Tra arbitrio e necessità. Bonifacino e Drago su “L’uso della vita”/13
Un romanzo storico?
Certo, bisogna ammetterlo. Il riferimento al “romanzo storico”, di cui Romano Luperini si serve per definire la sua ultima prova narrativa (L’uso formale della vita. 1968, Transeuropa 2013) lascia perplessi e spiazzati. L’autore è infatti uno dei massimi studiosi e critici del moderno: possibile che dichiari con tanta naturalezza (non manca neppure un cenno a Manzoni), come si trattasse di una cosa ovvia, l’appartenenza del suo terzo romanzo a un genere così compromesso con una tradizione irrimediabilmente lontana dalla sensibilità attuale? Per di più, sospetto di connivenza con quella specie di revival dei generi tradizionali (noir, fantascienza, giallo, romanzo storico) che l’assai problematico “ritorno alla realtà” sembra aver generato…
Il fatto è che probabilmente non occorreva niente di meno di questa assoluta e involontaria -non esibita né cercata- superiorità intellettuale per scrivere un romanzo sul Sessantotto, quel Sessantotto su cui si è fatta terra bruciata, nonostante le ricostruzioni degli storici, spesso lacunose o sfacciatamente faziose, le celebrazioni giornalistiche, il pigro succedersi degli anniversari, con il loro corredo di polemiche a basso costo e barbe d’epoca. Un merito non piccolo del romanzo (ottenuto per forza di stile, come si dirà a breve) è quello di ‘disincrostare’ quell’anno fatidico, di liberarlo dalla polvere dei luoghi comuni che ha ormai ottuso la nostra percezione (uno dei più insidiosi è quello che ne fa semplicemente un fattore di modernizzazione del costume, né più né meno delle battaglie dei radicali degli anni Settanta), per restituircelo vergine, inedito, in un aspetto forse mai indagato (non con questa incisività, almeno): se il “privato è politico”, come recita uno slogan troppo citato di quegli anni, ed esposto ai più inquietanti impieghi ideologici o alle banalizzazioni di una retorica imbolsita, se “la politica è la vita stessa di ogni persona”, come si legge nella quarta di copertina, è perché politica e vita (e singole esistenze) si incrociano nella ricerca di un orizzonte di significato.
La ricerca radicale di senso
La ricerca del giovane protagonista, Marcello, neolaureato alle soglie della vita adulta, di cui volutamente non si accentua una particolare fisionomia politica, lasciata invece ai personaggi non d’invenzione, reali leaders del movimento: il funambolico Sofri, D’Alema, Della Mea, e molti altri più o meno riconoscibili. E’ questo intreccio tra individualità e storia a caricare di tensione emotiva il romanzo. Se qualcosa di violento c’è stato nel Sessantotto quale è raccontato nel libro, è la radicalità della domanda di senso (per chi e per che cosa si vive?), che mette in causa ogni momento della vita, spingendo Marcello a interrogare ansiosamente i rapporti familiari, la figura paterna, eros e sentimenti, il passato abbastanza recente della Resistenza e della guerra – i cui segni prendono forma nel groviglio di ruderi che una modernizzazione tumultuosa sta per cancellare -, le istituzioni volte alla carriera individuale (scuola, università), il comunismo realizzato con il suo apparato burocratico. Una delle sequenze più felici del romanzo è quella iniziale, una specie di “processo” cui è sottoposto il protagonista – reo di aver “attaccato la linea culturale del partito”- ad opera dei dirigenti del PCI, un ‘mostro a tre teste’ con movenze burattinesche, che imprime un tono particolare, surreale e grottesco alla scena: documento della contraddizione storica, politica, e metafora del conflitto individuale, generazionale che convergevano nell’esperienza sessantottesca, e dunque prolessi tematica, sdoppiata e speculare, di tutta la narrazione.
L’uniformità del tono
Un simile contenuto è sicuramente capace di aprire un mondo verbale autonomo, credibile, fatto di personaggi e situazioni molto ben delineati, di una narratività mossa e distesa (qui più che nel romanzo precedente, astratto e caratterizzato da una scrittura “ardua”, difficile). Chi si aspetti, però, la forza dell’ideale politico che accende la pagina, anche contando sulla inevitabile proiezione autobiografica che l’autore, uno che il Sessantotto pisano ha vissuto in prima persona, può aver operato sulla vicenda, si prepari a una speciale sobrietà, che sorregge il romanzo dalla prima all’ultima riga. Quella del protagonista è una soggettività non viscerale rispetto agli eventi, ma introspettiva, straniata, attenta al rilievo -impressionistico, o talvolta allucinato- del particolare: sono le urla folli dei carcerati insonni, oppure è la voce di Ilaria che canticchia una canzone, il balenare delle sue calze verdi e nere. Questa perfetta uniformità di tono della scrittura, il suo limpido, teso rigore, il suo registro cromatico tenero e acceso, non è altro che l’equivalente stilistico del significato di tutto il romanzo, quell’ “uso formale della vita” che Marcello, con uno scatto euristico restituito in immagini di terso lirismo, comprende solo alla fine: ad esso richiama la dura lezione di Fortini, uno dei personaggi “reali” più riusciti del romanzo, fatto di luci e di ombre, intellettuale in rapporto dialettico col movimento, pronto a investirlo della sua intransigente austerità carica di ragione utopica, estranea a facili pacificazioni. La sua testa bianca sul palco di una piazza gremita, le sue parole nel silenzio che “scorrevano fredde sulle schiene” di una folla insieme entusiasta e assorta: le due facce, diversamente essenziali, del Sessantotto: “Tutto era cominciato allora”.
Non un romanzo storico
No, è un po’ difficile pensare al romanzo storico (o almeno la definizione non rende del tutto giustizia a quello che il libro è): quell’insieme di parole così private, quell’arbitrio che ha governato la scelta di cosa lasciare apparire e cosa no, quel raccontare per immagini che si rapprendono improvvise in picchi di straordinaria intensità, è cosa troppo distante dal semplice dipanarsi di una trama. Il romanzo realizza nel concreto la lezione fortiniana: non è un insieme di idee più o meno riconoscibili, ma una forma, una violenza rappresentativa, in equilibrio precario tra arbitrio e necessità.
NOTA
Questa recensione è stata pubblicata su L’immaginazione n. 274, marzo-aprile 2013.
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