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Condizione di impotenza e stato di minorità /4. Irreversibilità e quotidianità

I destini generali di Guido Mazzoni e Stato di minorità di Daniele Giglioli ci chiamano direttamente in causa. I due saggi insistono entrambi sul binomio identitàresponsabilità, del quale è data per scontata la portata politica ed esistenziale nel quadro storico delle società moderne, ma di cui è rimarcata l’eclissi nell’epoca attuale. Tale binomio ha compreso per oltre due secoli di storia i conflitti spesso tragici per l’emancipazione di individui capaci di organizzarsi collettivamente e disposti a spendere tempo e fatica per rivendicare il diritto a vivere dignitosamente; ma negli ultimi venti-trent’anni ha perso parte del suo valore simbolico. Attualmente nelle nostre teste e nel nostro linguaggio è diventata residuale «una idea di mondo alternativa a quella occidentale» (Mazzoni, p. 96). Quest’ultima intercetta i desideri consci e inconsci della gente comune in ogni parte del pianeta, cioè le comuni aspirazioni alla felicità privata nell’indifferenza per ciò che accade intorno. Chi patisce la “solitudine sociale” che il modello antropologico della Western way of life comporta si autocondanna alla «depressione» e alla «desoggettivazione», l’altra faccia di una società che ha espunto il conflitto dalla sua grammatica e lo nega in ogni modo (Giglioli p. 68).

Le risposte alla tristezza dell’epoca presente proposte dai due autori sono già state analizzate da molti interventi nella loro divergente portata: politica, esistenziale, antropologica. Per parte mia, confesso che non ho letto i saggi in modo asettico, bensì implicando nel giudizio la mia parzialità di donna e di insegnante.

Anche io voglio contrastare il disagio, ma non esorcizzarlo. Ogni mattino mi attendono degli adolescenti per appartenenza generazionale assai meno garantiti di me, eppure a priori convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili, anche quando nella loro vita incidono i traumi endemici conseguenti alla feroce lotta che il capitalismo nell’attuale fase produce per salvaguardare le storiche rendite di posizione. I comportamenti massificati dei giovanissimi s’inscrivono totalmente in un orizzonte di senso privatistico e consumistico, sempre più impermeabile a ogni sfondamento critico. Ma tocca ancora a noi insegnanti rompere quello schema, proporre una voce dissonante, come quella dei classici antichi e moderni, italiani, europei ed extra-europei, vissuti in un altro tempo e in un altro mondo. Il senso di impotenza è all’ordine del giorno, così come la “tentazione vittimaria”, direbbe Giglioli. Eppure è altrettanto all’ordine del giorno la percezione che un qualche varco si può aprire, che le parole desuete possono sfondare o almeno disturbare il cerchio stretto di quella «vita privata comune», la quale è – e con ogni probabilità resterà – egemonica nel loro inconscio, accolta ideologicamente quale «bene supremo». Per quella via passa la sfida della comunicazione intesa come incontro conflittuale con la diversità: linguistica ed esistenziale fra le generazioni; storico-culturale fra passato e presente; antropologica ed estetica fra modelli di pensiero e universi simbolici distanti, ma non necessariamente irreversibili. Un grumo di senso dialettico e di metodo critico cambia di segno la quotidianità di uno stanco rito collettivo, quello della formazione di base a cui nessuno sembra più credere. Certamente in nessuna aula scolastica si ridisegnano i “destini generali” del mondo, ma ciascuna chiede di trasferire l’etica della cura dal privatissimo campo della reciprocità affettiva a quello della responsabilità sociale.

Mi è capitato di recente di leggere un libro che racconta anch’esso una storia di rassegnazione, M. Jalowicz Simon, Clandestina. Una giovane donna sopravvissuta a Berlino 1940-1945, trad. di I. Amico di Meane, Einaudi, Torino 2015 [ed. in tedesco 2014]: è l’autobiografia postuma di una giovane ebrea berlinese, orfana a vent’anni nel 1942, la quale, vivendo in clandestinità, scampa alla guerra e alla deportazione. È un libro interessante per una serie di motivi: intanto perché mostra come centinaia di ebrei riuscirono a sopravvivere nella Berlino nazista, per caso e per forza di carattere e anche perché un gran numero di tedeschi li nascose nelle loro case o non li denunciò, poco importa se per scelta o per pigrizia, per soldi o per ripicca, per convinzione o per capriccio; poi perché, attraverso una serie di minuti aneddoti risponde alla nostra domanda se i tedeschi furono tutti colpevoli, in modo assai più convincente della storiografia blasonata. Nata nel 1922 e morta nel 1998, comunista, a guerra finita Marie Jalowicz decise di rimanere in Germania dove visse quasi sempre nella DDR e insegnò all’università di Berlino Est. Fra le motivazioni che la indussero a non emigrare in Israele, dichiara a un amico la seguente:

Voglio confutare il consueto argomento secondo cui l’orgoglio non permetterebbe di vivere nel Paese delle camere a gas. Credi che la plebaglia di qualsiasi altra parte del mondo, se qualcuno ne avesse istigato ad arte i più bassi istinti, si sarebbe comportata diversamente dalla plebaglia tedesca? I tedeschi hanno ucciso milioni di ebrei. Ma erano tedeschi anche coloro che, mettendo a repentaglio la propria vita, hanno fatto grandi sacrifici per aiutarmi (p. 326).

Il caso di questa donna è esemplare. Per nulla illusa sulla natura degli uomini, in clandestinità ha imparato a darsi un’alternativa per contrastare il Moloch, qualunque forma assuma, a distinguere la cecità dalla malafede pericolosa e dagli opportunismi innocui o persino utili di chi non vede e non sa. E ci invita, non tanto con la lucidità dell’analisi bensì con la postura anche scomposta della sua esistenza, a fare chiarezza sulla condizione di impotenza, distinguendo «quando e quanto l’impotenza sia davvero incolpevole […]» (Giglioli, p. 49); ci ammonisce a stare ben attenti a non allontanare la molteplicità delle esperienze sempre più irrelate su uno sfondo metafisico di un “Mondo Nuovo” senza Storia, in cui a prevalere non possono che essere gli istinti animali, quelli incontrovertibilmente universali.

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