
Il latino è reazionario e classista?
Le recenti dichiarazioni del Ministro Valditara sulla revisione delle Indicazioni nazionali per il I ciclo, in cui sarebbe contemplato il ritorno del latino nella scuola secondaria di I grado, hanno suscitato, come prevedibile, un vespaio di reazioni che la dinamica comunicativa prevalente sui social ha rapidamente e sommariamente scisso in due schieramenti opposti; pare che essi traggano le motivazioni della propria posizione nei recessi della storia patria scolastica e che siano ferocemente avversi: i “democratici e progressisti”, contrari al latino, e i “conservatori e reazionari”, favorevoli al latino.
Prima di qualunque ulteriore riflessione, mi siano concesse due premesse di carattere metodologico.
Primo. Le dichiarazioni pubbliche e le interviste ai giornali del Ministro fanno certamente notizia, ma ciò che dovrà essere giudicato e discusso attentamente sarà il decreto contenente questa (ed altre) novità e le sue modalità di attuazione concreta. Senza decreto in mano, qualunque discussione può offrire interessanti spunti di riflessione, ma non può valutare appieno tutti i dati necessari ad un giudizio davvero ponderato.
Secondo. La diatriba latino sì/latino no risale ai tempi dell’Unità d’Italia, con alcuni periodi cruciali di accesa contrapposizione (gli anni Venti e Sessanta del Novecento, ad esempio) ed è, da sempre, strettamente legata alla discussione sulla democratizzazione dei percorsi scolastici. La bibliografia in merito è sterminata e, spulciandola qua e là, si rimane davvero stupiti nel constatare la pluralità e la varietà delle posizioni in merito: Gobetti e Codignola a braccetto con Prezzolini nel sostenere l’allontanamento degli “inetti” e degli “immeritevoli” dalle scuole medie pubbliche; lo “statalista” Gentile e il socialista Manara Valgimigli favorevoli all’ingresso dei privati nella formazione professionale; il democraticissimo Salvemini strenuo oppositore della scuola media unica. Uno sguardo consapevole alla complessità e alla storicità del dibattito permette quindi di relativizzare, già a priori, la netta contrapposizione tra i due schieramenti di cui sopra.
Premesso ciò, e prese per buone le dichiarazioni del Ministro Valditara, vorrei proporre due ordini di riflessioni, accomunate entrambe da una prospettiva eminentemente materialista: mi chiedo infatti quali effetti concreti potrebbe produrre l’introduzione del latino nella scuola secondaria di I grado.
Prima questione: chi insegnerebbe latino, dal momento che i docenti di lettere del I grado non necessariamente hanno l’abilitazione per farlo?
Non è una domanda peregrina, perché le diverse risposte provocano, a catena, conseguenze dirette sull’organizzazione dell’orario-cattedra dei docenti, sull’organico degli istituti, sulle classi di concorso, e, a scendere, sul tipo di percorso abilitante richiesto per l’insegnamento, sul numero e la tipologia di CFU richiesti per accedere all’abilitazione, giù giù fino ai piani di studi di chi si laurea in Lettere e, quindi, all’assetto complessivo dei Corsi di Laurea.
Dunque, non sarebbe una novità di poco conto (a causa delle implicazioni normative, contrattuali, sindacali ecc…), considerato anche che, a fatica, sembrano ormai avviati, dopo anni di incertezze, dietro-front e buchi neri e sovrapposizioni, dei percorsi abilitanti che dovrebbero dare una certa stabilità alla formazione in ingresso dei docenti.
Seconda questione: quale statuto avrà il latino all’interno del quadro orario settimanale?
A sentire le dichiarazioni del Ministro, sarebbe da escludere l’istituzione di una o più ore di latino obbligatorio per tutti. Fosse stato così, si sarebbe potuto discutere sull’opportunità di inserire il latino, e non l’informatica o il giapponese o il giardinaggio, alle discipline già studiate, ma si sarebbe garantito a tutti gli alunni e le alunne lo stesso percorso formativo, con lo stesso monte-ore e le stesse materie, come è avvenuto, ormai quasi vent’anni fa, con l’istituzionalizzazione dell’inglese come prima lingua straniera e l’inserimento di una seconda lingua comunitaria.
Lo studio del latino, dunque, sarà opzionale.
Ma opzionale in che modo? Se “opzionale” indica una disciplina facoltativa, da svolgersi in orario extracurricolare, generalmente al pomeriggio, e che non ha valutazione periodica obbligatoria, è ciò che già accade in moltissime scuole del I grado, che attivano corsi propedeutici pomeridiani di latino, spesso gratuiti ed indirizzati a studenti e studentesse del III anno (scelti, solitamente, da chi ha intenzione di iscriversi ad un liceo che ne prevede lo studio). In tal caso, much ado about nothing.
È però improbabile che il Ministro abbia intenzionalmente sollevato un polverone per ribadire lo status quo.
È dunque molto probabile che per “opzionale” si intenda una disciplina che può essere scelta dallo studente, ma che può entrare a far parte dell’orario curricolare, come già accade, ora, per le scuole che attivano l’indirizzo musicale. Questo significa, allora, che le scuole potranno scegliere di attivare sezioni che prevedono lo studio del latino e sezioni che non lo prevedono.
È ben chiaro a tutti che le sezioni con il latino curricolare potrebbero risultare molto più appetibili per gli studenti che, per imposizione o tradizione famigliare, o per interesse ed indole personale, intravedono già, oltre l’Esame di Stato di terza, il traguardo di un liceo in cui si studi la lingua di Cicerone: ciò significa, se non anticipare, di fatto, a 11 anni la scelta della scuola superiore, perlomeno creare un percorso preferenziale per qualcuno. E sappiamo bene che quel qualcuno, molto probabilmente, proverrà da famiglie economicamente stabili, con un buon livello di istruzione, capaci di offrire occasioni di crescita culturale ai propri figli: si creerebbero così delle sezioni “privilegiate”, non tanto per una qualche presunta virtù taumaturgica del latino (lingua “della nostra tradizione culturale”, “logica”, “rigorosa” e “meritocratica”), quanto per una implicita selezione in ingresso su base socioculturale.
Ciò sarebbe, per chi scrive, inaccettabile nel contesto della scuola pubblica, repubblicana e democratica, quella che dovrebbe essere egualitaria ed inclusiva, fornire “tutti gli usi della lingua a tutti” e concorrere alla rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione» alla vita civile del Paese.
Tutta colpa del latino?
Mi si permetta, però, un’ulteriore riflessione.
Situazioni simili, ovvero di scuole che hanno sezioni “privilegiate” e sezioni “normali” (o peggio), esistono già. E il latino – “reazionario”, “tradizionalista”, “classista” – non c’entra nulla.
È ciò che accade, infatti, nelle scuole con indirizzo musicale che scelgono di creare una sezione riservata esclusivamente a coloro che, selezionati tramite «prova orientativo-attitudinale» (D.M. 167/2022), studieranno per tre anni musica in modo intensivo, anziché distribuirli equamente in tutte le sezioni attivate – come accade, invece, in altri istituti. Si creano così sezioni che in molte scuole vengono soprannominate, confidenzialmente, “turbo”, o “di lusso”, formate da pochi studenti (massimo 24 alunni, 6 per ciascuno dei quattro strumenti), provenienti da famiglie con la disponibilità economica per acquistare un violino o un flauto traverso, che spesso hanno già studiato privatamente musica e generalmente motivati e disponibili alla costanza e all’applicazione richieste dalla pratica dello strumento. Nelle altre sezioni, intanto, si concentrano le situazioni di marginalità economica e sociale, gli alunni con disabilità, i NAI. Lo stesso accade in tutte le scuole del I grado che, grazie o per colpa dell’autonomia scolastica, offrono sezioni con il potenziamento di inglese o di matematica e informatica, riproducendo esattamente la situazione di cui sopra.
Se non è classismo questo, non so che cosa lo sia.
Eppure, come si vede, il latino non c’entra nulla, non c’entra la “tradizione” o l’”innalzamento del livello” o il “rigore”, non c’entra l’essere “conservatori e reazionari” o “progressisti e democratici” – che non mi pare si siano mai stracciati le vesti, come stanno facendo ora per la lingua di Catullo e Virgilio, per queste forme di disuguaglianza e iniquità diffuse dal Cenisio alla balza di Scilla. Non c’entrano infatti le singole discipline, che è ridicolo pensare intrinsecamente “reazionarie” (il latino? il greco? la letteratura italiana o francese?) o “democratiche” (e quali? l’inglese? la musica? l’informatica?), ma l’uso concreto che di esse ne fanno i singoli istituti all’interno di un quadro normativo che facilita o ostacola il superamento o la riproduzione delle disuguaglianze.
E poiché è compito dei Collegi docenti elaborare le opzioni didattiche che portano all’istituzione di percorsi con determinate caratteristiche, sta – ancora una volta – alla coscienza politica, etica e civile degli insegnanti vigilare (e votare) affinché si facciano scelte che abbiano sempre, come stella polare, i principi costituzionali di uguaglianza e democrazia che dovrebbero modellare la scuola della Repubblica.
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Finalmente una discussione seria sul tema dopo tanti strepiti e urla…
La reintroduzione dello studio del latino (sia pure come materia non obbligatoria) promuove quel regime verticale del ‘frui’ (termine che allude al godimento estetico e noetico) che è ‘toto coelo’ diverso dal regime orizzontale dell”uti’ (termine che indica la ricerca di un vantaggio immediato: l’utilitarismo nella sua versione individualistica e anglo-americana, che è quanto di più rozzo e antisociale si possa concepire), cui si è ridotta la nostra vita per effetto del modo di produzione dominante in quell’area e nelle sue propaggini diffuse in tutto il mondo. Ed ecco un aneddoto illuminante sulla perennità e sulla potenziale vitalità del latino. Nel 1989, invitato a Venezia dal Parlamento Europeo, lo scrittore inglese Anthony Burgess, autore del celebre romanzo intitolato “Arancia meccanica”, se ne uscì così: «La lingua comune all’Europa non può essere l’inglese, né tanto meno l’esperanto: bisogna lavorare per un ritorno al latino». La presero per una battuta. Era serissimo. E se ne andò. Del resto, può capitare anche ad una persona colta di sbagliare perfino nell’uso del latinetto. È successo a Giorgio Agamben, il quale in una nota della sua rubrica sul sito di “Quodlibet”, dedicata al rapporto tra il Bene e il Male, scrive in modo errato la nota sentenza latina: “corruptio optimi pexima” -, laddove la versione corretta è la seguente: “Corruptio optimi pessima [non ‘pexima’, che è termine inesistente]”. Dopodiché, così traduce la frase storpiata da quel barbaro malapropismo: «non vi è nulla di peggio di un bene corrotto». Osservo pertanto che la traduzione letterale è questa: “La corruzione del migliore è pessima”, che si può rendere più liberamente nel modo che segue: “Il migliore, quando si guasta, diventa pessimo” (ma non certo nel modo in cui ritiene di averlo tradotto Agamben). Forse, di fronte ad errori come questi, che da una persona colta non ci si aspetterebbe, trova piena giustificazione il ripristino del latino come materia di insegnamento (purtroppo non obbligatoria), patrocinato con eccessiva timidezza dall’attuale ministro dell’Istruzione.
Concordo con le perplessità e gli interrogativi posti. Sono convinta che questa ipotesi, di cui leggeremo appena sarà ufficiale, aumenterà la selezione sociale già largamente in atto nei nostri percorsi scolastici.
Ottima riflessione, che analizza la questione in modo oggettivo ed equilibrato. Solo dopo aver saputo le concrete intenzioni del Ministro si potrà discutere dei metodi di insegnamento e dei percorsi da attivare, ma credo che questa re-introduzione del latino in orario curricolare non gioverà alla materia, per nulla, anzi, la renderà ancora di più settoriale e d’élite, scoraggiando magari molti, già dal primo ciclo, a proseguirla nelle superiori.
Qui non si tratta delle “concrete intenzioni del ministro”, semmai decreto, ma le indicazioni nazionali di cui si parla tanto, finora note soltanto alla commissione di esperti creata dallo stesso ministro, prima di essere pubblicato dovrebbero essere diffuse e discusse, cosa che Vaslditara non fa, limitandosi a far trapelare notizie qua e là, che creano confusione in assenza del testo, per poi presentarlo bello e pronto.