci nelle loro tebaidi, ed è provocata dalla vita sedentaria e continente. La chiamavano “demone meridiano”, nella presunzione che colpisse specialmente durante i mezzogiorni d’estate, per probabile impulso di Satana. Il paziente che ne soffre non è più il malato comune, afflitto da ulcere e febbri volgari, ma per lo più un intellettuale, in qualche modo un essere d’eccezione, dai nervi sensibili e dalla vorace immaginazione. Un male simile implica nel malato un certo consenso, per non dire un compiacimento. Fa soffrire ma induce anche a fantasie voluttuose. Petrarca, una delle sue vittime, lo deplora come un vizio, ma nel contempo lo accarezza amorosamente, sentendosene quasi gratificato. Primo remoto annuncio del fenomeno che vengo illustrando: la promozione del malato da dannato ad eletto.
Con Petrarca ci troviamo già nel vestibolo del Rinascimento. Ora si cerca di esorcizzare il male opponendogli un paradiso di luce e di salute, una primavera perpetua della terra e del corpo. Pensate a Botticelli, a Tiziano, ad Ariosto… alla loro ambizione di espellere la sofferenza dal mondo attraverso le mitologie del colore e della “bontà” cavalleresca. Non che il Rinascimento ignori le cupezze della magia e le miserie della corruzione fisica. Cerca tuttavia di trascenderle attraverso una visione d’ideale salute. È questa l’età, d’altronde, in cui si compie un gran balzo in avanti nel campo delle conoscenze diagnostiche e terapeutiche. Si scopre l’esistenza dei microbi, molti mali, compresa la terrificante sifilide testè apparsa in Europa, vengono decodificati in termini di eziologia naturale. E se anche persistono fisime e pregiudizi, ci si avvia a una retta interpretazione del concetto di malattia. Ascoltiamo due testimonianze, l’una di uno spirito turbato sull’orlo della follia, Torquato Tasso; l’altra di una intelligenza vigile, scettica, armoniosamente razionale, Montaigne.
Dice Tasso (Lettera a Girolamo Mercuriale, 28-6-1583):
Sono alcuni anni che sono infermo e l’infermità mia non è conosciuta da me: nondimeno ho certa opinione di essere stato ammaliato. Ma, qualunque sia stata la cagione del mio male, gli effetti sono questi: rodimento d’intestino, con un poco di flusso di sangue; tintinni negli orecchi e nella testa, alcuna volta sì forti che mi pare d’averci un oriolo; immaginazione continua di varie cose e fatti spiacevoli… Oltra di ciò, sempre dopo il mangiare la testa mi fuma fuor di modo, e si riscalda grandemente; ed in tutto ciò ch’io odo vo fingendo con la fantasia alcuna voce umana, di maniera che mi pare assai spesso che parlino le cose inanimate…
Tre anni dopo, nel 1586, Montaigne scriveva nel terzo libro dei suoi Saggi un elogio dello star bene, non separandolo da una rassegnata, quasi stoica, accettazione della morte. Un atteggiamento di filosofica serenità, in un uomo che pur soffriva di intollerabili coliche renali.
Questi due paradigmi, della malattia come disordine che turba innaturalmente la macchina della vita, e di cui si cerca il responsabile fuori di noi; e della malattia come evento naturale, più naturale della stessa salute, sopravvivono anche nel secolo successivo, il ‘600, in cui da un lato assistiamo a fenomeni di colpevolizzazione superstiziosa (processi alle streghe, agli untori…); e dall’altro a un avallo della malattia e a una sua emancipazione pur entro una luce di religiosa pietà. Come in questo testo di Pascal:
La malattia è lo stato naturale del cristiano, poiché, quando si è malati, si è nello stato in cui si dovrebbe essere sempre, cioè nella sofferenza, nei mali, nella privazione d’ogni bene e piacere dei sensi, lontano da ogni passione, ambizione, avarizia, e infine nell’attesa continua della morte. Ora non è così che il cristiano dovrebbe trascorrere la vita?
Parole che non si addicono certo ai malati di Molière,più o meno immaginari, i quali, perduto ogni nimbo di mostruosità o di santità, scivolano verso la china del comico, in un’aria di scettico scherno e di parodia, di cui i medici fanno tristemente le spese.
Così galoppando, ci avviamo ai tempi moderni. Un colpo di pistola li annunzia: è Werther, l’eroe di Goethe, che si spara un colpo alla tempia, nel 1774. Il Romanticismo è alle porte, e con esso il riscatto della malattia che da vergogna inconfessabile si muta in serto di gloria e motivo di vanità. Da oggi in poi il malato diviene un prediletto, un eletto. Il fascino della morte vicina, il lume di vita superstite nei suoi occhi di condannato, l’acuirsi della sensibilità che è propria d’ogni stato morboso, lo distinguono e lo elevano sul gregge sanguigno dei borghesi di buona salute, ottusi, torpidi, obesi.
Werther, morendo suicida per mal d’amore, punisce in sé la sua malattia con un gesto definitivo che assume subito valore d’esempio e connotati eroici, provocando imitazioni in sede letteraria (l’Ortis del Foscolo), ma specialmente nella realtà del costume. Un’epidemia di suicidi attraversa, per contagio, la prima metà dell’Ottocento, mentre vengono alla ribalta e s’affermano due specie di malati, non inedite ma che ora soltanto trovano sanzione espressiva nell’arte: il malato di nervi e il malato di petto. Il primo (si chiami René, Obermann, Adolfo) esibisce uno stato d’animo di languore sfibrato, una inerzia viziosa dei sentimenti, donde si genera una sorta di noia sublime. Certe bizzarrie del comportamento che nel secolo precedente passavano per isterie o lunatiche farneticazioni, non senza una punta di derisione (i fumi e i vapori dei personaggi goldoniani…), acquistano ora un colore d’umor tragico, che da lontano annunzia le odierne sindromi della nevrosi e contrassegna col suo sigillo di pena e di nobiltà i pazienti. È lemal exquis, le mal du siècle, tanto di moda nell’Ottocento, e comprende un ventaglio di variabili assai cospicuo: talvolta dietro di esso si nasconde la maschera amara di un’impotenza (Armance di Stendhal); talaltra esso è l’espressione di una inettitudine all’azione che si rivela invincibile e si allea con la più patologica pigrizia (Oblomov di Gonciarov)… Il suo eroe d’elezione è però Des Esseintes, di Huysmans, sovrano d’un reame di perversioni sottili che gl’incrinano anima e corpo. Con lui navighiamo già in pieno decadentismo e ci lasciamo alle spalle le storie ancora lacrimose dei malati di mal sottile, da Mimì a Violetta, da De Musset a Chopin, a Keats…, tutti giovani sacri a una morte precoce, quindi aureolati da una corona di equivoca beatificazione. La malattia ora celebra i suoi trionfi, appare un privilegio ed un premio. Noi possediamo – dice Baudelaire – bellezze sconosciute ai popoli antichi, visi scavati dai cancri del cuore, bellezze sfinite e moribonde… Altrove, rivolgendosi a una mendicante dai capelli rossi, dice di trovare nelle sue membra magre e malate, disseminate di efelidi, una misteriosa dolcezza …
Una sua poesia, Sul Tasso in prigione, descrive una situazione che ci è già nota: il Tasso in cella, malato, allucinato, preda dei più torbidi deliri:
Febbricitante, lacero, in fondo alla segreta,
straziando un manoscritto sotto i piedi, il poeta,
con occhi che l’orrore brucia, una scala affissa
vertiginosa, dove il cuor gli s’inabissa.
Risa ebbre e bizzarre empiono la prigione,
e invitano all’assurdo la sua stanca ragione;
il Sospetto lo assedia, e goffa e laida e varia
circola la Paura attorno a lui nell’aria.
Questo genio rinchiuso in un’orrida grotta,
fra smorfie, urla, fantasime che in turbinosa frotta
gli si rivoltan dietro l’orecchio, questo assorto
veggente che si sveglia in un carcere smorto…
ecco il tuo emblema, o Anima colma di sogni, oscura
Anima che il Reale serra fra quattro mura!
Come si vede, qui il reietto Torquato è divenuto il simbolo d’una lotta fra Ideale e Reale; una lotta di cui è vittima sacrificale ma che rappresenta la medaglia della sua grandezza e della sua gloria.
A questo punto la nobilitazione della malattia può dirsi compiuta: «La malattia è talvolta salutare» scrive Thoreau. E Renard: «Quel senso di irresponsabilità, e quindi di libertà assoluta, che danno le malattie…».
Un altro passo ancora e la malattia assumerà valenza metaforica e quasi metafisica. Perfino negli scrittori più realisti: il vaiolo che sfigura la bellissima Nanà di Zola significa lo sfacelo della sua vita e della società che l’ha espressa; il tumore che divora Mastro Don Gesualdo segna la fatalità d’un destino di “vinto”… Nel più bel racconto dedicato a un malato, La morte di Ivan Iljic di Tolstoi, il progresso del male è visto come la conquista sempre più sottile e pietosa d’una scienza della morte; l’epilessia dei personaggi dostoevskjiani segna un momento di quasi mistica illuminazione; la lue di Adriano Leverkühn nel Doktor Faustus di Thomas Mann somatizza la decadenza della Germania e la sua misera resa agli orrori del nazismo… Con Mann siamo in pieno Novecento. Il colera di Morte a Venezia è anch’esso un male simbolico, così come la peste in Camus, e vi si esprime la corrosione stessa del concetto di vita. Nasce l’idea della malattia come scelta volontaria dell’organismo. L’aveva già detto Schopenhauer, lo ribadisce Kafka, lo fanno intendere Mann nella Montagna incantata e Proust a proposito della sua asma nella Ricerca del tempo perduto. L’equazione intelligenza-malattia si consolida: «I tre quarti delle malattie delle persone intelligenti provengono dalla loro intelligenza» dice Proust. E Mann esalta così lo stato d’infermità: «La malattia creatrice, la malattia che largisce la genialità, che scavalca gli ostacoli e nell’ebrezza temeraria balza di roccia in roccia, mille volte più benvenuta della salute che si trascina ciabattando».
Infine Eliot così conclude: «La nostra unica salute èla malattia» (Quartetti II, 4). In questo modo la malattia si avvia sempre più a coincidere con una pienezza, non con un vuoto di vita. Viviamo in regime, per così dire, nosocratico, o addirittura tanatocratico, quale che sia la maschera che indossiamo per dimenticarcene. In omaggio a quella battuta, scherzosa ma non tanto, di Jules Romains nel Dottor Knock: «Le persone che stanno bene sono malati che non lo sanno».
________________________
NOTA
Questo testo riproduce la Lettura Magistrale svolta da Gesualdo Bufalino il 27 ottobre 1990 presso il Teatro Vittorio Emanuele di Messina in occasione della cerimonia di inaugurazione del XCI Congresso Nazionale della Società italiana di Medicina Interna. Il testo è stato pubblicato nel 1990 in edizione non venale e limitata (Edizione Cepi, Roma 1990).
La fotografia è dell’Archivio della Fondazione Bufalino di Comiso.
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