
Nei dintorni di Franco Fortini
Pubblichiamo un estratto di Ennio Abate, Nei dintorni di Franco Fortini. Letture e interventi (1978-2024), Punto rosso, Milano 2024, ringraziando autore ed editore.
«Ma scrivi sulle orme del nostro antico e logico disegno. Evidenziale, anneriscile,
se hai solo il nero. Preziose sono anche le residue ombre»
(Ultimo dialogo tra il Vecchio Scriba e il Giovane Giardiniere)
Questo libro è un resoconto del mio rapporto dal 1978 al 2024 con Franco Fortini.
È suddiviso in sette sezioni: – Un filo tra Milano e Cologno Monzese, cronaca di alcuni incontri con Fortini, da solo o con altri, nell’ultimo decennio della sua vita; – Poesia moltinpoesia esodo, documenti per chiarire l’ipotesi di una poesia in esodo; –Per rubare bene le ciliege, appunti su saggi fortiniani di poesia e di letteratura; – In dialogo e in polemica, annotazioni su scritti di intellettuali, interlocutori o antagonisti di Fortini; – La polis che non c’è, ripresa di alcune delle sue «questioni di frontiera»: guerra e pace, conflitti sociali e politici degli anni ‘70 in Italia, comunismo; – Poeterie per FF, versi miei a lui dedicati; – Ruth e Franco, due ritratti per una ricerca su un Fortini più quotidiano.
A chi mi chiedesse perché, tra tanti scrittori importanti, proprio Fortini abbia ricevuto stima e attenzione così prolungate nel tempo da parte mia, rispondo così. Perché più e meglio di altri ha difeso una idea di poesia, di letteratura, di politica, di visione critica e comunista del mondo che ho fatto mia. E l’ha difesa sia nel biennio politicamente esaltante del ‘68-’69 sia dopo, durante la crisi degli anni Settanta (compromesso storico, uccisione di Moro, scioglimento del PCI) e fino alla sua morte avvenuta agli inizi delle attuali, devastanti guerre “democratiche” o “permanenti”.
È dal 1991 che avevo pensato ad uno studio ampio su Fortini e scelto il titolo «Nei dintorni di Franco Fortini», che vorrebbe sottolineare la problematica “particolarità” – da non enfatizzare ma neppure trascurare – della “perifericità”, in cui mi trovavo quando lo conobbi, in cui sono rimasto anche dopo in questi trent’anni dalla sua morte e che ha modellato il mio modo di pensare a Fortini, alla costellazione culturale in cui ha operato e anche al mondo in continua trasformazione.
Perché allora il libro esce con tanto ritardo? Direi semplicemente per la fatica che richiede rimeditare il «Conflitto sconfitto», il vuoto lasciato dalla scomparsa di quelle speranze affiorate per la nostra generazione quasi di colpo proprio nel 68’-’69. Sono rimasto – potrei aggiungere – per tanto tempo nei dintorni di Franco Fortini per non metterci definitivamente una pietra sopra quelle speranze e quelle «verità» che allora confusamente intravvedemmo e divennero «nostre». In tutti questi decenni è come se fosse continuata una sorda contesa, una sorta di tiro alla fune mai dichiarato apertamente, tra chi ha cercato di proteggere quelle «verità» (del comunismo, della Resistenza, del biennio rosso ‘68-’69 e anche del ‘77) e chi ha lavorato per gettarle via perché diventate un carico insopportabile.
Il percorso che ho fatto attorno a Fortini e nei suoi libri in tanti anni è riassunto in questo libro. Sono partito dalla lettura di «Questioni di frontiera» nel 1977, cogliendo diverse somiglianze tra il suo percorso di intellettuale e di militante politico e il mio. Ho poi approfondito i suoi scritti – saggi, poesie, articoli sui giornali -, che mi hanno aiutato a riannodare il filo spezzato tra la generazione dei padri (Fortini stesso, mio padre, altri) e la mia. E ho capito meglio sia la tragedia del fascismo, che aveva costretto al mutismo gli adulti con cui ero cresciuto al Sud (mio padre, meridionale, contadino e militare in due Guerre Mondiali, mia madre, ricamatrice e casalinga, i parenti, i miei stessi professori di liceo) sia quella del comunismo sovietico, sottovalutata dai compagni con cui mi ero messo nel ‘68-’69. E nei trent’anni dopo la scomparsa di Fortini ho continuato a confrontare le immagini sue – del poeta, dell’ospite ingrato, dell’intellettuale del ‘68, del comunista senza partito, dell’uomo con «una fragilità di fondo nell’ambito degli affetti» e, più recentemente, del pedagogista gramsciano – delineate da altri, amici o studiosi della sua opera, con quelle del «maestro» sia pur «a distanza», di un Fortini “quasi in esodo” o del Vecchio Scriba, che sono andato costruendomi io, ora concordando ora discordando con le altre interpretazioni. E per me ha avuto questo significato: non dimenticare e riproporre, a partire da quelle «verità» e non senza di esse, la costruzione di un progetto e di un’autorità collettiva (un io-noi) secondo l’indicazione fortiniana di combattere il disordine e di dare forma (comunista) alla vita. Tante cose sono cambiate nel frattempo. Guerre, massacri, impoverimento, smarrimento politico e morale, impotenza degli individui ridotti a spettatori rendono il «combattimento per il comunismo» auspicato da Fortini più arduo o persino impossibile. Il mio libro fuori stagione esce in un periodo molto cupo, ma cerca ancora lettori tra quanti resistono al caos del presente e non sopportano di vivere alla giornata o – chi ancora ce l’ha – di ritirarsi a coltivare il proprio giardino.
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