
Un percorso sulla forma: il sonetto in classe
Il testo poetico, una duplicità di fondo
Fino a ora nessuno strumento di studio mi ha consentito di prescindere dalla persistenza di una duplicità di fondo, nella poesia: territorio possibile d’incontro tra l’impulso e la perizia, tra l’attrazione sensibile alle cose, all’umanità e ai fenomeni da un lato, e la tradizione, il repertorio, la tecnica dall’altro.[1]
Nell’approcciarmi a trattare il testo poetico in classe ho inseguito a lungo una definizione di poesia, una presentazione degna di un’antica e nobile ospite che ci avrebbe fatto compagnia per qualche mese. Alla ricerca di qualcosa che stava diventando simile alla famosa formula montaliana, ho attinto a video-intervista di qualche noto poeta, confrontato alcuni manuali, interrogato in extremis wikiquote. Eppure, nessuna risposta mi soddisfaceva appieno. Quindi, ho sospeso le ricerche e, lasciando il titolo per la fine come consiglio sempre di fare in classe, ho iniziato a lavorare sulla preparazione delle lezioni. Ho ripreso dei manuali di analisi del testo poetico e mi sono imbattuta nella spiegazione di Stefano Colangelo che ho riportato in apertura. Ho capito, allora, perché non mi convincevano le spiegazioni, più o meno suggestive, che ero riuscita a reperire. Nessuna di queste, forse, accoglieva e restituiva quell’elemento essenziale che in effetti definisce la poesia: la duplicità di fondo.
Non solo un romantizzato atto creativo, ispirazione e soggettività portata all’estremo: fare poesia è anche perpetuo scontro e confronto con la struttura metrica e formale che differenzia il genere poetico da ogni altro, e che fa sì che spesso il contenente parli quanto il contenuto.
Ho realizzato, perciò, che nemmeno in classe mi sarei voluta sottrarre a questa duplicità, che avrei voluto cercare di trasmettere alle mie studentesse e ai miei studenti questa doppia anima della poesia: espressione del sentimento, dell’intimo mondo del poeta, ma anche cura dell’aspetto tecnico.
Un percorso nella forma: il sonetto
Nella scuola secondaria di secondo grado, normalmente, si affronta la poesia al secondo anno del biennio con un volume ad hoc delle antologie, un tomo B che segue quello sul testo narrativo. In questi manuali, quasi sempre si introduce il testo poetico esponendone le specificità del linguaggio, delle forme, degli artifici retorici. Successivamente, si propongono percorsi poetici organizzati per tematiche (l’amore, la guerra, il rapporto con la natura, la poesia civile…) o focalizzati su alcuni autori modello.
Pur non escludendo l’approccio tematico, evidentemente necessario – anche considerando l’attuale modalità del colloquio orale della prova di maturità, ho voluto inserire, nella mia seconda di un liceo linguistico, un modulo che mettesse invece al centro la forma e la sua evoluzione, e per fare questo ho inevitabilmente optato per la più iconica ma anche la più malleabile della tradizione poetica italiana: il sonetto.
Un sonetto gancio
Ho deciso di avviare questo laboratorio di poesia con un testo-gancio: il sonetto di copertina dei Sonetti del giorno di quarzo, una raccolta di 350 sonetti pubblicati nel 2022 per la collana bianca di Einaudi da Aldo Nove. Questa scelta rispondeva anzitutto a un bisogno: provare a scalfire una visione di poesia come qualcosa di museale e polveroso connaturata nei ragazzi e rivelata dai molti “prof. ma c’è ancora qualcuno che oggi scrive poesia così?” (lascio aperta l’interpretazione di quel così) o “ma qualcuno ancora la legge la poesia?”, e dimostrare, invece, che la poesia è cosa viva.
In secondo luogo, il sonetto di Nove mi ha permesso di accennare ad alcuni elementi che sarebbero stati il focus del laboratorio, tra questi la questione del repertorio. Nove, infatti, chiama in causa già dal primo verso («Se sa sedurti soltanto un sonetto»…,/ principiava Edoardo Sanguineti) un suo predecessore, Edoardo Sanguineti, e nei versi a seguire svela subito i suoi antenati: Corazzini, Saba, Shakespeare e Petrarca. Vi si può leggere, quindi, uno dei tratti tipici dei sonetti del Novecento: il richiamo all’autorità, sia come riconoscimento che come parodia. Infatti, pur incanalandosi apparentemente nel solco di una ben precisa tradizione, Nove se ne emancipa facendo ricorso a immagini insolite (lumicini cinesi d’una contraffatta marca) e a un uso non sempre tradizionale della punteggiatura e della sintassi (i tre punti di sospensione, i continui enjambements). Ecco, allora, che viene smascherata una delle due anime della duplicità della poesia di cui parla Colangelo, quella che dialoga con la tradizione, il repertorio, la tecnica.
Una volta instillata nella classe l’idea del sonetto e delle sue intertestualità sono entrata nel vivo del laboratorio.
Il laboratorio sul sonetto, fasi e testi
Questo lavoro è stato svolto a metà del pentamestre, in seguito alla consueta introduzione al linguaggio e alle tecniche poetiche e dopo aver avviato una riflessione sulla poesia per aree tematiche. È stato impostato come un laboratorio di poesia: le 6 ore più una di rielaborazione creativa, dedicate all’argomento, sono state svolte in maniera continuativa, senza essere interrotte da interrogazioni, lezioni di grammatica o di scrittura. Tutto ciò per innescare una riflessione continuativa, e dare il senso di una vera e propria immersione.
Dopo la lettura-gancio del sonetto di Nove, si è lavorato rispettando le seguenti fasi:
- Due ore di lezione circa dedicate al sonetto delle origini;
- Un’ora per l’analisi di due sonetti ponte;
- Tre ore sul sonetto del secondo Novecento.
Come si può notare dalla partizione del tempo, il cuore del percorso è stato il sonetto del secondo Novecento. Ho approfittato di questa riflessione sulla forma, in effetti, anche per introdurre, ricorrendo al sonetto, la poesia del Novecento, e in particolar modo del secondo Novecento, solitamente trascurata o appena accennata al triennio. Il sonetto infatti può essere un viatico efficace, anche se niente affatto esauriente o definitivo, per affacciarsi al variegato panorama poetico di quegli anni. Il modo in cui questa forma è stata scelta o non scelta nel secondo Novecento, infatti, è una possibile chiave di lettura per questo periodo storico. Senza pretese di esaustività, è rintracciabile una tendenza di volta in volta dominante nelle diverse ragioni d’uso, decifrabile e comprensibile anche in senso storico.
Con i testi in classe si è lavorato alternando momenti di analisi guidata ad altri di lavoro peer to peer. In quest’ultimo caso, ogni coppia ha dapprima lavorato autonomamente sui testi, guidata da domande di comprensione e analisi; il lavoro svolto è stato poi discusso insieme. Il fine è stato quello di rendere l’interpretazione via via più autonoma. Nessuna delle loro letture è mai stata scartata, ma sempre dialogata, nell’ottica di quella comunità ermeneutica che mette in discussione sé stessa e impara ad ascoltare gli altri anche grazie a un testo letterario. Tutte le poesie si sono analizzate con una particolare attenzione all’aspetto formale e metrico.
Questi i sonetti scelti per le diverse fasi:
Il sonetto delle origini XIII-XIV secolo | Donna vostri sembianti mi mostraro, J. da Lentini; Tenzone tra Dante e F. Donati: Chi udisse tossir la mal fatata; L’altra notte mi venne una gran tosse; Pace non trovo et non ò da far guerra, RFV, CXXXIV, F. Petrarca; |
Fase ponte | A Zacinto, U. Foscolo, 1802-1803; Elogio del sonetto, G. Gozzano, da Poesie sparse, XIX sec.; |
Il sonetto del Secondo Novecento | Il sonetto e l’impegno civico Sonetto,da Foglio di via e altri versi, F. Fortini, 1944; XVIII, da Altri sonetti, da Ogni terzo pensiero, G. Raboni,1992; Il sonetto d’amore XV da L’hobby del sonetto, P. P. Pasolini, 1971-1973; Frissi d’amor con arte, d’amor scrissi, da Medicamenta e altri medicamenta, P. Valduga1989; Il sonetto travestito, la parodia Sonetto dell’amoroso e del parassita, da Galateo in bosco, A. Zanzotto, 1978; Erotosonetto, da Senza titolo, E. Sanguineti1992 |
Il sonetto delle origini
Come è buona prassi fare con ogni nuova conoscenza, abbiamo cominciato dall’esamina del nome di questa forma poetica, e dalle diverse ipotesi relative alla sua nascita. Nel definire la struttura metrica canonica del sonetto, si è fatto presente quanto fin da subito questa forma si presti a essere terreno fertile di esercizi di stile (inserimento di versi brevi, ripetizioni, alterazioni nello schema delle rime o creazione di nuovi schemi); un modello fortemente malleabile. Già nel manuale di retorica di Antonio da Tempo, la Summa artis ritmici vulgaris dictaminis, scritto nel 1332, infatti, vengono registrati ben 28 modi diversi di impiegare la struttura metrica del sonetto.
Il primo sonetto letto, chiaramente di Jacopo da Lentini, è servito per spiegare e visualizzare lo schema metrico della tradizione, nonché la centralità del tema amoroso.
Con i due testi della tenzone tra Dante e Forese Donati, affrontati come un’unica produzione, si è poi cercato di rendere evidente quanto, da subito, il sonetto si sia prestato come componimento preferenziale per contenuti più giocosi, esercizi di stile e di ironia.
Infine, a suggellare l’autorità del componimento, ci siamo confrontati con uno dei sonetti di Petrarca, presentato come il teorizzatore del sonetto italiano. Ho scelto RFV, CXXXIV per il suo rispetto di diversi parametri da “sonetto modello”: l’aderenza metrica alla forma della scuola siciliana, le connessioni lessicali e semantiche tra terzine e quartine, l’uso ricorrente delle figure retoriche e la terzina usata come momento risolutivo.
La fase ponte
Dopo aver preso confidenza con la forma, ho cercato di indirizzare questo laboratorio verso il sonetto del secondo Novecento, tentando di rendere il salto cronologico meno ardito possibile. Spiegando come, nei secoli successivi, Petrarca e i 317 sonetti del Canzoniere siano stati quasi sempre il modello di riferimento, ho deciso di planare direttamente su Foscolo, i cui sonetti, come scrive Remo Fasani rappresentano, quanto a novità, l’ultimo grande capitolo della storia del sonetto stesso e l’ultimo risultato a cui perviene il linguaggio petrarchesco. In questo modo, ho voluto segnare un punto di compimento del sonetto delle origini e allo stesso tempo smascherare i primi tentativi di manipolazione e personalizzazione.
A Zacinto, infatti, non è più un sonetto d’amore, ma un sonetto intimista. A livello metrico, poi, le terzine abbandonano uno schema prettamente petrarschesco, ma soprattutto, è introdotta l’inarcatura tra le strofe che rompe la scansione tra terzine e quartine, pur garantendo la compattezza grazie ai richiami fonici.
Ho insinuato, quindi, l’idea che qualcosa nell’uso del sonetto stesse iniziando a mutare, a emanciparsi dalla rigida gabbia della tradizione.
Di seguito, facendo un’altra breve ellissi, ho letto insieme alla classe Elogio del sonetto di Gozzano. Questo testo è stato selezionato come testo-ponteverso le scelte del Novecento in quanto Gozzano, pur mantenendo una forma regolare, la manipola dall’interno (rime insolite come Madonne e colonne e rime facili, assonanze al posto delle rime, lessico che diventa più vicino al quotidiano) e rompe con il sonetto d’amore prestandolo a tematiche non istituzionalizzate. Soprattutto, il poeta torinese introduce l’elemento parodico, la critica alla tradizione e avvia al concetto di metasonetto: tutti elementi che tornano nel secondo Novecento. Per dirla con Scarpa istituzionalizza un manierismo formale e autorizza le riscritture ironiche della sonetteria novecentesca.
La sonetteria (secondo)novecentesca
Accompagnati da Gozzano, dunque, siamo infine arrivati al secondo Novecento. Dovendo inevitabilmente selezionare e presentare solo alcuni sonetti in qualche modo esemplari, ho ragionato cercando di ricorrere a quella divisione tematica già frequentata dalla classe. Ho selezionato tre principali macro-temi ricorrenti: il sonetto come mezzo per parlare di argomenti di impegno civico, il noto sonetto d’amore e quello parodia-travestimento. Queste tendenze non sono analizzabili come compartimenti stagni, spesso sfociano una nell’altra, ma permettono di dimostrare ancora una volta come la forma non sia mai davvero separabile dal contenuto.
Un tetto contro la dissoluzione: il sonetto impegnato
Seguendo una linea cronologica, il primo macro-tema sviluppato è stato quello dell’impegno civico. Sono partita da Sonetto di Franco Fortini.
È un testo, questo, che palesa il suo debito alla struttura formale già dal titolo. Fortini scrive nel 1944 una poesia sulla Shoah, e affida una materia così rovente e perturbante a un contenente invece rassicurante; non a caso questo è il solo componimento in tutta la raccolta, Foglio di via e altri versi, scritto facendo ricorso a un metro della tradizionale. In un momento storico di frantumazione delle certezze, quindi, il sonetto diventa quello che ben aveva delineato Caproni, altro importante frequentatore della forma in oggetto: un tetto contro la dissoluzione.
Sono molteplici gli scrittori che a quest’altezza storica ricorrono al sonetto, ho scelto proprio questo testo perché, sebbene complesso, fa i conti un argomento noto e fruibile da alunne e alunni. Sempre seguendo questa ratio ho proposto il secondo dei sonetti di questo filone il numero XVIII di Altri sonetti, trattoda Ogni terzo pensiero, di Giovanni Raboni e scritto nel 1992, di riflesso alle stragi in Sicilia di Falcone e Borsellino. Come aveva già fatto Fortini, la forma del sonetto viene mantenuta solo all’apparenza: i poeti iniziano a disgregarla dall’interno. Non solo dal punto di vista metrico. Nel sonetto di Raboni l’interlocutore poetico smette di essere la donna amata e diventa un “tu” impersonificato da uno Stato sanguinoso a cui si appartiene come cellule a un cancro. Raboni alterna similitudini classiche, una rosa piena di spine, alle più prosaiche cellule, cancro, archeologia criminale. Il sonetto con le sue rose non ospita più solo versi d’amore ma denuncia stragi inspiegabili; è forma certa per risposte e spiegazioni non pervenute.
L’hobby del sonetto d’amore
Nella seconda fase di lettura e analisi di sonetti del secondo Novecento siamo tornati sul sonetto amoroso, il più fedele in apparenza a quello delle origini, e lo abbiamo fatto con il componimento numero XV, tratto da L’hobby del sonetto, di Pier Paolo Pasolini. Questa raccolta, quasi un canzoniere, tiene insieme 112 sonetti composti tra il 1971 e il 1973 in seguito alla notizia del matrimonio di Ninetto Davoli, il compagno di nove anni di vita. C’è, in effetti, il sentore del sonetto degli esordi, il ritorno dell’amore da lontano, ma questa volta guardare l’amato da una certa distanza è una costrizione nuova, poiché si tratta di un amore omosessuale. Tuttavia, le maggiori innovazioni sono quelle formali: i versi si allungano, contando anche sedici sillabe, le rime restano sempre tra l’esplicitato e l’alluso e si intensificano gli enjambements. Non è un caso, infatti, che il poeta si riferisca al suo scrivere sonetti definendo l’attività un hobby. Del sonetto forse, rimane la parvenza, viene sfruttato ancora una volta come un riconoscimento.
Anche Patrizia Valduga, si serve del sonetto per parlare di amore, ma ne fa qualcosa di totalmente nuovo. In Frissi d’amor con arte, d’amor scrissi, del 1989, Valduga sembra quasi voler ricalcare le petrarchesche inquietudini del cuore, il dissidio (risi, mi afflissi, mi rosi […] o mio cuore, discussi dei tuoi flussi/ e sconquassi, li ressi in imbarazzo…/ Vissi o non vissi? Se vissi, malvissi), ma si capisce presto che il sonetto desta interesse soprattutto per le sue potenzialità musicali. La presenza di iterazioni, ripetizioni, rime omofone è ossessiva e barocca. Non c’è una battaglia d’amore reale, ma una rivendicazione della libertà di espressione; c’è l’intento di ripulire il linguaggio poetico, che diventa basso e gergale, dal suo velo di ipocrisia. Le quartine sono in rima alternata, ma tutti i versi vengono collegati dalla consonanza della strisciante doppia s. Il sonetto è quindi un gioco, d’amore e di forma.
Il sonetto travestito
La poesia di Valduga ci accompagna all’ultimo macro-tema del laboratorio: quello della parodia. Se in Valduga la parodia è più che altro un mezzo, nel sonetto della fine degli anni Settanta-Ottanta, sintomatico di un periodo di forti sperimentazioni, il travestimento parodico diventa l’unico modo possibile di fare sonetti. Dimostrativo, in questo senso, l’Ipersonetto di Andrea Zanzotto, del 1978. Degli ipersonetti zanzottiani, di cui il titolo rivela già il gusto dell’iperbole, l’ironia, si è letto il numero V, o Sonetto dell’amoroso e del parassita, scelto anche per la connessione con il precedente macro-tema. Anche in questo caso la struttura viene minata internamente con assonanze, allitterazioni, enjambements. Inoltre, è proprio il canonico sonetto amoroso delle origini a diventare una caricatura. In questi 14 versi, il poeta si incammina con la sua memoria come Petrarca, corre disperato alla ricerca di senso come il pastore errante di Leopardi e come l’Orlando ariostesco diventa matto per il furore amoroso. Zanzotto palesa cosa sta mettendo in atto: falsifico simbiosi. Anche il lessico conduce verso una dimensione remota, termini come ratto, rai, meco, fratto cozzano con quella che è la meta finale: il mangiare del parassita. È un sonetto travestito.
Del resto, in quegli anni Edoardo Sanguineti sentenzia che le forme classiche sono praticabili, ormai, solo come straniamento: il sonetto oggi è sempre un sonetto travestito.
L’ultimo testo esaminato è proprio suo, Erotosonetto. Anche Sanguineti rispetta apparentemente il patto con il sonetto, adottandone la partizione metrica e la struttura delle rime canoniche, ma gioca iperbolicamente con un altro aspetto: quello dei suoni. Ogni endecasillabo è composto solo da parole che iniziano con la stessa lettera della prima parola del verso e le prime lettere di ogni verso sono l’acrostico di Sanguineti amat, di nuovo una parodia sul più canonico dei temi: l’amore. Si crea, inoltre, un gioco di allitterazioni per accumulazione che genera un ritmo incalzante, ma toglie definitivamente spessore a ogni sorta di ragionamento argomentato. La forma sonetto, allora, non ha più statuto di elevazione poetica, è quella tradizione da cui non si può forse prescindere, ma con cui certamente si può giocare e provocare.
La conclusione: resistere e trasmutare
Prima di chiedere a ogni studente e studentessa di produrre un proprio sonetto, scegliendo tra le sconfinate possibilità del repertorio ormai esaminato, ho voluto concludere il percorso circolarmente, tornando su I sonetti del giorno di quarzo, in particolare, sul primo testo della raccolta. Se mi bastasse scrivere un sonetto/per dire che è un sonetto ciò che ho scritto/direi che non ne ho alcun diritto, /ne ho soltanto mimato l’aspetto. Così comincia la prima strofa, quasi un’eco alle conclusioni di Sanguineti: la metrica tradizionale ormai non può esistere che come travestimento. Eppure, travestito o no, pare che il sonetto non riesca a smettere di esistere. Del resto, con la classe ragioniamo sul fatto che Nove scrive questo personalissimo canzoniere nel mezzo della pandemia da Covid-19, a ridosso dell’esplosione del conflitto tra Russia e Ucraina e sa che in questo momento non è dato/ nessun principio in cui l’identità/ si approssimi a sé stessa. Nessuna verità, nessuna solidità, tranne forse il sonetto stesso. Ancora una volta questa forma così battuta e così riconoscibile diventa un porto franco; di nuovo fornisce una struttura a cui affidarsi e da cui allo stesso tempo affrancarsi, quasi come un buon genitore. Anche Nove, infatti, è molto lontano dallo scrivere un sonetto canonico: le rime vengono rinforzate con le consonanze, altre volte sono preferite rime imperfette, ma soprattutto gioca con l’endecasillabo. L’ultimo verso, per esempio, sarebbe infatti un endecasillabo perfetto se solo non si contasse la parola finale, trasmutato, aggiunta quasi come una dichiarazione di poetica, a ribadire che nell’eterna dialettica tra tradizione e innovazione tutto resiste ma tutto trasmuta.
[1] [1] Stefano Colangelo Come si legge una poesia, Roma, Carocci editore, Bussole, 2023, p. 7.
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Editore
G.B. Palumbo Editore
Grazie per la generosa condivisione, l’accuratezza della descrizione, lo spunto che si fa modello personale e non convenzionale, pertanto non replicabile come frusta copia conforme o riproduzione digitalizzata in serie per docenti cui si offre sempre più il piatto “pronto” (verifiche pronte, lezioni pronte, potenti mezzi digitali per ottenere in pochi clic quel che serve già pronto). Grazie per aver ricordato la bellezza del lavoro che è anche e soprattutto ricerca e soprattutto per aver pensato agli studenti come individui pensanti in una comunità ermeneutica e non, come spesso accade, a soggetti da intrattenere e cui far ingoiare la pillola amara del sapere distraendo con attrattive scenografiche, avveniristiche, attualizzanti nel senso deteriore del termine.
Grazie davvero, Marcella, per le belle parole e per questa riflessione sulla scuola, ma soprattutto sugli studenti. Concordo sul dovere di essere noi per primi a saper vedere in loro menti pensanti, e per accendere questo pensiero è importante che da parte nostra ci sia la fiducia nella scintilla che si può accendere e la ricerca continua di stimoli reali, non avveniristici, appunto, che appassionano anzitutto noi!