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diretto da Romano Luperini

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Condizione di impotenza e stato di minorità /3. Primo bilancio del dibattito

Una premessa, o una confessione. Conosco Guido Mazzoni da vent’anni, da quando cioè era dottorando alla Scuola Normale di Pisa. Me lo presentò Francesco Orlando facendomi leggere le sue poesie e chiedendomi di fare qualcosa per farle conoscere. Essendo un giovane serio, preparato e rigoroso mi sono comportato con lui come ho fatto con tutti i giovani di questo tipo da me incontrati nella mia lunga carriera: per quanto ho potuto, ne ho promosso l’attività intellettuale e accademica. Siamo diventati amici, per anni ha lavorato con me, all’università a un tavolo vicino al mio, nella mia stessa stanza, e nella redazione della rivista «Allegoria». Nell’ ultimo periodo ci siamo allontanati per ragioni a me non chiare e neppure spiegabili razionalmente. Ma ciò non ha impedito la collaborazione fra noi. D’altra parte ho sempre concepito la collaborazione come libero dibattito fra uguali e per quel che ho potuto ho sempre incoraggiato questo metodo di lavoro comune. Questo è il mio stile, perché dovrei cambiarlo? L’ho appreso dai miei maestri e spesso proprio in polemica aperta con loro (polemica che mai ha guastato la stima e l’ amicizia). Non conosco un metodo migliore, perché espurga le eventuali scorie personali del dissenso e ne libera la parte razionale. Ciò spiega perché io abbia sentito e senta il bisogno di esporre pubblicamente le ragioni della mia critica all’ultimo libro di Guido, I destini generali. C’è un solo modo di trattare l’interlocutore che mi pare offensivo, il silenzio, la damnatio memoriae. E invece chiamarlo apertamente in causa, introdurlo nel campo del conflitto delle interpretazioni, per me è sempre una forma di rispetto, l’unica che conti in campo culturale.

E passiamo ora ai termini del dibattito. Di esso una cosa soprattutto mi ha colpito: il silenzio (con poche eccezioni) sulla proposta etico-politica del libro di Guido, una proposta molto seria e molto grave, anche per le sue conseguenze pratiche ed educative (dato che viene da un docente, come ha sottolineato, nel suo intervento, “un insegnante”): quella dell’adeguamento, del piccolo cabotaggio. del compromesso, e insomma dell’accettazione, seppure con disagio, dello status quo, accompagnata dall’elogio della saggezza del senso comune popolare che a tale esito indurrebbe. Insomma: siccome non c’è niente da fare, meglio adattarsi alla situazione e curare i propri interessi. E va da sé che la cosa è seria e grave perché, come ognuno sa, dall’egoismo individuale si passa rapidamente a quello regionale, nazionale e continentale, e senza spirito di sacrificio e di solidarietà qualsiasi civiltà sprofonda nelle barbarie (o nella “animalità”, direbbe Kojève citato da Guido).

Quasi tutti, nel dibattito, si sono fermati invece sull’analisi della condizione di impotenza, trovandola sincera, realistica, spregiudicata, e interpretandola ora come frutto di una depressione, ora come il risultato di una rigorosa e lucida operazione razionale, ora come la conseguenza di una esperienza generazionale.

Questo troppo frequente silenzio sul cuore etico-politico del discorso di Guido può spiegare un effetto paradossale del libro: che, pur suggerendo l’acquietamento e il compromesso quotidiano, viene percepito come spregiudicatamente anticonformista e controcorrente. Paradossalmente un libro che invita al conformismo è percepito come anticonformista. E la cosa è tanto più paradossale in una situazione come l’attuale dove tutto ci spinge naturaliter all’adeguamento e non c’era proprio bisogno di questa spinta in più. E tuttavia la patina di anticonformismo si può capire: rispetto a una certa tradizione del ceto intellettuale “impegnato” che dalla Resistenza agli anni settanta di Pasolini, Fortini, Sciascia, Volponi si era battuto per cambiare lo stato di cose esistente, il libro di Guido va decisamente controcorrente, muovendo da un dato di fatto inconfutabile: quel tipo di intellettuale (fra Vittorini e Fortini, fra Pratolini e Pasolini, fra Muscetta e Sciascia sino a Sanguineti) è finito da un pezzo, il mandato sociale a cui si ispirava è stato ritirato e la funzione di mediazione ideologica è stata pienamente assunta dai grandi apparati massmediologici. Una importante tipologia di intellettuale è venuta meno ormai da quaranta anni e Guido non fa che dichiararlo e trarne alcune conseguenze. Si tratta, beninteso, di una consapevolezza largamente diffusa ormai da qualche decennio (Fortini ne aveva parlato già all’inizio degli anni settanta), ma Guido indubbiamente ne prende coscienza con lucida perentorietà. Ebbene proprio questa esibita discontinuità può apparire ai lettori un fatto nuovo e anticonformista. Per di più il tono del discorso, ora dolente, ora amaro, e il fatto che esso mutui per l’analisi le categorie del pensiero critico moderno (che si fa forte di un costante impegno di inattualità e di spirito critico) fanno evidentemente dimenticare le opposte conseguenze – terrore di essere inattuale e non visibile, elogio dell’adattamento e rinuncia al cambiamento giudicato impossibile – che ne vengono tratte.

Ma il rovesciamento di una recente tradizione da lui operato non può fare dimenticare che, se si guarda alla storia lunga degli intellettuali italiani, quella di Guido non è affatto una posizione nuova e anzi ha alle spalle un costume affermato, che dall’intellettuale cortigiano a quello della Controriforma, dall’intellettuale del periodo fascista a quello largamente prevalente in quest’ultimo trentennio si è contraddistinto per la accettazione della formula proposta nei Destini generali: stato di impotenza, dunque adattamento. Bisognerebbe tornare a leggere Gramsci (cosa che gli americani non hanno mai smesso di fare, mentre noi, più realisti del re e più zelanti dei nostri padroni, abbiamo smesso cinquant’anni fa) per capire quanto il comportamento che da essa deriva sia profondamente inciso nella natura del ceto intellettuale italiano. Basta pensare agli anni del fascismo, quando all’epoca della proclamazione dell’Impero il 95% degli italiani stava con Mussolini e la maggior parte degli intellettuali, avvertendo la propria impotenza (forse con maggiori ragioni che oggi), si era perfettamente adattata al regime, limitandosi a manifestare il proprio «disagio» con qualche barzelletta sul Duce raccontata alle Giubbe rosse fra un punch e una partita a dama o a scacchi (allora molto di moda nei caffè letterari), mentre, nell’università, solo 12 docenti su oltre tremila si rifiutarono al giuramento fascista (e si considerino invece la vastità e la varietà della diaspora accademica tedesca dinanzi al nazismo, imparagonabile con la nostra, da Adorno ad Auerbach, Spitzer, Marcuse, per non parlare dell’esilio di intellettuali come Benjamin o di artisti, come Thomas Mann, Brecht o Schoemberg). Oppure si pensi alla storia dell’università in questi ultimi due o tre decenni, quando, davanti alla proposte di riforme che di fatto liquidavano una nobile tradizione di ricerca che semmai aveva bisogno di essere rinnovata, non cancellata, gli accademici si sono rapidamente adeguati cercando con assoluta miopia di gestire a proprio vantaggio (a vantaggio del proprio personale potere) i cambiamenti che piovevano dalle alte sfere. Insomma, da noi la formula stato di impotenza, dunque adeguamento, ha avuto ampio corso dando vita a una storia tutt’altro che gloriosa di piccoli cabotaggi e di adattamenti interessati.

Ho detto che quello di Guido è l’esame di coscienza di un letterato italiano (concetto ripreso nel dibattito da Anna Drago). Devo aggiungere: molto letterato e molto italiano. Molto letterato, perché, come ha fatto osservare Bonifacino, incline all’“estetica del disagio” e alla esibizione della malinconia dell’“anima infelice”; molto italiano, perché solo un intellettuale italiano, grazie anche all’atmosfera culturale che si respira oggi in Italia, può avere la capacità di passare per anticonformista facendo l’elogio del conformismo. Ve lo immaginate un intellettuale americano che fa l’elogio dello Svedese, il protagonista di Pastorale americana di Roth, che impersona il modello di “uomo medio americano”, come Guido lo fa di Fabrizio Corona, che a sua volta rappresenta il modello dell’uomo italiano di successo nel tempo di Berlusconi? Inoltre Guido esprime un dato effettivo della nostra condizione nazionale – la condizione di chi vive tappato dentro la marginalità e l’impotenza di una provincia periferica dell’impero – e anche per questo può avanzare una proposta di comportamento che di fatto ignora due terzi del pianeta e le vittime dell’occidentalizzazione. D’altronde sta qui un merito (si può chiamare così?) di Guido: dice in piena coscienza (e dunque, ahimè, sdogana e avalla) quello che tutti in Italia fanno senza dirlo e forse anche senza saperlo. In America sarebbe diverso: là la globalizzazione è entrata nella percezione comune del ceto intellettuale, nell’aria che si respira ed è presente da secoli nella contraddizioni razziali. In America per un intellettuale è più difficile scrivere come se esistesse solo il modo di vivere occidentale.

Della posizione di Guido sono state date spiegazioni psicologiche, sociologiche, generazionali. Gli si fa torto. La sincerità e la verità del suo libro non derivano da una depressione individuale (perché di depressione eventualmente si tratta, non certo di disperazione, come osserva Zinato), né da uno status accademico, né dagli anni che ha l’autore. Tutti questi elementi possono incidere, ma non costituiscono la molla della sua scrittura. A parlare in lui sono gli umori e i rancori, le depressioni e le frustrazioni, e il conseguente bisogno di risarcimento e di protagonismo, di un ceto travolto dalla “mutazione”, quello soprattutto dei letterati e degli umanisti, di quegli intellettuali, insomma, che Gramsci avrebbe chiamato «tradizionali». Guido Mazzoni, insomma, è l’ultimo interprete di una lunga tradizione. Da questo punto di vista la sincerità e la verità del suo libro sono storiche perché hanno un indubbio valore di documento: il documento di una continuità che si prolunga oltre la fine dell’umanesimo, sino all’ipermoderno in cui attualmente viviamo. Da Montale, che era disposto a confessare di essere stato un topo non un’aquila (e pensava probabilmente ai suoi “adeguamenti” durante il fascismo) e che almeno usava nei propri confronti il sarcasmo, si è passati alle malinconie e ai disagi che invece sono privilegio e risarcimento assai più consueti e tradizionali. Ma la storia è sempre la stessa.

Per questo il libro di Guido inquieta. E per questo vale la pena di parlarne, anche se ciò può far stupire l’ingegnere informatico intervenuto nel dibattito. Perché questo libro parla di noi, della tendenza all’adeguamento e al compromesso che è in ciascuno di noi e nell’aria stessa che respiriamo (e di cui così bene ci ha detto Giglioli nel suo libro). Fra un mese o fra un anno ci troveremo in una università cambiata secondo i criteri della “buona scuola” e la maggior parte degli intellettuali accademici continuerà ad adeguarsi e a cercare di gestire i cambiamenti a proprio vantaggio. Fra un anno o fra dieci o venti, la nostra Costituzione sarà cambiata in senso autoritario in modo da rafforzare la governabilità e da lasciar ancor più mano libera alle forze economiche e finanziare, e noi assisteremo tranquilli e impotenti. Fra un anno o fra venti le vittime della fame, della sete e della povertà provocate dal sistema di vita occidentale avranno invaso l’Europa, proprio mentre il nostro sistema economico-politico potrebbe collassarsi, e le guerre di religione insanguineranno il pianeta, con il loro corteo di attentati nelle città europee e americane. E noi (noi intellettuali, e ormai da tempo uomini comuni, “gente”), noi, forti dell’alibi fornitoci dalla crisi delle utopie storiche, continueremo a stare a guardare accontentandoci della formula pacificante stato di impotenza, dunque adattamento?

Qui non è in questione il punto di vista di una generazione o di un’altra, ma il buon senso, la logica umana comune, e persino la logica della sopravvivenza della specie. Magari verrà prima o poi anche il momento di Spartaco invocato da Tricomi, ma intanto basterebbe la semplice capacità di ogni cittadino di ragionare e di operare all’interno delle contraddizioni esistenti. Anche se non sappiamo più in assoluto dove stiano il Bene e il Male, non possiamo far finta di non sapere, intanto, in ogni situazione concreta, dove stia il meglio. E poi, fortunatamente, la storia è sempre più imprevedibile dei suoi interpreti.

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